Leviedelfool presenta Yorick, un Amleto dal sottosuolo di e con Simone Perinelli al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci. Recensione
Quarant’anni. Quasi una vita, oppure qualcosa in meno di un’esistenza: ché a chiamarla “vita”, quella trascorsa dentro i manicomi, si pecca di generosità. Quarant’anni, forse di più, è il tempo ‑ immobile e cristallizzato ‑ passato a starsene «in silenzio nel sottosuolo», nel perimetro asettico tracciato da mura e cancelli, dietro le quinte aspettando il chi-è-di-scena. Quarant’anni, da quel maggio del Settantotto di un’Italia coraggiosa e intraprendente, antesignana e avanguardista, che spalancò i portoni di palazzi fatiscenti e di fortezze, aprì una breccia nel senso comune e in istituzioni secolari: quarant’anni, da quando i matti uscirono dalle loro città, scoprirono la luce, si confusero con il buio circostante.
È anche il ritmo del tempo il nucleo attorno al quale Simone Perinelli concentra la propria attenzione in Yorick. Un Amleto dal sottosuolo: sia esso quello sincopato della vicenda shakespeariana, di cui il teschio del celebre buffone è simbolo universale; oppure quello dilatato dell’oscurità e del silenzio che costituisce il resto; o ancora quello storico e politico della Legge Basaglia e di un’Italia che sembra rispecchiarsi in Elsinore. La nuova creazione frutto della collaborazione tra la Fondazione Teatro della Toscana e Leviedelfool gioca con la percezione cronologica, ricorre ad accelerazioni della trama e a sofisticate stasi là dove questa si fa metafora di un destino collettivo.
Con un’attitudine compositiva quasi musicale, l’artista romano giustappone pause a movimenti nei quali la parola e il gesto dilagano ed esplodono, ed edifica così una stratificata partitura sinfonica dove singole linee melodiche ‑ una geniale riscrittura par absentia del dramma più noto; la sua torsione metateatrale; la riflessione sul disagio mentale e sui fenomeni migratori ‑ trovano una struttura coesa e organica. Strumento residuale di un processo di rarefazione dell’ensemble richiesto per la messa in scena dell’Amleto, Perinelli è la cassa armonica in cui riverberano le voci del principe e del fool, di Ofelia e di Polonio, di Claudio, di Rosencrantz e Guildestern: ma anche di Dorothy con le sue scarpette rosse, o di quell’Oreste Fernando Nannetti internato nell’ospedale psichiatrico di Volterra, al quale qualche anno fa resero omaggio anche Ciro Masella e KanterStrasse con Muro. «Non un monologo, ma uno spettacolo con un solo attore» è non a caso la nota che il drammaturgo, qui anche attore e regista, pone in apertura del testo: a evidenziare quanto sia intrinsecamente plurale e pluralistica la visione sottesa all’intera operazione, che mira a donare parole, e non a sottrarle; a condensare la vicenda attorno al suo fulcro primigenio, ma non a espungerne sezioni; ad aggiungere un corpo e un dettato a chi ‑ della storia di Amleto, e della Storia degli uomini ‑ è da sempre testimone muto, ammutolito, sconfitto.
E tuttavia l’azione, concitata e violenta, ha luogo altrove, in quel teatro o all’interno di quel castello dove la successione degli istanti e degli atti, delle giornate e della scene, ha ancora un senso: qui, sul palcoscenico del Teatro Studio Mila Pieralli, a dipanarsi è soltanto un’attesa. Yorick ‑ o forse l’attore chiamato a interpretarlo ‑ aspetta la famosa prima scena del quinto atto, quando diverrà soltanto un cadavere, corpo che i due becchini si affrettano a inumare commuovendo il principe danese con la nostalgia di un ricordo. La vera tragedia si consuma al di sopra della sua testa, al di là di quel cupo spazio sotterraneo nel quale è confinato: la scena e le luci di Fabio Giommarelli chiudono l’attore in un cerchio tracciato con polvere e terra, oltre il quale il buio sembra ospitare soltanto una vasca, e un microfono montato su un’asta.
«Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole» sono le prime parole con cui Yorick si presenta, cancellando così qualsiasi consolatoria interpretazione che ne faceva il latore di folgoranti sprazzi d’allegria. Sdraiato all’interno della vasca, questo buffone lucidissimo ci rammenta quante volte ha già ascoltato recitare la pazzia fasulla di Amleto e l’Assassinio di Gonzago, l’annegamento di Ofelia e la morte di Claudio, rievoca il tempo ‑ cinque atti, quarant’anni, forse interi decenni ‑ per il quale ha aspettato i brevi attimi della sua parte e con essi la possibilità di abbandonare il sottosuolo nel quale è imprigionato. Voci registrate si diffondono nella fonosfera, provenienti da quel mondo emerso tanto simile a un palcoscenico; sono brandelli di conversazione tra Orazio e Bernardo, o tra Claudio e Amleto, a raggiungere Yorick, che inganna l’attesa con esercizi di giocoleria o frapponendo le proprie riflessioni ai dialoghi, creando così un controcanto che ne rifrange e moltiplica i significati. Perinelli svela al pubblico il dietro-le-quinte dell’ennesima messa in scena dell’Amleto, e con esso le vite tenute lontane dal palco: quelle del fool, dei matti, di quegli anormali ai quali dedicò accorate analisi Michel Foucault, quasi un silenzioso nume tutelare di questo Yorick. La drammaturgia fonde l’originale vicenda con interpolazioni leopardiane e con Il Mago di Oz, confonde i versi shakespeariani con le canzoni, e dà modo al Perinelli attore di mettersi alla prova con uno straordinario tour de force fisico e vocale, contraddistinto da quella sognante e commossa distanza che l’attore sembra sempre mettere tra sé stesso e le parole. Urla e pianti, un gallo morto e vaghi fiotti di luce penetrano dall’alto nello spazio in cui, invisibile e solo, Yorick attende, affabulando ‑ al di sopra delle efficaci musiche firmate da Massimiliano Setti ‑ vicende parallele e collaterali.
C’è tempo per uno struggente addio al mondo di Ofelia, nel quale i ricordi di terapie a base di Diazepam si intrecciano con la consapevolezza di quanto, nell’antichità classica, le estasi e gli accessi di follia fossero sintomo di preveggenza; c’è tempo per una riflessione sulla morte ‑ vero fil rouge di una scrittura coltissima ‑ analizzata nei suoi aspetti più squallidamente biologici e in quelli simbolici di demarcazione tra respiro e silenzio, tra luce e oscurità; ma soprattutto, c’è tempo perché Perinelli, indossando ora la maschera di un teschio, ora un cappello da giullare, attraversi in rassegna le sempiterne e nuovissime separazioni che gli uomini hanno tracciato, oltre i sipari e le quinte. Il veliero che dovrebbe condurre il pazzo Amleto verso l’Inghilterra è così immagine di ben altre stultiferae naviculae, con le quali si è tentato di allontanare il diverso, emarginandolo oltre il mare, dietro mura e farmaci ed elettroshock, lontano dalle nostre case. Sul fondale compare un frammento del gigantesco graffito che Nannetti, in arte NOF4, disegnò sul muro del manicomio di Volterra, mentre una Jolly Roger cala e muta la vasca in quel veliero che distanzierà, una volta ancora, pazzi e sani: o Lampedusa da Malta, i migranti dai cittadini, i giusti e i sani dai malati. C’è, in Yorick, il coraggio di ridurre a un minimo, comune denominatore discriminatorio i meccanismi asimmetrici che spezzano la società degli uomini, un afflato biopolitico che traduce in poesia l’orrore per quei «confini che dividono l’essere dal non essere», o ‑ citando George Canguilhem ‑ il normale dal patologico, e che Franco Basaglia contribuì a smantellare. Quarant’anni dopo, nell’Italia del Decreto Sicurezza, cosa resta di quella legge di libertà?
Alessandro Iachino
Teatro Studio Mila Pieralli, Scandicci ‑ novembre 2018
Leviedelfool
YORICK
Un Amleto dal sottosuolo
drammaturgia e regia Simone Perinelli
con Simone Perinelli
aiuto regia Isabella Rotolo
musiche originali Massimiliano Setti e al violoncello Luca Tilli
disegno luci e scene Fabio Giommarelli
tecnico del suono Marco Gorini
costumi Labàrt Design di Laura Bartelloni
foto e grafica Manuela Giusto
si ringrazia per la collaborazione artistica Roberta Nicolai
con il sostegno di Pilar Ternera / Nuovo Teatro delle Commedie e ALDES / SPAM!