Arriva al Teatro Vascello di Roma “Who Is the King?”, progetto di Lino Musella e Paolo Mazzarelli sulla “serie teatrale” di Shakespeare. Una complessa e avvincente operazione narrativa. Recensione.
Da qualche anno ormai possiamo aprire il computer di casa e accedere a centinaia di contenuti cinematografici (o televisivi? Ormai questa distinzione non ha davvero più senso). Stanno lì, a portata di click, pronti per noi, tradotti per noi, sottotitolati per noi. Ormai anche prodotti per noi.
L’atto della visione sta cambiando perché sta cambiando il contesto, compresso in una sfera domestica, molto spesso individuale, riposizionato in ore della giornata una volta adibite ad altro: se prima pranzando guardavamo la TV o ascoltavamo la radio, ora c’è Netflix; se prima di notte dormivamo sonni tranquilli, ora c’è Netflix.
Ben prima di tutto questo c’erano i romanzi d’appendice, le trilogie, le tetralogie, le saghe, la letteratura ne è stata piena così come il cinema. E il teatro?
Abbiamo visto passare al Teatro Vascello di Roma Who Is the King?, ambizioso «progetto» di Lino Musella e Paolo Mazzarelli, coprodotto da Teatro Franco Parenti, La Pirandelliana e Marche Teatro.
Questo esperimento offre una risposta alla domanda: a cavallo tra Sedicesimo e Diciassettesimo secolo William Shakespeare aveva inserito, in una rosa totale di trentotto drammi, otto titoli fortemente intrecciati tra loro.
Pur se la datazione (sempre incerta) scompagina la cronologia, mettendoli in ordine Riccardo II, le due parti di Enrico IV, le due di Enrico V, Enrico VI e Riccardo III illustrano circa un secolo di storia d’Inghilterra (dal 1377 al 1485) attraverso il racconto romanzato dei suoi sovrani. Niente di diverso, allora, da The Tudors, I Medici, neppure lontano da Downton Abbey, House of Cards o persino 1992 e 1993.
L’operazione tentata da MusellaMazzarelli, però, è ben più complessa di una semplice messinscena integrale del ciclo. Il primo dei quattro spettacoli previsti raccoglie le prime tre opere, intessendo attorno alla drammaturgia originale un intricato reticolo di temi portanti, temi secondari, relazioni tra generazioni, parentele, peccati e bramosie che passano di padre in figlio. Ma, ancora una volta, si dirà, questo sta già in Shakespeare. Colui che – come ricorda il suo più autorevole esegeta, Harold Bloom, citato nelle note di regia – «ha creato l’uomo». In Who Is the King? c’è molto ma molto di più. Innanzitutto la riflessione sulla serialità, subito sotto una coraggiosa autopsia di tutti i possibili linguaggi narrativi, che vengono esplorati, tentati, accennati, abbandonati.
Si comincia con un Riccardo II (Paolo Mazzarelli tenebroso, malinconico, elegante) piuttosto classico. La regia muove lentamente i corpi su un palco dominato cromaticamente dal rosso di un pesante sipario sul fondo e, geometricamente, dalla centralità di tavolo e trono. La contesa tra i due Pari Bolingbroke e Mowbray, l’esilio di entrambi, la congiura che costringerà il sovrano ad abdicare in favore del primo mettendogli in testa la corona di Enrico IV.
Tutto si svolge seguendo il ritmo di una messinscena piuttosto ingessata, buia, che richiama il grande-attorato ottocentesco o mostra segni degli psicologismi sofferti del secolo successivo. E lo spettatore viene quasi dimenticato lì, piuttosto interdetto, quasi tradito da una sperimentazione promessa e negata.
