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Licia Lanera e Bulgakov. Tra bestia e umano, il cuore

Licia Lanera ha portato in scena all’Angelo Mai di Roma un adattamento di Cuore di cane, tratto dal romanzo di Michail Bulgakov, come primo capitolo di una trilogia dedicata ad autori russi dal titolo Guarda come nevica. Recensione

Foto Manuela Giusto
Foto Manuela Giusto

Si sente ripetere spesso, oggi più di prima, che la civiltà di un popolo, di una società, di un paese si riconosce dal modo in cui tratta gli animali. Con ogni probabilità è vero. Si sente ripetere da molti che un cane azzanna per fame, che aggredisce solo per difesa e, nella stragrande maggioranza dei casi, è vero anche questo. Ancora, si sente ripetere da sempre invece come la principale dote di un cane sia la fedeltà, questo è vero solo in parte. Un cane segue il proprio padrone, lo aspetta, dipende da lui, lo ama incondizionatamente non detenendo alcuno spirito di discernimento o abdicando in toto ad esso? No. È un animale, carne e sangue e istinto, la soddisfazione dei suoi bisogni primari è prioritaria, come per qualunque altra bestia. La differenza non è nella fede, è nella capacità di gratitudine: fin dove e come può, un cane fugge o si scaglia contro un potenziale pericolo (indifferente se sia un’incertezza o un moto di violenza, di coercizione), dove e come non può teme, ha paura, soffre; al contrario segue, aspetta, dipende, ama un padrone che lo precede, che si allontana per tornare, che assolve alle sue esigenze, che lo ama a sua volta, a suo modo. Quindi guarda, meglio vede, in realtà discerne benissimo.

Foto Manuela Giusto
Foto Manuela Giusto

Non è un caso che Michail Bulgakov abbia scelto un cane per l’orditura di un romanzo in cui il grottesco attecchisce in una situazione epocale e politica, quella della Russia del 1925, turbata dall’avvento della NEP (Novaja Ekonomičeskaja Politika) per trasformarlo nella camera figurale del paradosso narrativo e metaforico: la vicenda si fa nucleo di trasposizione della critica al regime sovietico, all’immaginario e al contesto storico con le relative contraddizioni. Allo stesso modo non sarà casuale, allora, che Licia Lanera abbia scelto l’adattamento di Cuore di cane come incipit di una trilogia dal titolo Guarda come nevica, la quale «include tre testi e tre spettacoli sulla neve, tre autori russi e tre generi letterari. Il progetto prevede un lavoro di tre anni che comprende, oltre al testo di Bulgakov, Il gabbiano di Anton Čechov e Le poesie di Vladimir Majakovskij». La regista e interprete pugliese, oggi anche docente presso la scuola dello Stabile di Torino, ha visto il proprio percorso artistico mutare nome e formazione (da Fibre Parallele con Riccardo Spagnulo a Compagnia Licia Lanera) portando avanti un processo scenico trasversale e continuo – con il fisiologico alternarsi di risultati più o meno decisivi, a seconda dei casi e delle prospettive – in grado di definire un profilo, una autentica cifra di approccio ove non tematica, sostanzialmente estetica, volgendosi sovente a matrici testuali spesse come l’Orgia pasoliniana o il più recente immaginario favolistico di The Black’s Tales Tour.

Un randagio osserva con circospezione l’universo umano prima di essere preso in casa dal professor Filip Filippovič Preobražeenskij, il quale lo ribattezza Pallino per poi renderlo cavia di un esperimento condotto col suo assistente Bormental, mirato a osservare gli effetti del trapianto sull’animale dei testicoli e dell’ipofisi di un uomo morto poche ore prima. L’antropomorfizzazione si compie, ma resta frusta, generando una sorta di ibrido fantascientifico che cita Engels mentre conserva tratti e comportamenti antirazionali tali da indurre a un’unica soluzione: per il racconto la rimozione dell’ipofisi così da riportare Pallino al suo stato originario, per la messinscena la più oscura ipotesi della soppressione.

