La Biennale Teatro ha assegnato il Leone d’Argento al regista olandese Jetse Batelaan. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per conoscere meglio il suo lavoro nell’ambito del teatro per ragazzi. Intervista.
La bella novità di quest’anno è stata l’annuncio che la Biennale di Venezia – Teatro diretta da Antonio Latella consegnerà il Leone d’Argento a un regista che si occupa ormai esclusivamente di teatro dedicato alle giovani generazioni. Jetse Batelaan, classe 1978, studia alla Amsterdam School of the Arts e lavora come artista indipendente, legandosi poi al Theatergroep Max e al gruppo di mimo Bambie. Dal 2009 al 2013 è regista associato al Ro Theater di Rotterdam e nel 2013 viene nominato direttore artistico del Theater Artemis, una delle maggiori compagnie di teatro ragazzi in Olanda.
Lo abbiamo raggiunto al telefono mentre è in prova proprio in questo spazio. Ci risponde mentre, dal palco, si avvia verso gli uffici. La linea cade poco dopo le prime presentazioni, recuperiamo la telefonata quando i rumori della sala in piena attività sono ormai lontani. Jetse Batelaan siede nel proprio ufficio e risponde alle nostre domande ragionando molto sulle risposte, alla ricerca delle parole giuste in un inglese cauto e però mosso da una certa timidezza, che lo porta a ritrovare certe motivazioni cresciute in lui nel corso degli anni.
In un’intervista pubblicata su Planetarium, Chiara Guidi parlava del suo «teatro infantile», un teatro in cui dovrebbero essere ammessi tutti a godere di un «linguaggio universale come quello del rito» e in cui un adulto «non dovrebbe avere paura delle paure di un bambino». Un pensiero simile viene fuori da questa conversazione.
Come ha scelto di diventare un regista teatrale e perché?
Ho studiato da regista teatrale, così ha avuto inizio la mia carriera, ma fin dal primo momento ho lavorato anche come autore. Quindi non mi sono mai limitato a mettere in scena dei testi, sono sempre stato molto vicino al physical theatre: il mio linguaggio non si è mai poggiato molto sulla parola, piuttosto sul teatro visuale e di movimento. Probabilmente anche questa è stata la ragione per cui il mio lavoro è stato programmato innanzitutto per le giovani generazioni, non c’è mai stato molto testo. Per me è stato un passaggio piuttosto logico quello di lavorare in diversi contesti, sia dentro ai teatri che in progetti site-specific, sia per adulti che per bambini. Io creo innanzitutto a partire dalla mia immaginazione, per cui è sempre di grande ispirazione il fatto di non fissarmi su una sola domanda, ma di pormene molte. Anche per questo amo lavorare per i bambini. Ho cominciato come freelance, prima di diventare regista associato a una delle maggiori compagnie a Rotterdam, il Ro Theater (oggi è chiamato Theater Rotterdam). Nel 2013 ho accettato di diventare direttore artistico del Theater Artemis e da quel momento in poi ho deciso di dedicarmi completamente al teatro per il giovane pubblico.
Da dove è arrivata la decisione di occuparsi di teatro per ragazzi?
In quel momento la situazione dei finanziamenti alle arti era molto dura in Olanda, gli artisti erano molto in difficoltà, perché il loro rapporto con la società veniva messo in crisi. Piuttosto che arrabbiarmi per i tagli subiti ho preferito pormi delle domande. A quel tempo mi capitava spesso di portare i miei spettacoli nelle scuole e ho pensato che nessuno poteva dubitare del valore di un lavoro come quello, di questo ero molto convinto. Quel lavoro aveva un significato e una propria importanza effettiva e questa è divenuta una delle principali motivazioni per intraprendere quella strada, mi sentivo molto più libero: nel teatro per adulti si avvertiva un continuo pericolo di perdere pubblico. Potrei dire che si sia trattata di una forma di fuga dalla necessità di produrre grandi spettacoli che potessero soddisfare grandi fette di pubblico. Il teatro per ragazzi può essere un campo molto aperto e libero, specialmente quando, piuttosto che portare gli spettacoli nelle scuole, si ha la possibilità di invitare i giovani spettatori in uno spazio altro. In questo modo davvero si perde ogni limitazione.
Qual è il suo punto di partenza quando pensa a un nuovo spettacolo?
Direi che un primissimo punto di partenza è il target di pubblico. Mi concentro molto sul capire che cosa possa risultare entusiasmante da veder accadere in scena per quella fascia d’età a cui intendo dedicarmi. Amo sempre pensare a una modalità scenica che possa includere anche gli spettatori attivamente, un processo attraverso il quale loro possano disturbare noi e noi possiamo disturbare loro. Ovviamente molte cose cambiano di progetto in progetto, ma posso dire che sono affascinato dal poter creare qualcosa di impossibile. Naturalmente il teatro è fatto di regole, ma si tratta di regole specifiche per giovani o giovanissimi spettatori, ma io sono interessato a tentare tutto ciò che normalmente sembrerebbe impossibile fare di fronte a determinate fasce d’età. Gioco molto sull’aspettativa che gli spettatori possono maturare rispetto a ciò che accade in scena.
La questione delle fasce d’età è una delle più importanti e, a volte, spinose per gli artisti che si occupano di teatro per ragazzi. Eppure sappiamo che i bambini non vanno a teatro da soli, sono sempre accompagnati dalle famiglie o dagli insegnanti. Lei crede sia possibile costruire una sorta di linguaggio universale? Un codice che possa essere adatto per tutti?