Siamo passati a Enrico IV, che dal corpo giovane di Marco Foschi ritroviamo subito trasformato in quello anziano del padre Massimo Foschi, operando un salto temporale appassionante quanto, ancora, semplice. Esposto il nodo narrativo principale, presentati i nuovi personaggi (il gallese Glendower, gli scozzesi che premono, il valoroso Percy), il sipario si chiude e si apre su diverse scene. Improvvisamente, come se davvero cambiassimo canale, la drammaturgia scarta di lato e racconta la vita dissoluta di Enrico conte di Galles (che diverrà Enrico V), ora calata in una situazione contemporanea, in un «backstage» che trasforma le scorribande con il grasso Falstaff (Lino Musella) e altri manigoldi in uno straniante “a parte” sulla contemporaneità e, come accadeva in Strategie Fatali, sul teatro. Questo passaggio trascina il pubblico nelle viscere della vicenda e del suo trattamento.
La scarica elettrica che ha investito la narrazione lineare non smetterà di scombussolare i principi di attenzione, di memorizzazione, di associazione tra interpreti, personaggi, storia mostrata, storia raccontata e il rompicapo dell’omonimia (in questo dramma ben tre personaggi portano il nome di Enrico) farà girare la testa.
Il ragionamento sulla serialità, allora, si espande e si ricompone in un’indagine sulle modalità di fruizione, sui percorsi di allerta del lavoro cognitivo di ogni spettatore, sul contratto di fiducia che esiste tra palco e platea, che in questo modo può davvero essere riscritto scena per scena.
Ci sarebbe da lodare la performance di ogni singolo interprete; ci sarebbe da annotare il rinnovato stupore di fronte all’agio dimostrato in scena da Lino Musella, la versatilità vocale e la sprezzatura di Marco Foschi, il trasformismo di Annibale Pavone, i moti di commozione che prendono allo stomaco dove padre e figlio reali si confrontano di fronte al velo di Maya della finzione teatrale.
Ma soprattutto c’è da applaudire a un tenace lavoro collettivo (davvero un cast impeccabile) e artigianale, che ha bisogno solo di pochi tagli di luce e molto spazio vuoto, di pause e di vertiginosi cambi di registro, di un’ironia sottile e insieme della bassezza di dialogo che, comandata da Falstaff, ci ricorda le origini popolari di quest’arte; basta questo a veder realizzato in tempo reale un ritratto vivente della complessità del teatro come sistema di pensiero.
Il lavoro di questi artisti sta crescendo in verticale, alla scoperta di nuove ferrate, evitando crepacci, verso una meta che fa percepire il pericolo di operazioni così ardite, che mostra gli attori e la storia stessa in continua crisi, tenendo lo spettatore con una grande fame di ciò che accadrà in seguito. Proprio come in una serie TV. Quando, nelle sequenze finali, il ritmo torna ad allentarsi, le pause a farsi più lunghe, le scene a frammentarsi, emerge come a stupire sia il fatto che una simile struttura drammaturgica possa essere in grado persino di far passare in secondo piano, pur senza dimenticare di celebrarli, gli ingombranti leit-motiv di Shakespeare: onnipresenza del potere, linea patriarcale e la pesante macchina della Storia che schiaccia ogni cosa.
Se lo fa è perché ogni passaggio ritorna a fare i conti con la dimensione corporea, emotiva, prossemica, viscerale. Se lo fa è perché di fatto, qui, si sta «creando l’uomo». E davvero non c’è più modo di capire chi sia il re.
Sergio Lo Gatto
Teatro Vascello, Roma – gennaio 2019
WHO IS THE KING?
un progetto di Lino Musella, Paolo Mazzarelli
da William Shakespeare
drammaturgia e regia Lino Musella, Paolo Mazzarelli
luci Pietro Sperduti
scene Paola Castrignanò
sound design e musiche originali Luca Canciello
costumi Marta Genovese
con Massimo Foschi, Marco Foschi, Annibale Pavone, Valerio Santoro, Gennaro Di Biase, Alberto Paradossi, Laura Graziosi, Giulia Salvarani, Paolo Mazzarelli, Lino Musella
produzione Teatro Franco Parenti / La Pirandelliana / MARCHE TEATRO