Alla Comédie Française di Parigi va in scena La Locandiera di Carlo Goldoni per la regia di Alain Françon. Una recensione e un pensiero sui personaggi femminili.
È la domenica dell’Epifania, siamo a Place Colette, quel cuore culturale di Parigi che vive stretto tra il Palais Royal e il Louvre; la piazza è colma di spettatori che pazientemente affrontano la coda per i controlli di sicurezza necessari per entrare a teatro. Prendiamo coscienza del fatto che in Francia il rito dell’ingresso a teatro si è ormai da tempo sommato a questo ulteriore momento liminale: il pubblico è invitato a lasciarsi, seppur brevemente, ispezionare. In altri teatri si passa direttamente sotto al metal detector come in aeroporto. In ogni caso, siamo di fronte a un mutamento: una nuova prassi investe il rito aggiungendo un passaggio in più, necessario (necessario?) in quest’epoca dove l’altro è sempre più spesso percepito come portatore sano di sospetto. In ogni caso, il buon esito del controllo è alchemico, e sembra trasformare i cittadini da comuni passanti in spettatori. La soglia da attraversare ha maggiore densità, ma ne vale sempre la pena, a quanto pare, perché i teatri – i maggiori, specialmente – sono spesso sold out a tutte le rappresentazioni.
All’inizio di questo nuovo anno, nelle diverse sale della Comédie Française, teatro attivo dal 1799, si alternano diverse lunghe teniture tra cui la regia di Thomas Ostermeier con il titolo di Shakespeare La nuit des rois ou tout ce que vous voulez oltre a Les furberies de Scapin di Molière, Lucrezia Borgia di Victor Hugo, Les oubliés (Alger-Paris) di Julie Bertin e Jade Herbulot (una scrittura scenica sulla questione algerina) e La Locandiera di Carlo Goldoni con la regia di Alain Françon.
Nell’epoca di #metoo, La Locandiera può senza dubbio essere un testo emblematico. La nostra visione a teatro ha cercato, soprattutto, di concentrarsi su questo aspetto e di verificare se e come questa regia avesse tenuto traccia del mondo fuori dalla sala teatrale e dalla sua attualità. Mirandolina, la protagonista, è una donna senza uomini che vive la propria individualità su diversi fronti essendo allo stesso tempo orfana, nubile e imprenditrice. La pièce ha alle spalle una lunga tradizione di letture misogine, iniziate probabilmente da Goldoni stesso e situabili, tutte, nella trama più superficiale del testo. In realtà, in scena il testo stride e allo stesso tempo svela ed esalta tanto alcune qualità della contemporaneità quanto quelle del tempo in cui fu scritta (1753).
In tutto l’insieme de La trilogia della villeggiatura i personaggi femminili si trovano al centro: essi agiscono come motore dell’azione e sono espressione di uno speciale rapporto di interconnessione tra teatro, realtà e letteratura. Questo amalgama sistematicamente perfetto, che si fonde nella scrittura del drammaturgo veneziano, rende atemporali le sue drammaturgie che, evolvendo come serie tv, mettono il femminile al centro del dispositivo teatrale offrendogli via via luce nuova sotto cui mostrarsi.
Ne La Locandiera il personaggio principale è, esso stesso, incarnazione del gioco del teatro, con la sua anima meta-teatrale; sua è la vita di une femme qui joue, non quella di un’attrice. In scena, infatti, Mirandolina è una donna che “gioca” e che non mostra le proprie passioni, recitando il ruolo della donna capace di sedurre strategicamente con lo scopo di rivendicare il proprio dominio sul maschile.
Nella regia di Alain Françon ella non è, tuttavia, perfettamente immersa in questo impasto di razionalità e improvvisazione che il testo offrirebbe. La recitazione di Florence Viala, come quella di tutta la compagnia, è in qualche modo impeccabile e di altissimo livello tanto nel modo di portare il testo quanto nell’uso dello spazio e nel rapporto con il movimento del corpo, ma la scena non si accende di quella fiamma che infuocherebbe gli scambi tra i personaggi. Sembra esserci un décalage, più culturale che meramente teatrale, forse, tra questa messa in scena di Goldoni a cura di Alain Françon e Goldoni stesso, tra la chiave di lettura francese di un classico del teatro italiano e il modo in cui questo esprime la propria specificità. Dai propri attori Goldoni esigeva che sapessero analizzare approfonditamente le psicologie dei personaggi, facendo appello alle qualità recitative, certamente, ma anche all’improvvisazione, che anche il filosofo Giorgio Agamben ha riconosciuto come una categoria culturale prettamente italiana.
Nelle scene essenziali, quasi metafisiche e dai colori tenui, di Jacques Gabel, i personaggi in costume si spostano come vere e proprie figure in movimento portatrici del testo. In questa delicata e convincente rarefazione scenica, è proprio nell’adesione corpo-testo che tutti i personaggi coinvolti non esprimono a pieno la propria luminosità. Il regista ha chiaramente scelto di puntare su un crescendo della componente fisica dei e tra i personaggi; tuttavia sembrerebbe proprio che questo modo, che spalma il carattere di ciascuno di essi lungo la durata dello spettacolo, abbia fatto venir meno la loro brillantezza puntuale, adesiva e incontrovertibile rispetto al testo e ai suoi colori.
Le figure femminili della commedia, inoltre, che avrebbero potuto essere l’oggetto e il pretesto di un’approfondita analisi di un discorso sulle donne, a partire dalle donne e per le donne del nostro tempo, fa sorgere in noi il desiderio di una Locandiera pensata da una prospettiva registica femminile. Chissà mai che non sia proprio una regista italiana a scegliere di confrontarsi con un testo potenzialmente tanto misogino senza aggirarne le spire, ma cercando di costruire, su di esso, uno sguardo in grado di “continuare” il discorso iniziato da Goldoni, che assegna al femminile e alla donna qualità di forza, indipendenza e autodeterminazione.
La domanda che questa Locandiera rinnova, e con la quale usciamo dal teatro, è questa: è possibile mettere in scena questa vicenda senza tuttavia restituire i personaggi femminili al pubblico sotto forma di “personaggi”, ma come persone?
Gaia Clotilde Chernetich
Comédie Française, Parigi – gennaio 2019
LA LOCANDIERA
di Carlo Goldoni
regia Alain Françon
con Florence Viala, Coraly Zahonero, Françoise Gillard, Laurent Stocker, Michel Vuillermoz, Hervé Pierre, Stéphane Varupenne, Noam Morgensztern, Thomas Keller
traduzione Myriam Tanant
scenografie Jacques Gabel
costumi Renato Bianchi
luci Joël Hourbeigt
musiche originali Marie-Jeanne Séréro
suono Léonard Françon
drammaturgia e assistente alla regia David Tuaillon