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Davide Carnevali e Teatrino Giullare. Menelao, tragicomico spin-off

Abbiamo visto all’Arena del Sole di Bologna il debutto di Menelao, scritto da Davide Carnevali e messo in scena da Teatrino Giullare. Recensione.

foto di Luca Del Pia

In inglese il verbo to spin indica un vorticare rapido e poco controllato. Il phrasal verb “spin off” disegna qualcosa che guizza via dall’ordine meccanico in cui era inserito, per portarsi altrove. Oggi il termine spin-off è diventato un sostantivo, ampiamente acquisito anche dalla lingua italiana grazie al suo esteso utilizzo in ambito narrativo, cinematografico, televisivo. Ma, perché no, anche teatrale.
Sofocle, riscosso un grande successo con Antigone, decideva di offrire, anni dopo, al pubblico delle Grandi Dionisie un prequel della vicenda che raccontasse la rovina del regno di Tebe fino alla presa del potere di Creonte. Una sorta di operazione poetica e insieme commerciale.
Allo stesso modo, laddove un personaggio secondario di una narrazione riscuota un particolare successo di pubblico o mostri di avere ancora “qualcosa da dire”, ecco che l’autore o l’autrice, non necessariamente quelli originari, si mettono all’opera per immaginare nuovi risvolti laterali alla trama principale, facendo appunto “vorticare via” quel personaggio verso nuove avventure, contingenti, passate o future.

foto di Luca Del Pia

Così come Breaking Bad genera Better Call Saul, o da Grey’s Anatomy nasce Private Practice, ecco che anche dal Ciclo Troiano è possibile immaginare la futura sorte di un personaggio come Menelao, di fatto l’unico protagonista sopravvissuto al disastroso assedio di Troia, causato proprio dal ratto, per opera di Paride, della bella sposa Elena. Se ne è occupato Davide Carnevali, uno dei drammaturghi contemporanei che stanno riscuotendo maggiore successo in Italia e all’estero, tradotto e messo in scena in diverse lingue in giro per l’Europa.
Menelao, visto all’Arena del Sole di Bologna nel Festival Vie, è uno spin-off dedicato a «l’uomo più ricco del mondo, sposo della donna più bella del mondo, vincitore a Ilio e regnante di Sparta» e parte proprio da questi ultimi epiteti, che disegnerebbero il protagonista come un essere umano potente, autoritario, realizzato e che invece fanno di lui una preda per un mal de vivre insanabile.
Il sovrano si crogiola in un tedio per metà comico, per metà realmente angosciante, in cui il rapporto con gli dèi si fa afasico e demoralizzante, quella vita sessuale che chiunque invidierebbe si compone di lenzuola ghiacciate e silenzi, l’aedo non sa più che storia inventare e la scrittura di un libro di memorie non fa che avvitarsi sulla considerazione del fallimento.

foto di Luca Del Pia

Come sempre nella scrittura di Carnevali, il testo passa da un agile e competente ritmo di battute a frecciatine esplicite scoccate verso l’universo sociale e politico in cui il vero protagonista è lo spettatore, continuamente chiamato in causa, più che da prevedibili agganci con la contemporaneità, da un gioco di specchi nella caratterizzazione di un apologo tragico.
Questa volta la brillante penna dello scrittore milanese incontra la «costruzione, interpretazione e direzione» di Teatrino Giullare (al secolo Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti), come di consueto in grado di comporre sul palco un universo altro, una terza via tra la filologia e la totale attualizzazione dell’immaginario. Con il solido supporto delle scene disegnate da Cikuska, lo spazio si suddivide in ambienti illuminati con maestria da Francesca Ida Zarpellon, fatti di controluce, fondali cromatici, netti tagli o piogge in grado di evidenziare un dettaglio e cancellare il resto, come se nel vuoto cosmico agissero anime indipendenti.

foto di Luca Del Pia

Anime, sì, perché dal 1995 a oggi Teatrino Giullare ha sviluppato veri e propri «artifici scenici», come si legge nei loro materiali, mescolando il teatro di figura e di maschera con una sopraffina cura dello storytelling e dell’arte attorale. Attraversando grandi classici della letteratura non solo teatrale (ricordiamo tra gli altri Thomas Bernhard, Samuel Beckett, Harold Pinter, Elfriede Jelinek), Dall’Ongaro e Deotti hanno negli anni dato forma a un linguaggio assolutamente personale, fondato su un sottile artigianato della scena. Due sono i corpi, due le voci, decine le presenze (materiche e narrative) sul palco, che si moltiplicano sdoppiandosi nell’animazione di ogni tipo di oggetto, sia esso accuratamente intagliato in legno, gommapiuma o lattice, proiettato come ombra oppure semplicemente evocato da una partitura gestuale sempre rispettosa dei tempi che servono agli attori per muovere corpi e orpelli, allo spettatore per immaginare.

foto di Luca Del Pia

Passata quasi da fratello a fratello ed epurata dai fasti dell’oro, quel celebre artefatto di arte micenea che è la maschera funeraria di Agamennone qui aderisce alle fattezze di Enrico Deotti, dando alle sue espressioni un che di già passato, di estinto, di meccanico. Zeus è un busto “non finito” che ricorda i tratti scultorei dei Prigioni di Michelangelo; si sposta a fatica su un piedistallo, muove le labbra a sincrono, partorisce dalla testa la figlia Atena, dea della sapienza, delle arti, della guerra.
Tutti e tre questi ultimi termini si inseguono nei risvolti irresistibili di una drammaturgia fatta di riferimenti colti e popolari insieme, colorata ora da un garbato turpiloquio ora da stilettate di pura poesia. La messinscena è in grado di far convivere dimensione reale e dimensione onirica, di richiamare alla memoria burattini e guarattelle o ricostruire l’errare stanco in un museo che si anima di notte, mettendo corpo, voce, ambiente scenico e oggetti al servizio di questa preziosa anomalia narrativa.
Vorticando via dalle narrazioni classiche, allacciando mitologia e cronaca, sommessa comicità e sardonica autocoscienza, in questo Menelao respira a fondo lo spirito esausto di questi tempi, regalato a una platea che potrebbe, davvero, non avere età. Se non è questa la potenza del teatro.

Sergio Lo Gatto

Teatro Arena del Sole, Bologna (Vie Festival) – marzo 2019

MENELAO
testo di Davide Carnevali
spettacolo costruito, interpretato e diretto da Teatrino Giullare
scene Cikuska
luci Francesca Ida Zarpellon
co-produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatrino Giullare
con il sostegno di Regione Emilia-Romagna
si ringrazia Gianluca Vigone

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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