Ad Amsterdam, per esempio, abbiamo un’ottima opportunità, che è quella di essere programmati con lo stesso spettacolo in due diversi spazi, uno dedicato al teatro per famiglie, l’altro impegnato a ospitare il teatro d’avanguardia. La verità è che anche laddove ci rivolgiamo a un pubblico di soli adulti funziona, perché sembra esserci sempre qualcosa di fortemente legato al “fare teatro”. Ma pensare a uno spettacolo adatto a tutti non conquista il centro della mia attenzione nella fase delle prove. Di certo mi interessa creare qualcosa che anche per noi risulti entusiasmante, e noi siamo adulti. Ma non vedo molto questa contraddizione, che è invece appartenuta molto alla generazione precedente alla mia, molto impegnata a comunicare l’idea che nel teatro l’età degli spettatori non contasse affatto. Rispetto a questa impostazione, i miei primi spettacoli somigliavano a una strana provocazione, quasi un ritorno a un teatro ragazzi più vecchio stile, perché ritenevo invece molto importante la questione dell’età. Mi vedevano come uno che era interessato a tornare a un’idea di teatro per ragazzi in cui gli adulti si mettono in ginocchio e parlano direttamente ai più piccoli. E invece facevo il contrario, perché, pur prestando attenzione alle fasce d’età, non davo mai loro quello che volevano, ma esattamente il contrario. Al punto che uno dei miei punti di partenza era proprio cercare di capire che cosa potesse non piacere a quei bambini, di che cosa potessero avere paura. Per esempio il mio primo spettacolo, indirizzato a bambini dagli otto anni in su, si intitolava The Show in Which Hopefully Nothing Happens (Lo spettacolo in cui si spera non succeda niente) e li metteva di fronte a una delle peggiori paure quando si va a teatro: la noia.
Quale valenza politica può avere il teatro, specialmente quando si producono spettacoli per ragazzi?
I nostri spettacoli sono come delle avventure e sono un’esperienza piuttosto spaventosa, perché non si conoscono le regole. Lo spettatore entra e non ha idea di che cosa possa accadere, forse potrebbe trovarsi coinvolto in prima persona, quindi per qualcuno può risultare molto spaventoso. Per me l’atto più importante è quello di consegnare ai nostri bambini questo tipo di esperienza e dimostrare loro che possono sopravvivervi. Non dovremmo aver bisogno di proteggerli, non dovremmo far sì che temano ciò che non conoscono, perché insieme possiamo sopravvivere, scoprendo nuove regole e nuovi modi per avere a che fare uno con l’altro. Quindi il valore politico per me sta proprio nell’esplorare questa paura. Se mi forzo a pensare a che cosa stiamo insegnando loro – anche se mi sembra una follia, perché noi facciamo arte – l’insegnamento riguarda la confidenza, la capacità di sentirsi in grado di agire. Questa esperienza ti porta a fronteggiare ciò che non conosci, ma il messaggio è che non dovremmo aver bisogno di conoscere sempre tutto, va bene quando c’è del caos, va bene quando non c’è qualcosa di rassicurante. È un discorso potenzialmente molto ampio: potremmo star parlando di come crescere i bambini, di come proteggerli dal pericolo, ma anche di come la nostra società si rapporta alle persone che non conosce, che vengono da altre geografie. Questo è il lato politico del mio lavoro.
Qualche anticipazione sugli spettacoli che porterete alla Biennale 2019.
Presenteremo uno spettacolo pensato per un grande palco, dedicato alle famiglie e ai bambini dagli otto anni in su, intitolato The Story of the Story. È una delle ultime produzioni, che ha debuttato lo scorso autunno. Amo molto questo lavoro, perché in qualche modo rappresenta una sintesi di tutto ciò che ho fatto finora e parla di che cosa succede quando non c’è realmente una storia. Si parla del nostro essere assuefatti alle storie e, per me costituisce una questione filosofica, del fatto che sempre vogliamo che la nostra vita abbia un senso. Prima avevamo religione, politica, ideologie; ora che le stiamo perdendo stiamo cercando di comporre una storia a partire dalle nostre stesse vite, creando una narrazione tramite social media. Di certo abbiamo bisogno di una storia, eppure una storia non c’è. Io credo che, in fondo, siamo animali, non abbiamo una storia e non dovremmo spaventarci di questo. Quindi parliamo di come sopravvivere in un mondo che non ha più storia.
Presenteremo poi War (2017), pensato per bambini dai sei anni in su. Parla della guerra, ovviamente e nella fase di creazione ho pensato che il nostro progetto di trattare un tema impossibile stesse avendo fin troppo successo (ride, ndr): davvero non sapevo come maneggiare questo soggetto. È qualcosa di così presente e, da un punto di vista etico, è davvero qualcosa di difficile da trattare; non riuscivo davvero a scherzarci su ma al contempo non potevo davvero riprodurre il reale impatto di una guerra perché sarebbe stato troppo per i bambini. Che fare dunque? Per me è stato di grande aiuto il fatto che, fortunatamente, io non so nulla di guerra. Non si tratta più di un problema anagrafico, il tuo livello di comprensione della guerra non dipende da questo, anche perché sfortunatamente è invece pieno di bambini che conoscono quella dimensione molto meglio di quanto noi potremmo mai imparare da libri o giornali. Il fatto che non ne sapessimo niente è di fatto diventato un punto di partenza, perché il tema era qualcosa di troppo grande. Abbiamo allora diviso lo spettacolo in diverse “battaglie”, andando a parlare di quanto facile sia dare inizio a una guerra – o a uno spettacolo che parla di guerra – ma anche quanto difficile sia mettere un punto. Se vuoi mettere fine a un’opera intitolata War devi arrivare a una forma di pace, ma questo è davvero molto difficile.
Sergio Lo Gatto