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Intervista a C&C Company. La danza? Un’arte anfibia

In occasione dello spettacolo Beast without beauty di C&C Company il 16 e il 17 febbraio 2019 al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, intervistiamo uno dei fondatori, attualmente direttore artistico della compagnia nonché autore dello spettacolo: Carlo Massari. Contenuto creato in media partnership.

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Foto Ufficio Stampa

Beast without beauty, che lavora sullo scardinamento di diversi miti del nostro immaginario, sembra far emergere criticamente l’idea di relazione come sopraffazione, come messa sotto scacco. Quali sono le tracce da cui si è generato questo concetto e quali sono state le fasi che hai attraversato?

Il lavoro su Beast without beauty è stato una rarità rispetto alle tipiche tempistiche da produzione italiana. Mi spiego meglio: da anni lavoro tra Italia ed estero, soprattutto in Belgio con una compagnia che si chiama Petri Dish, con delle produzioni che, dati gli investimenti di tempistiche e economie sulla cultura, permettono indagini più approfondite. Ho fatto una scommessa, allora, scegliendo di lavorare anche in Italia con tempi più lunghi. Nel luglio 2017 abbiamo dedicato a questo progetto due settimane di lavoro, un primo tentativo per esplorare il tema della bestialità, sul quale avevo iniziato a lavorare già dal marzo precedente. Grazie anche a Komm Tanz a Rovereto abbiamo potuto portare avanti il progetto.

Da li la scommessa è stata quella di poterlo pensare realmente come produzione, dedicando interamente la nostra attenzione in tempi più lunghi e non soltanto arrangiandoci o ritagliando spazi tra i vari impegni. Dunque, il percorso è proseguito nell’ottobre 2017, aprile-maggio 2018, e poi ha avuto la fortuna di poter sfruttare, avendo anche altri partner che si sono aggiunti, anche giugno, luglio e agosto 2018. Avere avuto il “lusso” di pagare degli stipendi, dare un agio dal punto di vista di alloggi e trasporti, è stato uno sforzo enorme!

Da un punto di vista delle tematiche, inizialmente il lavoro avrebbe dovuto chiamarsi Killing Me Softly: ci siamo buttati in sala dunque con l’idea di lavorare su un lento soffocamento dell’altro, su una carezza o una stretta di mano che però stringe un po’ troppo. Abbiamo lavorato su una sorta di violenza taciuta, subdola, qualcosa che dall’esterno non vediamo ma che fa male, sia in termini fisici che psicologici.

Foto Ufficio Stampa

Il lavoro si è illuminato alla fine della prima sessione di lavoro, quando ho guardato tutto di filato è ho realizzato che quella leggera pressione non è solo tra un individuo e l’altro ma è anche una pressione generale, è qualcosa che riguarda anche l’Europa – vedi cosa è successo a livello politico proprio in questi ultimi giorni. Parliamo di equilibri distorti, un piccolo attrito lentamente genera un’erosione tra due corpi, così come un’erosione tra due stati.

A ottobre è arrivata la rivelazione finale, con  l’inserimento della Germania nazista in ogni sua forma [Massari fa riferimento ad alcuni elementi che dichiaratamente richiamano il periodo all’interno dello spettacolo, ndr]. Non per guardare al passato o per parlare specificatamente della Germania, ma per guardare al presente, prendendo un riferimento negativo del passato, poter avere uno specchio rispetto al presente o un monito per il futuro.

Le cose si sono unite man mano; è stata proprio questa la fortuna, aver avuto il tempo per far sedimentare i vari momenti al punto da rimanere illuminato da come le cose si incastrino.

L’altra fortuna, oltre al tempo lungo, è stata la possibilità di presentarlo nelle varie fasi di lavoro. Io parto da un principio che in danza odiano molto: parto dal termine “usare”, cioè prendere un linguaggio, un alfabeto, che in questo caso è quello della danza, e usarlo in quanto tale, non decidere  un tema, un pretesto a caso, tanto per danzare. Mi turba molto questa cosa ogni volta che la vedo: in Italia è molto presente questo atteggiamento per cui puoi scegliere qualsiasi argomento a caso, purché l’importante sia danzare. Noi proviamo a usare la danza, tanto  quanto la parola o il canto, per portare lo spettatore verso un concetto, verso un pensiero, verso il punto interrogativo che deve dare il teatro.

Anche il riferimento a Beckett va in questa direzione; a molti è sembrato una forzatura, ma come, è uno spettacolo di danza e tiri in ballo lui? E invece sì, soprattutto un testo come Giorni felici parla di staticità, o meglio di agitazione che causa uno sprofondamento della vita. Nella mia idea è presente questa sorta di ombra nera di morte. In questo senso abbiamo fatto un lavoro sullo sguardo, sui corpi morti. Abbiamo inserito anche dei riferimenti alla cinematografia di Roy Andersson, il quale si rifà anche lui esplicitamente a Beckett, in una sorta di staticità da post apocalisse, vedi queste figure che stanno in piedi per arte d’incanto, carnagioni chiare emaciate, stanno lì per sopravvivere, ma la loro non è una vita; figure che sono pronte a un ultimo collasso finale. Anche su questo abbiamo lavorato.

Foto Ufficio Stampa

La caratteristica del lavoro di C&C Company è fondata su una compresenza di elementi teatrali e coreutici, come si lavora nel mettere assieme questi due elementi, da quale si parte?

