IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Nel numero 86 si affronta il ruolo della maschera, e quindi del teatro, nella filosofia sofista di Protagora.
Chiunque leggesse oggi un buon dizionario troverebbe che il significato della parola “sofista” è quella di “ragionatore sottile e cavilloso”, dunque una persona che fa di tutto pur di dimostrare l’argomento che sta sostenendo. Se però guardiamo alla sofistica antica, noteremo che questa definizione entrata nel linguaggio comune è parziale e riduttiva.
Un primo sofista che merita attenzione è Protagora di Abdera, del quale purtroppo non ci sono rimasti frammenti o testi che parlano dell’arte dell’attore. Le poche informazioni che ricaviamo sulla sua concezione della poesia drammatica si trovano solo nel Protagora di Platone. Si tratta di un dialogo in cui il sofista conversa con Socrate intorno all’unità delle virtù e alla loro insegnabilità. I passi senz’altro più interessante ai nostri fini sono quelli in cui Protagora presenta la sua concezione della sofistica e cerca di giustificarla dai pregiudizi negativi che gravano su di essa.
Protagora sostiene che il sofista è colui che insegna l’arte politica, ossia il saper amministrare le faccende sia pubbliche che private, attraverso la parola e l’azione. Egli è poi consapevole che professare di saper insegnare questa capacità attira invidia e ostilità dei potenti. Inoltre, sostiene che è proprio per questa ragione che alcune illustre personalità del passato che esercitarono l’arte politica e si proponevano di insegnarla non si chiamarono direttamente “sofisti”, bensì usarono come maschera o paravento altri nomi. La sofistica è infatti molto antica: la praticarono, tra i tanti, Omero, Esiodo e Simonide, che preferirono chiamarsi “poeti”, nonché Agatocle e Pitoclide di Ceo, che professarono di essere “musicisti”. La loro maschera o il loro paravento venne comunque presto meno e ciò ebbe l’effetto di attirare, oltre all’ostilità che avevano invano cercato di allontanare da sé, anche la fama di truffatori. Protagora invece professa esplicitamente di essere sofista e di vivere di questa professione con grande successo o approvazione altrui, come è dimostrato anche dal fatto che ha raggiunto un’età avanzata senza aver mai subito qualche angheria dai potenti.
Il dato per noi interessante di questa affermazione di Protagora è il riferimento alla maschera o al paravanto di poeti e musicisti. Il sofista starebbe dicendo, infatti, che la poesia e la musica dei grandi artisti del passato sono di fatto una forma di sofistica, dunque una politica sotto mentite spoglie. Non ci può essere poeta o musico di valore che non cerchi, attraverso versi e melodie, di insegnare agli altri, ma soprattutto ai giovani, come dirigere la città e la propria casa. Una conferma in tal senso si trova sempre nel Protagora di Platone, dove Protagora fa una frecciatina malevola contro Ippia di Elide proprio perché questi si propone di insegnare ai suoi allievi la musica in quanto musica, non la musica come tramite per la politica. Forse tale atteggiamento verso il suo collega sofista – che sappiamo fosse stato peraltro autore di alcune tragedie, oggi perdute – è ingiusto e dettato da un senso di competizione. È possibile che, al pari di Protagora, anche Ippia considerasse la musica come una via per la politica. O meglio, come una delle tante discipline che, nel suo Dialogo troiano, venivano presentate come necessarie per rendere virtuoso e dabbene un giovane uomo. Può darsi allora che, nel dire così, Protagora cercasse di liberarsi di Ippia quale suo concorrente.
Ora, se consideriamo che, in antichità, poesia e musica erano parti delle opere teatrali, allora forse Protagora pensa che lo stesso discorso potrebbe valere anche per il drammaturgo. Un poeta tragico o comico è di valore o “sofista” se e solo se usa il teatro per coltivare la politica.
Questo discorso è compatibile, peraltro, con un altro famoso estratto del Protagora di Platone, di poco successivo alla definizione protagorea della sofistica. Qui, infatti, Protagora risponde a Socrate – che gli aveva chiesto di dimostrargli perché fosse così convinto che la politica sia insegnabile – raccontando un mito. In principio, Epimeteo donò a tutti gli animali, meno che all’essere umano, un potere speciale che avrebbe consentito loro di vivere e di continuare la propria specie (la forza, la velocità, ecc.). Uomini e donne rischiarono così di estinguersi, mancando loro un dono di natura che li tutelasse dell’estinzione, e si associarono per difendersi dalle belve che li aggredivano. Poiché però mancavano dell’arte politica, gli esseri umani riunitisi in comunità si misero presto a battagliare tra loro e, dispersi di nuovo nella natura, perivano sotto gli attacchi degli animali feroci. Allora Zeus decise di distribuire a tutti Giustizia e Pudicizia, che impediscono ai membri della collettività umana di distruggersi a vicenda. E dal momento che essere giusti ed essere pudichi sono comportamenti virtuosi che stanno alla base dell’arte politica, ecco dimostrato in forma mitica il punto che chiedeva Socrate. La politica è insegnabile perché gli dèi hanno donato a tutti, uomini e donne indistintamente, la Giustizia e la Pudicizia che fungono da germi di una buona vita nella case private come nella dimensione pubblica.
Non pago del mito, Protagora aggiunge immediatamente dopo una lunga digressione sociologica, che rafforza la sua idea che la politica sia insegnabile argomentando che tutti membri della città, dai genitori agli educatori fino ai legislatori, contribuiscono a loro modo a insegnare i rudimenti della politica. Quel che è interessante è che qui ritorna il richiamo alla poesia e alla musica. I pedagoghi insegnano infatti ai bambini i versi dei poeti e ad ascoltare/suonare le melodie convenienti per educarli al bello, al giusto e alla moderazione: tutte disposizioni virtuose che, di nuovo, rendono gli esseri umani politicamente capaci. Ne risulta confermata indirettamente la tesi che poesia e musica sono legate all’attività politica, giacché è la stessa comunità umana che mette le prime due nel curriculum educativo per arrivare in realtà a quest’ultima. Se poi prestiamo fede all’ipotesi di Untersteiner, che vuole che si ispiri alla pedagogia di Protagora un brano del libro I del Sulle leggi di Cicerone, che tra le varie cose menziona il potere del teatro e dell’arte drammatica di educare i fanciulli alla morale/alla politica, ne seguirà che, nella prospettiva protagorea, anche gli spettacoli teatrali allestiti nella città mirano a far sbocciare i semi di Giustizia e Pudicizia nell’animo umano.
Infine, è sempre il Protagora di Platone ad attribuire a Protagora un’ultima argomentazione dell’efficacia politica della poesia. Mi riferisco al momento del dialogo in cui il sofista abbandona la conversazione con Socrate sull’unità della virtù e chiede al suo interlocutore di spiegargli se Simonide (ossia, lo si ricordi: di un sofista “mascherato”) è nel giusto, quando in un identico carme sostiene che «Diventare uomo buono veramente è difficile» e rimprovera Pittaco che affermava che «Difficile è essere buono». Le due tesi sembrano essere identiche. Pertanto non è forse vero che Simonide si contraddice, quando respinge l’affermazione di Pittaco che, in realtà, dice esattamente quello che lui stesso va dicendo? Tale analisi poetica è presentata da Protagora come uno dei tanti esempi in cui si manifesta l’educazione politica dell’essere umano. Se infatti uno vuole imparare che cosa sia la virtù, deve sapere se quello che ha detto Simonide su di essa è vero o falso e, se ciò è falso o parziale, di spiegare in cosa consiste la morale autentica.
Il discorso che si è finora tenuto potrebbe dare l’impressione che, per Protagora, poesia e musica e teatro sono identiche alla sofistica, dunque che il sofista pensasse che quelle siano i mezzi migliori per arrivare alla politica. In realtà, non va dimenticato che Protagora sosteneva che poeti e musici (forse anche gli attori/i drammaturghi) incorrono in un grave errore. Essi cercano di evitare le ostilità dei potenti professando di non essere sofisti, attirandosi però un astio ancora maggiore. Già questo basterebbe in sé a provare che il sofista che si gloria di esserlo è superiore al sofista “mascherato” da artista, perché più sincero e coraggioso. Bisogna poi tenere a mente che l’analisi del carme di Simonide presenta il sofista come colui che sa giudicare quali poesie, quali melodie e quali opere teatrali dicono qualcosa di vero sulla virtù, quindi come il loro giudice competente. L’espansione massima della capacità politica si avrà, invece, quando il giovane adulto avrà abbandonato il curriculum tradizionale e sarà diventato discepolo, ovviamente a pagamento, di chi come Protagora sa meglio di altri che cosa è la morale e come la si insegna. Le arti sono allora solo un primo mezzo di preparazione alla politica, che verranno alla fine abbandonate come un guscio vuoto per gustare il frutto saporito della sofistica.
