Il volo di Leonardo di Flavio Albanese torna al Piccolo Teatro Strehler di Milano fino al 20 gennaio 2019. Una recensione e una riflessione sulla potenza del teatro.
Di audience development abbiamo scritto spesso e spesso letto dai nostri colleghi, provando a descrivere – non senza dover entrare in accesi e per fortuna costruttivi confronti – quali percorsi possano rendere la critica adatta a un lavoro peculiare, attività “applicata” alla lettura dei linguaggi, in grado di dotare lo sguardo degli strumenti per discernere, incuriosirsi, aprirsi. E così alimentare la cultura della visione.
Tra i molti nodi problematici c’è la domanda se un’operazione di supporto alla visione sia possibile e dovuta verso ogni forma di teatro o se non si debba invece lasciare allo spettacolo la possibilità di incontrare sensi vergini, menti aperte alla scoperta incondizionata e persino all’affascinante prospettiva del “diritto di non capire”.
Quando nel discorso sulle metodologie rientrano anche le forme artistiche, come dividere la responsabilità di una visione tra espressione che dona e sguardo che accoglie?
Con il teatro pensato per i più giovani questo interrogativo si fa ancora più urgente, perché il momento della fruizione è preceduto da precisi passi di avvicinamento, accompagnamento, selezione; una mediazione preesistente all’intervento del teatro.
In matinée al Piccolo Teatro Strehler di Milano abbiamo visto Il volo di Leonardo, scritto, diretto e interpretato da Flavio Albanese (fondatore, insieme a Marinella Anaclerio, della Compagnia del Sole).
Rosseggia la tenda di velluto che immette nella Scatola Magica, uno spazio ideato da Giovanni Soresi (organizzatore già collaboratore di Paolo Grassi e Giorgio Strehler e committente nel 2010 dell’Astuto Ulisse e nel 2012 della prima edizione di questo lavoro), che, incastonato nel marmoreo foyer, accoglie le messinscene più minute.
Arrivati in anticipo, le maschere ci mettono in attesa, dando la precedenza al gruppo di insegnanti e giovani studenti delle scuole medie, che si sistema su tre lati intorno al piccolo spazio scenico. È un rituale preciso, che richiede qualche «sssst!» da parte degli adulti.
Fino a quel momento lo spazio non è che un contenitore. Poi si fa buio e su una lavagna brilla il celebre autoritratto di Leonardo. La Scatola Magica si anima e l’attore ne è il più potente fuoco. Gli «sssst» proseguono ancora per un po’, ma ora sono rivolti da bambino a bambino.
A narrare la storia è “Tommasino” Masini, detto Zoroastro, giovane apprendista del Maestro, del quale ricorda in forma di aneddoto intuizioni, segreti imbarazzanti, bizzarrie, massime di lettura del cosmo, precetti spirituali. E soprattutto il suo “prodotto tipico”, quello che meglio lo caratterizza: le invenzioni. Non solo le macchine bislacche che avrebbero deviato l’Arno per portare il mare a Firenze, dotato il castello di Ludovico il Moro di un allarme anti-incendio o le sue cucine di dispositivi di controllo dell’altezza delle fiamme o di pulizia automatica; e neppure soltanto quelle mitiche diavolerie che erano l’ornitottero e le altre macchine del volo.
È una narrazione serrata, quella di Albanese, che arabesca su un canovaccio pieno di sottili ganci semantici, ripetizioni di parole o gesti in grado di mantenere viva l’attenzione e la partecipazione che, in un sistema di «carrucole, leve, viti e controviti», vanno a fissare appuntamenti con la memoria dello spettatore, unico organo di selezione critica che procede senza controllo alcuno.
Con l’aiuto di pochi e funzionali oggetti si crea un universo di simboli materici essenziali, in cui salire su uno sgabello significa volare, due sfere specchiate fanno le veci degli astri ma, illuminate nel buio, mostrano il puntaspilli di un universo infinito.
Il racconto si snoda di associazione in associazione, di analogia in analogia ricalcando il «pensiero sistemico» del grande scienziato e artista; il concetto stesso di invenzione sembra la chiave per comprendere sì i prodigi di una mente geniale, ma anche i processi che animano la fantasia.
Quando Tommasino, una sorta di Sancho Panza accanto al proprio Don Chisciotte, fatica a ritrovare i fili dei ragionamenti del maestro, la soluzione pare essere sempre la stessa: per architettare una sfida ai rigidi dogmi dell’ignoranza, occorre ridurre al minimo la distanza tra realtà e immaginazione. Una macchina resta un contenitore, a meno che non vi si lasci annidare un sogno. Che quasi non importa più se si incontri un successo o un fallimento.
«Tommasino, quante cose sono vere? È vero ciò che puoi verificare attraverso l’esperienza».
Se per Leonardo il nervo ottico portava a una zona al centro del cervello dove aveva sede l’Anima, l’esperienza è plasmata da tutti e cinque i sensi e si declina per ciascun individuo in modo diverso, ché il «moto dei sensi» porta a cambiare sempre prospettiva.
Ecco che tornano le considerazioni iniziali. In quella negoziazione tra affinamento dello sguardo (azione dello spettatore) e distribuzione organica dei segni (azione dell’artista), l’insegnamento più potente al pubblico dei giovani arriva da quelle opere in grado di mostrare il teatro in tutta la sua potenza immaginifica, rendendolo capace di tutto, sia millimetrica precisione retorica o una resa al totale smarrimento.
Se al termine dello spettacolo l’unica domanda dei ragazzi riguarda la veridicità degli aneddoti è perché la loro attenzione ha subito la meraviglia di una piccola trasformazione: con l’accendersi della lavagna, la stanza diventa una Scatola Magica. Come si legge in una citazione di Giorgio Strehler che campeggia nel foyer, «ricordatevi che, nonostante tutto, il Mondo non finisce qui. Che il Teatro non finisce qui».
Sergio Lo Gatto
Piccolo Teatro Strehler, Scatola Magica, Milano – gennaio 2019
Al Piccolo Eliseo di Roma
Dal 4 al 10 febbraio
Da lunedì a venerdì ore 10.30 – sabato ore 16.30 – domenica ore 11.00
IL VOLO DI LEONARDO
scritto, diretto e interpretato da Flavio Albanese
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa