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Last Work di Ohad Naharin per Batsheva Dance Company. Dove corre l’umanità?

Al Teatro Comunale di Ferrara è andato in scena Last Work di Ohad Naharin, per la compagnia di danza israeliana Batsheva Dance Company. Recensione

foto di Gadi Dagon/Batsheva Dance Company

Due preliminari osservazioni sono forse necessarie prima di inoltrarci in una possibile disamina di Last Work (2015) di Ohad Naharin. Per una volta, infatti, l’arrivo in Italia della “sua” israeliana Batsheva Dance Company non ha sortito polemiche e manifestazioni contro Israele, accompagnamento viceversa quasi d’obbligo (salvo rari casi) a ogni appuntamento nella nostra terra con la magnifica compagnia di Tel Aviv. Forse l’approdo nella città del Meis – il Museo nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah, già sede di una delle più antiche comunità ebraiche d’Italia – ha scongiurato tormentoni a volte carichi di violenza non solo verbale (Torinodanza), a volte capaci di scatenare baruffe con striscioni, volantini, bandiere palestinesi (Ravenna Festival).

Che la compagnia di cui sino a ieri Naharin è stato il direttore artistico (ora ne è “solo” il coreografo residente esclusivo) sia “la” compagnia nazionale dello Stato d’Israele non v’è ombra di dubbio; altrettanto chiara dovrebbe essere, almeno agli appassionati di danza e di teatro, la scomoda posizione comunque neutrale e apolitica di “Mr. Gaga”, ossia del coreografo che dal 1990 sino all’inizio del 2018 ha trasformato la Batsheva Dance Company in una delle migliori compagnie di danza al mondo, anche grazie a un liberatorio metodo di lavoro sul corpo – Gaga appunto: un metodo, attenzione, e non una tecnica! – di sua invenzione che ha offerto il titolo a un esaustivo documentario (2015) diretto da Tomer Heymann sempre in circuitazione (lo si rivedrà al Teatro Franco Parenti di Milano, il 2 dicembre, in occasione del Festival Jewish in the City 2018).

foto di Gadi Dagon/Batsheva Dance Company

Infine, grazie alla Batsheva Dance Company, il Teatro Comunale di Ferrara, intitolato a Claudio Abbado, ha ritrovato lo splendore degli antichi “sold out” per gli spettacoli di danza. Un “tutto esaurito” che induce a riflettere sull’ormai indubitabile bisogno del pubblico non solo italiano, a quanto pare, di assistere a pièce firmate da artisti autorevoli e noti e di compagnie dal riconosciuto valore non necessariamente di tenore accademico. Last Work sfugge a qualsiasi etichetta tecnica ed è del tutto inopportuno considerarlo come “l’ultimo lavoro” di Naharin.
Nettamente diviso in tre parti, risponde ad uno degli assiomi cari al proprio autore: «Coreografare offre il privilegio di trasmettere un messaggio chiaro ed eloquente senza dover fornire spiegazioni». Anzi, a differenza di altre sue creazioni poetiche e evocative, ma anche pop con cifra personale e mai ruffiana, il lavoro eccede in chiarezza sino a sfiorare la narrazione.

Una danzatrice, in lungo costume azzurro, corre di profilo sul fondo scena sopra un tapis roulant e non smetterà mai per tutta la durata dello spettacolo, circa settanta minuti. Tutt’attorno lo spazio è vuoto, delimitato solo da basse quinte a ventaglio grigio-lucente. Nella prima parte di Last Work i danzatori in calzoncini e magliette di vari colori scuri entrano uno a uno proiettati in diagonale verso il proscenio ove, sopra una musica qui delicata e altrove furente e rabbiosa, composta dal tedesco Grisha Lichtenberger (scoperto da Naharin su Internet), si protendono o si rattrappiscono in camminate diverse: lente, nevrotiche, austere, in punta. È una presentazione di corpi singoli, destinata a diventare collettiva con le danzatrici in ginocchio, le braccia protese come per offrire o chiedere qualcosa, e un saltellio maschile che diventerà sempre più ampio. Alcuni duetti, morbidi e molleggiati e di straordinaria originalità, avvicineranno uomini e donne con una grazia onirica e un’intensa, sotterranea sofferenza che finirà in ecatombe. Stesi a terra, avvolti da un dolcissimo canto Yiddish, tutti si rialzeranno grazie a un rapidissimo corto circuito musicale.

foto di Gadi Dagon/Batsheva Dance Company

È l’inizio della seconda parte, apparentemente misteriosa: i diciotto danzatori corrono verso il tapis roulant, si denudano per vestirsi di bianco, mentre taluni indosseranno tonache nere con cappuccio. A una danza a zig-zag e serpentina, tutta al femminile, si contrappone una sorta di rito imbandito da due incappucciati contro o pro un corpo steso a terra. La luce, giallognola e torbida, qui sostituisce l’iniziale chiarore azzurrino dei led per accogliere laggiù, sul fondo, un amplesso e poi anche una sorta di stupro avallato dai sacerdoti: le geometrie, di solito così naturali e necessarie, in Naharin e nei raggruppamenti, ora si sfaldano con l’apparizione di una ballerina in tutù, un cigno morente in proscenio catturato dalle tonache nere. Altri e vari rituali in maschere bianche di garza rendono anonimi i loro tumultuosi “attori”. Non basta un assolo, che sprigiona tutta la maestosa bellezza del movimento, a gettare meno ombre su questa zona così chiaramente destinata a inveire contro inquisizione, religiosità spicciola, esoterismi di ogni genere. Ombre ancor più accentuate nella terza parte.

Liberatesi delle maschere – mentre la donna di profilo corre come il tempo e forse verso un passato che è già futuro – altri tre danzatori si accostano a lei. Uno di schiena mostrerà ben presto il kalashnikov da lui accuratamente lucidato; un altro costruisce una sorta di capanna con fil di ferro poi stretto da lunghissimi nastri di scotch. Il terzo, infine, donerà una sventolante bandiera bianca alla indefessa corritrice, che da quel momento sfilerà con il niveo vessillo tenuto ben in alto con una mano. Scoppia una festa elettrica, un movimento che supera i limiti del possibile su di una musica rock quasi hard, ed è forse il fucile a lanciare coriandoli e paillettes colorate. Tutto però è finto.

foto di Gadi Dagon/Batsheva Dance Company

Ben presto il danzatore munito di scotch avvolgerà con il proprio nastro collante tutti i corpi dei danzatori, ancora a terra, come nell’ecatombe della prima parte, ma questa volta trovando essi privati di ogni possibilità di azione. La prigione dell’umanità è il pessimistico sguardo lanciato da Ohad Naharin sul mondo in questo “ultimo lavoro”: un finale ben poco proprio, ma dell’umanità.
Forse Last Work non è il più riuscito tra i suoi lavori, proprio per questa novità didascalica che offusca l’ipnotica e sofisticata saggezza e beltà della prima parte, dove tutto è rapinoso e già scritto: senza maschere, tonache nere, kalashnikov e bandiere bianche. Ma il crescendo della pièce è una indubitabile prova di forza e forse di una nuova ricerca in avvio con il sostegno di ballerini non meno che strepitosi.

Marinella Guatterini

Teatro Comunale, Ferrara – novembre 2018

LAST WORK
coregorafia Ohad Naharin
musica originale Grischa Lichtenberger
coproduzione Festival Montpellier Danse 2015, Hellerau European Center for the Arts, Dresden
con il supporto di Batsheva New Works Fund and the Dalia e Eli Hurwitz Foundation
contributo speciale The American Friends of Batsheva

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