Andrea Baracco ha firmato la regia di un nuovo allestimento de Il Maestro e Margherita, targato Teatro Stabile dell’Umbria. Dopo il debutto di settembre scorso a Solomeo, la tournée 2019 ha raggiunto il Teatro Eliseo. Recensione.
La scena è ampia e nera ma lo spazio non si può dire profondo. Fondali e quinte hanno la consistenza opaca e materica dell’ardesia, la verticalità è spezzata dal delinearsi dei profili e dei lievi volumi di molte piccole porte, che, nel corso dello spettacolo, si spalancheranno d’improvviso, quasi scattando. Le pareti di lavagna di questa grande stanza sono segnate da scritture colorate, frammenti di un discorso nel tracciato scomposto di un bambino. Andrea Baracco firma la messa in scena di questo sfarzoso allestimento de Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, targato Teatro Stabile dell’Umbria, che ha debuttato al Teatro Cucinelli di Solomeo a settembre 2018, prima di partire per una tournée italiana che lo vede ora sul palco del Teatro Eliseo.
Baracco – che negli ultimi anni si è occupato di trasporre in un’estetica accattivante e mainstream alcuni classici shakespeariani – si misura ora con la magia nera che intreccia i piani narrativi, dalle latitudini moscovite degli anni Trenta alla Gerusalemme del I secolo d. C., al tempo della prefettura di Ponzio Pilato.
La complessità del romanzo è filtrata con sapienza dall’adattamento drammaturgico di Letizia Russo (poi pubblicato per Morlacchi Editore, nella collana Spettacolo) che, organizzando lo svolgimento in tre parti, si rivela capace di operare le giuste rinunce e di insistere sui giusti sottotesti, lasciando che qualche ombra allusiva si espanda, come a insinuare quella densità ulteriore che l’ordine e il ritmo di una scrittura scenica impongono di elidere.
Le presenze di Michele Riondino, nelle vesti di Woland, e di Federica Rosellini, in quelle di Margherita, sono enfatizzate da partiture gestuali e costruzioni sceniche votate, come nel più classico dispositivo del kolossal, a farle trionfare. Attorno a loro l’ensemble degli attori (quasi tutti umbri, provenienti dalle fila del CUT) si muove organico, gestendo con pulizia la necessità di interpretare ciascuno più di un ruolo, per restituire il movimento incessante, macabro e paradossale di una trama che conta quasi 150 personaggi. Un tratto della direzione degli attori di Baracco, già notato ne Il racconto d’inverno, è quello di valorizzare lo specifico delle qualità sceniche e fisiche dei propri interpreti, impiegandole in un disegno fortemente esteriore, attento ad appassionare visivamente il pubblico ma che sembra spesso impigliarsi in un limite di pensiero.
Se, in quel caso, si è parlato di “polifonia” (in funzione anche alla giovinezza degli interpreti e alla possibilità che l’adattamento costituisse per essi l’occasione di una “palestra di rango”), in questo caso sbilanciare la messa in scena in virtù di un principio di “massimizzazione esteriore” rischia, allo stesso tempo, di intaccarne l’organicità con piccoli espedienti da accademia e di cadere nell’insidia di una profonda generalizzazione dell’enfasi.
Già le note di regia (che raccontano di «un gioco quasi funambolico, pirotecnico, in cui ci si muove sempre sulla soglia dell’impossibile, del grottesco, della miseria e del sublime») tradiscono il timbro di una premessa che, volendosi prendere cura della grandezza, finisce per semplificarne le corde più nascoste, perseverando su quelle più appariscenti. D’altra parte, non possono essere negati il pregio di una riscrittura intelligente (mossa da una cognizione meditata e precisa degli aspetti controversi dell’originale), la disponibilità degli attori a prestarsi agilmente al «gioco pirotecnico» per loro predisposto, il confezionamento di un lavoro capace di trasportare sulla scena la seduzione “difficile” di un classico, allargandone dunque virtualmente l’audience.
Per questo prendiamo a prestito, in conclusione e come un lieve monito, le parole di Edoardo Sanguineti, in Classici e no, in merito alla natura equivoca di ogni mediazione culturale e all’irraggiungibilità della voce autentica dei classici, «morti e sepolti […] storicamente muti»: «[…] i classici nascono con la filologia, e sono condizionati dalla filologia. Dove non si ha filologia, non si ha classico, propriamente. E la filologia si converte sempre, vichianamente, in filosofia. È filosofia della storia. È storia, in assoluto, precisamente».
Queste stesse righe riescono forse a dirci qualcosa rispetto al potere (positivo) di rinnovamento e di propagazione che vive sul fondale di qualsiasi operazione capace di rigenerare l’ascolto attorno a un prodotto artistico. E allo stesso tempo ci ricordano che si tratta di un’operazione che, per funzionare, deve essere prima di tutto un atto di compromissione con il presente.
Ilaria Rossini
Teatro Cucinelli, Solomeo – settembre 2018 / In scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 3 febbraio 2019
IL MAESTRO E MARGHERITA
di Michail Bulgakov
riscrittura Letizia Russo
regia Andrea Baracco
con Michele Riondino, Francesco Bonomo, Federica Rosellini
e con Giordano Agrusta, Carolina Balucani, Caterina Fiocchetti, Michele Nani, Alessandro Pezzali, Francesco Bolo Rossini, Diego Sepe, Oskar Winiarski
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Simone De Angelis
musiche originali Giacomo Vezzani
foto di scena Guido Mencari – www.gmencari.com
produzione Teatro Stabile dell’Umbria con il contributo speciale della Brunello Cucinelli Spa in occasione dei 40 anni di attività dell’impresa