Al teatro Stanze Segrete di Roma è andato in scena Il sogno di Nietzsche di Maricla Boggio con la regia di Ennio Coltorti. Recensione
Il teatro può essere ovunque, anche fosse su un semplice tappeto, diceva Peter Brook. Dopo le platee di pietra in cui far risuonare voci potenti, le fughe prospettiche dentro cui perdersi nell’architettura di una scena illusoriamente vicina al reale, i ferri di cavallo in cui dimenticarsi del palco e rivolgere lo sguardo agli altri spettatori, i teatri circolari, gli happening, il rifiuto degli spazi chiusi, l’eterno ritorno al teatro all’italiana, le riflessioni sull’idea di spazio che non approderanno – né, trattandosi di materia sempre viva, potranno approdare mai – a un definitivo, sembra che la riflessione sullo spazio teatrale, ora, sia per lo più ristretta allo spazio della scena, inscatolata o meno.
Stanze segrete, un piccolo teatro da camera dentro il quartiere romano di Trastevere, spesso porta a questi pensieri, e in generale a riflettere sullo spazio intero. L’occasione contingente è data da Il sogno di Nietzsche, un testo scritto da Maricla Boggio e diretto da Ennio Coltorti che difficilmente potremmo pensare in un luogo diverso da questo.
Per ovviare alla dimensione ridotta del teatro e far esplodere le vicende che videro il filosofo immerso in un triangolo amoroso-intellettuale con Salomé Lou e Raoul Rée (una riduzione dell’Ecce Homo, che l’anno scorso celebrava il suo 130° dalla pubblicazione), c’è una balaustra e le pareti sono piene di specchi. Prima dello spettacolo gli spettatori sono invitati a lasciarsi sorprendere (ancora risuonano le parole di Brook, «il teatro deve essere inatteso, guidarci alla verità attraverso la sorpresa», effettivamente richiamate dai fondatori delle Stanze Segrete), a guardare attraverso gli specchi gli attori, scegliere la propria prospettiva, capire come abbracciare con lo sguardo lo spazio scenico e gli altri spettatori. Potrebbe sembrare velleitario, eppure, nel momento in cui il lavoro attoriale e registico fa davvero i conti con il luogo in cui si trova ad agire, effettivamente il cortocircuito avviene. Ci si perde dentro ai meandri degli sguardi in penombra, del filosofo impossibile da definire, sempre smanioso di sovvertire le leggi del mondo e talmente grande da mettere continuamente in discussione le proprie. Il personaggio, interpretato dallo stesso Coltorti, ha l’imperturbabilità di un volto antico, gli occhi di fuori, presbiope chino sul taccuino, costantemente nel tentativo di andar dietro al proprio pensiero, mellifluo eppure comprensivo. Stona un po’ il tono iniziale, un urlo smanioso e inneggiante che ha già raggiunto il proprio apice, mentre si adatta bene nel corso dell’opera, se ne scorgono le motivazioni, i passaggi e i non detti, le sofferenze e i desideri di andar sempre avanti.
Almeno quattro sono i punti di vista disponibili per chi guarda; dalla nostra seduta triangoliamo le posizioni degli attori, iniziamo a spostare il pensiero da una prospettiva geometrica (tre attori posti su tre piani diversi, che si danno le spalle e guardano verso l’esterno, o che sostano al centro, salgono le scale o spariscono momentaneamente) e approdiamo a una dimensione metaforica che contempla distanza e vicinanza assieme.
Dagli specchi vediamo lei, Salomé, suo malgrado dentro una diatriba sentimentale, desiderosa della propria indipendenza dal maschio, sempre al centro, sempre più in alto degli altri due. Adriana Ortolani forse a volte prende troppo alla lettera la volontà della scrittrice e psicanalista di non lasciarsi andare all’emozione, e permette che il proprio personaggio si appiani su poche sfaccettature; più denso invece appare Jesus Emiliano Coltorti, costretto a mantenere una tensione mai sfogata del tutto nel suo Rée, rivelando quell’amore impossibile che trova senso soltanto lasciando andare l’amata, standole accanto senza mai possederla.
Se c’è un limite in questo lavoro è forse nel rischio di maneggiare una materia come la filosofia, di denunciare parole sovversive e incredibilmente forti, senza che queste vadano oltre l’argomento intaccandone nel profondo la forma. Il coté è quello del romance, che del filosofo dell’Ecce Homo prende la vita ma del pensiero non fa tesoro fino in fondo, il doloroso conflitto tra dionisiaco e cristianesimo, tra nichilismo o esaltazione dell’io. Il “Come si diventa ciò che è” (così recita il sottotitolo dell’ultima opera completa) in questo Sogno sembra quasi ridursi al potere dell’amore negato. D’altro canto, però, il Nietzsche sulla scena dichiara che «il genio non è talento umano ma solida serietà di mestiere». Scostiamo la schiena dalla sedia per osservare degli attori guardarsi negli occhi, hanno accanto degli estranei, c’è chi li guarda, chi tossisce loro accanto, continuano a recitare, è questo il loro mestiere, lo portano a termine.
Viviana Raciti