Pier Giuseppe Di Tanno, anche noto come Pierugo Le Bon, ha ricevuto il Premio Ubu 2018 come Miglior Attore/Performer Under 35. Lo abbiamo intervistato in una inedita modalità che abbiamo chiamato “dialogo a distanza”.
Il Premio Ubu 2018 ha regalato qualche luminosa sorpresa. La riforma delle categorie, avviata già da qualche anno, combinata con un’azione sinergica di alcuni referendari impegnati a portare sotto ai riflettori anche la qualità e le promesse tenute nascoste dalla grande circuitazione, ha spinto nelle terne dei finalisti nomi nuovi e realtà militanti.
Dedicando queste pagine a dare voce a tutti i tenaci rivolgimenti del linguaggio contemporaneo, abbiamo pensato di rivolgere qualche domanda a PierGiuseppe Di Tanno, uno dei vincitori del Premio al Miglior Attore/Performer under 35, ex aequo con il danzatore e coreografo Marco D’Agostin.
Lo avevamo apprezzato in Lucifer di Industria Indipendente e visto poi splendere e sudare dietro alla maschera da teschio di Sei… e dunque perché si fa meraviglia di noi? di Roberto Latini/Fortebraccio Teatro.
Abruzzese, classe 1983. Snello e vigoroso nel fisico, il suo capo rasato lascia scendere sulla nuca un lungo ciuffo di capelli blu. La sua espressività vocale non è seconda a un attento studio sulle potenzialità del movimento. Ma queste caratteristiche sono frutto della memoria, ché il nostro dialogo – decidiamo – avverrà invece a distanza. È difficile incontrare dal vivo PierGiuseppe Di Tanno, che si dichiara «zingaro», con la vita «tutta in uno zaino», come si legge nell’intervista su Scene Contemporanee. Nessuno dei due ama il telefono, ma entrambi amiamo la scrittura. Decidiamo allora per una forma inedita. Un dialogo a distanza condotto via email, che ora si fa serrato, ora lascia passare giorni interi, ora si svolge in piena notte, ora nelle prime ore della mattina. In questo tempo alterato si sviluppa una conversazione a metà tra la confessione intima e un’indagine ancora aperta, per questo giovane che si auto-proclama «PIERformance artivist».
Massimo cinque parole che ti descrivono, come essere umano e come artista.
ABRACADABRA BLU FORESTA SOTTILE BRUCIA
Se dico corpo tu come rispondi?
Grido una preghiera: Io.
Testo, identità, immagine. Che cosa li collega?
Tre vie attraverso cui la “Storia” si fa carne, si rivela. Le collega il sangue umano, e tutte e tre sono ferite.
Qual è, se ve n’è uno, l’orizzonte di dignità che un performer deve conservare oggi nei confronti della materia che maneggia e dello spettatore che incontra?
Ancora una volta le parole ci lasciano distanti: quando tu nomini la “dignità”, risuona in me un allineamento personalissimo, un respiro, un’aderenza intima che non riesco a tradurre in qualcosa di valevole per tutti. Dato che parli di orizzonte, continuerò a tracciare coordinate spaziali. In questo mio fare, è importante, anzi vitale, dove mi posiziono, lo scenario in cui installo la mia semplice presenza. È dire: “se mi trovo qui, è perché questo è il luogo che scelgo e questa è la via in cui desidero abitarlo – ora, da qui, tutti possono vedere me ed ogni fatto da me agito”. Basta questo ad illuminare il mio volto per ciò che è: manifesto politico, mondo. Verso chi risponde a quest’invito, a chi è testimone di questo svelarsi della mia identità, io rivolgo una cura che si anima attraverso il senso del dono, dell’offerta, del valore di quel che ritengo urgente “mettere in circolazione”. Nel tempo della rappresentazione, ciò a cui gli altri assistono e con i sensi ricevono, io non posso vederlo: io lo sono. Esiste fragilità maggiore e insieme posizione più autorevole? Scelgo quest’ultima parola nel ricordo di “Auctor”, e cioè “Colui che fa aumentare” (questo patrimonio immortale di ogni collettività che è il rito): dunque l’orizzonte verso cui tendo si traduce in una spinta a donarsi e onorare la grazia di questo privilegio tempestoso. È come brandire una spada: con lei posso accarezzare o ferire a morte.
Mark Twain una volta ha scritto: “Nella Storia abbiamo già visto accadere talmente tante cose che non abbiamo responsabilità di farne accadere altre. Possiamo stare comodi nel nostro non essere determinanti”. La dimensione politica della performance. È ancora viva? Serve ancora?
Potrei essere d’accordo, e trovare anche banale l’accadere contemporaneo: percepisco, certo, che la via sarebbe quella di suicidarsi dalla Storia e trascorrere in meditazione questo tempo in cui muoriamo. Sedere, immobili, comodi come dice Twain, e ad occhi chiusi scegliere ogni istante di non reagire. Ma poi, la realtà è che esco fuori, mi butto nelle strade, dico…
Su questo pianeta, anche di libri ne abbiamo sicuramente troppi: nonostante ciò dubito che Twain dopo aver pronunciato questo pensiero abbia smesso di scrivere (Fortuna!). Dunque, nella natura delle cose è compreso il nostro cedere alla tentazione di “essere determinanti”. Politica è ogni incarnazione, ogni fatto, tutti gli eventi che cadono nella rete pubblica dell’esistere umano: politica ritengo la mia dieta alimentare, il linguaggio che decido di suonare, e potrei continuare questo elenco tenendomi in equilibrio fra tutto quello che pongo in essere e ciò che rifiuto. Così anche la “performance”, che come hypertext accoglie in sé innumerevoli possibilità espressive, e ne continuerà a spalancare di nuove. E di questo, perché non dichiararsi responsabili? Grande è il potere del rito, al di là delle sue declinazioni formali (Teatro, Performance-Art…): è necessario mantenere la consapevolezza che ciò che si agisce contribuisce a creare il campo comune in cui siamo, e che ogni affluire potrebbe vibrare di altezze rivoluzionarie. Ci vorrebbe un rasoio, come quello di Occam, per far scomparire tutte le manifestazioni impure che non onorano questo comandamento. Che bel rischio, la tabula rasa!
[Riconosco, oggi con più ardore, la forza dello spettatore performante, è lui l’autore e il luogo della trasformazione. Poco fa ho visitato l’esibizione di Marina Abramović a Palazzo Strozzi, e in quelle ore ad abitare lo spazio eravamo una folla di centinaia di persone. L’esperienza di essere scosso da tutti quegli attraversamenti, dopo una prima impressione epidermica di consumismo da centro commerciale, è stata rivelatrice rispetto alla potenza eversiva del linguaggio performativo: «Queste opere hanno attratto le nostre presenze e noi tutti in questo momento stiamo offrendo il nostro tempo ricercando disperatamente un’intima trasformazione o rivelazione», pensavo mentre osservavo l’interminabile fila per sedersi a contare i chicchi di riso…]
Torniamo all’estetica. Che differenza, nel tuo lavoro di performer o in quello che vedi svolgere ai colleghi, tra un compito serio (tragico, romantico, lirico) e una profonda presa in giro dello spettatore? È possibile davvero dialogare con uno spettatore garantendo che tra le due cose non si faccia confusione?
Per me ESTETICA = ETICA. Non credo sia questione di garantire qualcosa a qualcuno, anzi, si tratta di attrarre il pericolo, di rischiare la bellezza. E il rito si fa insieme, non c’è scampo. Mi vengono in mente i racconti di Masaki Iwana sulle sue primissime creazioni: sceglieva un luogo, e lì stava, verticale, immobile, nudo. Accadeva che la gente non voleva più andarsene. Non c’è possibilità di malinteso quando qualcosa brucia: si vedono le fiamme, o se ne avverte il calore. Più che la “profonda presa in giro”, che sarebbe anche folk, il crimine inaccettabile è la perdita di tempo. Sto parlando oltre il concetto di “gusto”, sia chiaro, e anche testimoniando un lavoro bisognerebbe scavalcare il dualismo del like or dislike. Sarebbe prezioso.
Concordo su like/dislike, anche la critica che amo cerca di occuparsi di questo. Ma di certo anche tu ti trovi di fronte a scelte operate completamente “di pancia”, dettate, se non dal like/dislike, almeno da interesting/ not interesting. Che cosa ti interessa al punto da sceglierlo come modello? E perché?
Sono attratto dal movimento dello slash tra quei due assoluti, dalla regione senza nome tracciata da quel segno obliquo che sconfina, taglia il mondo, apre uno squarcio, da tutto ciò che non è esatto, che è hardcore, che sento liminare, intersezione. Ho fede nei superartisti che riescono a diventare invisibili, nel virtuoso che si fa trasparente e in cui l’altro può riflettersi, in chi nel suo artigianato sta celebrando la propria scomparsa, nei martiri, in Giovanna D’Arco: sono come punti luminosi che orientano la navigata sotto un cielo nero. Sono guide che rendono respirabile l’orrore del tempo presente, sono il mio antidoto.
Qualche esperienza vissuta da spettatore che ti ha davvero segnato o influenzato?
El año de Ricardo di Angélica Liddell, visto l’anno in cui vinse il Leone d’Argento in Biennale: ancora ne sento l’eco. Loungta, les chevaux du vent di Théatre Équestre Zingaro di Bartabas e le creazioni di Peeping Tom (qui un’intervista al coreografo Franck Chartier, ndr). Amleto + Die Fortinbrasmaschine di Fortebraccio Teatro.
Il tuo profilo Instagram somiglia a un altro luogo dove mostri diverse angolature della tua “persona”, tra travestimenti, dettagli, accessori e immagini esterne al tuo lavoro. Con quale criterio usi questo social network?
Trovo che Instagram sia un upgrade del gioco “Cadavere Squisito” dei Surrealisti, è condividere dei mini-haiku virtuali, l’illusione di essere pubblicati all’istante. Ma lì, per me, vale la formula magica je est un autre: non sono io, è Pierugo Le Bon. La cosa grottesca è che questo battesimo social ha rimescolato la mia identità “reale”, non hai idea di quante persone sono convinte che il mio nome sia Pierugo: poco fa ho girato un video e nei titoli di coda hanno scritto “Pierugo Le Bon”. L’ennesima prova che dal nome bisogna rendersi liberi.
Ma, in fondo, perché Pierugo Le Bon?
L’origine è un arcano: non si può rivelare. E qui farei partire Turandot, atto III: «Ma il mio mistero è chiuso in me… il nome mio nessun saprà…».
Sergio Lo Gatto