Foto Manuela Giusto
Foto Manuela Giusto

All’ingresso nella sala dell’Angelo Mai il silenzio è rotto dalla voce fuori campo che riporta l’amarezza profonda di una nota di Bulgakov, una crepa nell’identità autoriale di uno scrittore e drammaturgo completamente calato nel suo tempo, eppure marginalizzato per questioni di sistema. L’impianto narrativo resta sostanzialmente invariato, tanto da potersi definire quasi una rilettura; beneficerebbe forse di uno sfrondamento o di una maggiore elaborazione per stemperare un certo affaticamento nella prima parte e sino alla concitazione del trapianto, quell’impressione che pure resta a fine spettacolo di durata maggiore rispetto alla realtà.
Compitati dal tessuto musicale sintetico affidato a Tommaso Qzerty Danisi – altra unica presenza in scena –, gli elementi su cui sembra incardinarsi la teatralità dell’adattamento sono voce e immagine. Quest’ultima è composizione consapevole ed efficace, plasmata tra presenza fisica, qualche supporto scenico (una poltrona, un lume, un volume) e pochi segni atti a palesare la dimensione performativa. Accese le luci – che di lì in avanti segneranno con un ottimo disegno di Vincent Longuemare i nodi della storia e i loro pattern – il primo quadro che si affigge agli occhi è quello di una nevicata implacabile e lievissima: una discesa di fiocchi di neve incontra sulla linea dell’arco di proscenio la sagoma di Lanera che latra, vestita di bianco, in un rigurgito onomatopeico dipanato tra il microfono e il corpo, amplificato da una maschera senile in viso.
Fondamentale veicolo drammatico, costantemente aumentato elettronicamente, è la voce, a cui è demandato il passaggio dal narratore al personaggio, dalla dizione canonica alle inflessioni dialettali, dalla superficie dello “scritto” a quella del “detto”. Tuttavia, il dono di un’ottima voce naturale, amara, pastosa e terrigna come quella di Lanera sembra qui aver ancora bisogno di uno scavo, di uno studio ulteriori per l’acquisizione di una padronanza di articolazione che incontri il proprio peculiare valore espressivo e stilistico,oltre la calibratura di ritmo-tono-frequenza.

Foto Manuela Giusto
Foto Manuela Giusto

Uno dei lasciti auspicabili di uno spettacolo è il persistere di una domanda. Restiamo a chiederci: e noi? Noi siamo i padroni, le non bestie, la società civile, il popolo. Noi siamo quelli dalle sinapsi evolute, dai neuroni a specchio, dai bisogni trascendentali, dalla mente ipertrofica. Siamo gli intellettuali, i produttori di bellezza, di pensiero, di ideali, gli elucubratori concettuali, gli scienziati, gli artisti. Possiamo immaginare di disporre di noi stessi e non solo, supporre di non dipendere da nulla, da nessuno. Pensiamo di sapere, di inquadrare e di gestire ogni cosa, dubitiamo di ogni singola parola, crediamo a tutto, dimentichiamo la gratitudine, non ci stupiamo di nulla.

In una famelica e fagocitante dimensione di volti, voci, informazioni, contatti e isolamenti fugaci, dopo esserci “trapiantati” il cervello sino a cambiarci il cuore una, due, mille volte, abbiamo ancora il coraggio di rischiare l’aggressione, di avere paura o di dedicarci a qualcosa, a qualcuno? Noi, i padroni, così umani, così superiori, così intelligenti, siamo ancora in grado di guardare, e oltre a questo di vedere, di discernere chi o che cosa valga pena amare, seguire, attendere?

Marianna Masselli

Angelo Mai, Roma – dicembre 2018

CUORE DI CANE
di Michail Bulgakov
adattamento e regia Licia Lanera
con Licia Lanera
e Qzerty
sound design Tommaso Qzerty Danisi
luci Vincent Longuemare
costumi Sara Cantarone
maschera Sara Vecchietti
assistente alla regia Annalisa Calice
tecnici di palco Cristian Allegrini e Martin Palma
foto Manuela Giusto
organizzazione Antonella Dipierro

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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