Sebbene a livello ministeriale siamo considerati una compagnia di danza, ogni tematica che affiora, ogni argomento che voglio trattare mi suggerisce in sé come vuole essere raccontato, come vuole essere portato avanti. Io tento tutte le strade, dunque la scelta avviene in maniera molto fisiologica. A livello metodologico, di solito, nel periodo precedente alle prove, chiedo a chi lavora con me di creare una scatola di materiali, musiche, foto, immagini, riflessioni, non c’è nulla di sbagliato a priori, qualsiasi cosa è giusta  se lo è rispetto all’argomento da affrontare. Dopodiché ci si confronta, si seleziona, si inizia a esplorare quanto è emerso dunque si crea una scatola comune, poi la si mette da parte e, date delle parole chiave rispetto ai materiali, decisi gli argomenti che intendo affrontare, ci si butta in sala e si inizia una ricerca puramente fisica.

Per fisica intendo dire mettere un corpo in scena, non significa per me solo una sequenza di movimento ma comprende anche la parola, qualunque muscolo possa essere usato è chiamato in causa nel nostro lavoro, anche le corde vocali. A volte, in passato mi è capitato di voler partire da una coreografia ma mi sono trovato con uno spettacolo di parola. La fortuna che mi ha dato il Belgio è proprio l’idea di “arte anfibia”, qualcosa in cui il performer può passare da un elemento all’altro senza soluzione di continuità. È semplice per me il passaggio da un linguaggio all’altro, più complicato e complesso vietarmelo. Io sono partito dalla prosa pura – Pirandello, Goldoni… – poi a un certo punto ho pensato che avrei voluto utilizzare anche altri linguaggi, altri modi per poter comunicare senza scordarmi quello che avevo fatto. Da lì mi sono buttato sul fisico e ho scoperto un altro mondo. Tuttora sto provando a impastare, a fare un melting pot di questi linguaggi al cui interno si possa difficilmente distinguere dove inizi l’uno e dove finisca l’altro.

Foto Ufficio Stampa

Se dovessi raccontare il tuo lavoro a uno spettatore poco avvezzo al tuo linguaggio contemporaneo su cosa vorresti che si soffermasse? Cosa lo inviteresti a guardare?

Il teatro sta diventando un circolo privato, ma io sono sempre affamato di pubblico, per me è fondamentale, è un confronto reale, l’unico davvero possibile. Per rispondere alla tua domanda, ti cito alcune parole di spettatori, che sono il mio orgoglio. Dopo il primo spettacolo che facemmo, Corpo e Cultura, da cui deriva il nome di compagnia e non, come molti pensano, da Carlo e Chiara [Taviani, altra fondatrice storica della compagnia ora guidata solo da Massari, ndr], si avvicinò uno spettatore anziano e ci disse “vi ringrazio perché quando vi ho visto, ho capito quanto fosse semplice e come potessi essere io in scena al posto vostro”. Da lì, ogni volta che abbiamo fatto spettacolo e veniva uno spettatore a dirci così pensavo che forse era questa la forza che avevamo trovato nel nostro lavoro. A Verona, l’altro giorno, uno spettatore ci ha detto: “che bello, allora la danza contemporanea può essere semplice, può far ridere”. Senza banalizzare, credo che nell’arte del clown ci sia una potenza enorme: noi ridiamo per qualcuno che scivola su una buccia di banana ma in realtà sono i nostri scivolamenti sulle disgrazie della vita.

In Beast without Beauty ci sono diverse morti: durante una di queste, cade uno dei due danzatori e rimane accasciato a terra, l’altro prima lo piange poi si giustifica e a un certo punto inizia una partitura fisica puntellata continuamente da dei sonori “bah”, come a dire: a me quanto interessa che questa persona sia morta, o ancora, quanto era utile questa persona all’interno di questo spettacolo? Se ci pensi, è proprio questo il menefreghismo contemporaneo.

Ecco, la forza del nostro lavoro credo stia nella facilità di comprensione, nella riconoscibilità da parte dello spettatore e in una grande ironia nell’affrontare una realtà estremamente drammatica. Queste sono le parole chiave e in questo spettacolo sono più che mai evidenti.

Il claim della stagione del Teatro Biblioteca Quarticciolo è “cosa può un  teatro?”. Come rispondi?

Può ancora darti il senso del vivo. Forse è l’unico motivo per cui ancora ci andiamo: il potere avere qualcosa di reale in un sistema completamente virtuale.

Redazione

BEAST WITHOUT BEAUTY
creazione originale Carlo Massari/C&C
con Carlo Massari, Emanuele Rosa, Giuseppina Randi | light designer Francesco Massari costumi Gabriella Strangolini  | acconciature Bruna Toneatto
produzione C&C Company
in co-produzione con Festival “Danza in Rete” Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza
con il sostegno di Festival Oriente Occidente/CID Centro Internazionale della Danza, CSC Bassano del Grappa, Piemonte dal vivo, ARTEVEN, Mosaico Danza, h(abita)t – Rete di Spazi per la Danza/Leggere Strutture Art Factory, Comune di San Lazzaro di Savena “Protagonismo e Creatività” | con il supporto di Residenza I.DRA. e Teatri di Vita nell’ambito del “Progetto CURA 2018”

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