Purtroppo, non abbiamo alcuna garanzia che le argomentazioni del Protagora di Platone esprimano le idee del Protagora storico. I testi antichi diversi dal dialogo platonico sembrano anzi in parte confermarne i contenuti, in parte smentirli. Sono in linea con le argomentazioni che Platone attribuisce a Protagora quei frammenti che riportano le riflessioni del sofista sull’importanza dell’educazione per la vita, nonché le testimonianze del sofista sullo studio critico di Omero e della poesia. Dissonanti rispetto al Protagora sono invece le attestazioni del pensiero teologico autentico del sofista, che esprimeva un agnosticismo estremo. L’incipit del suo scritto Sugli dèi recitava, infatti, che non si può sapere se la divinità esiste o non esiste, a causa dell’oscurità della materia e della brevità della vita umana. È difficile allora credere che un agnostico radicale potesse al contempo credere che Giustizia e Pudicizia furono donate dagli dèi per rendere tutti partecipi della politica, anche se va detto che non si tratta di una difficoltà insormontabile. Il Protagora del Protagora racconta dichiaratamente un mito, ossia un discorso che sa essere falso e che, tuttavia, rivela una verità razionale a chi la sa scorgere. In questo caso, il punto ragionevole nascosto sotto il velo mitico è che tutti gli uomini partecipano di giustizia e pudicizia, che è dimostrabile empiricamente tramite l’osservazione che persino l’individuo ingiusto e impudico dà come minimo l’impressione di essere giusto/pudico, per non essere scacciato dalla città in cui vive. Se insomma al Protagora storico fosse stato chiesto se Giustizia e Pudicizia siano doni degli dèi, avrebbe forse risposto di non poterlo affermare con certezza, ma nemmeno di poterlo escludere recisamente. Quel che è certo è che non c’è individuo talmente ferino che la poesia, la musica, il teatro, ma soprattutto la sofistica non possano ricondurre a un comportamento giusto e pudico.
Anche noi dovremmo nutrire verso la storicità del Protagora lo stesso atteggiamento agnostico. Non possiamo sapere se le argomentazioni sulla natura politica della poesia, della musica, del teatro, della sofistica siano stato o no pronunciate. La questione è infatti difficile, e la fragilità della vita umana ha fatto sì che le nostre conoscenze sul sofista andassero disperse. Resta il fatto che Protagora continua ad agire e influenzarci se non altro come figura mitica: un Prometeo che ha cercato di rimediare all’errore di Epimeteo e di condurre gli esseri umana alla pacifica convivenza.
Enrico Piergiacomi
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Io affermo che la tecnica sofistica è antica, ma che gli antichi che l’hanno esercitata, temendo l’avversione che essa può procurare, l’hanno maschera dietro uno schermo: alcuni come Omero Esiodo e Simonide, dietro la poesia; altri dietro iniziazioni e profezie, come la cerchia di Orfeo e Museo; altri ancora dietro lo schermo della ginnastica (me ne sono reso conto), come Icco di Taranto e il sofista ancor oggi vivente, non inferiore a nessuno, Erodico di Selimbria, ma originario di Megara; dietro la musica, invece, la mascherarono il vostro Agatocle, che fu un grande sofista, Pitoclide di Ceo e molti altri. Tutti costoro, ribadisco, per paura dell’invidia, usarono queste tecni-che come paraventi. Ma io non sono d’accordo con questo loro modo di procedere; io ritengo infatti che essi non abbiano raggiunto ciò che si prefiggevano, perché la loro finzione non sfuggì a coloro che detengono il potere nelle città, per i quali appunto si adottano questi schermi. La massa, per così dire, non si accorge di nulla e si limita a ripetere ciò che proclamano i potenti. Ora, cercare di fuggire senza riuscirci e anzi facendosi scoprire, è una grande follia, che per di più accresce necessaria-mente l’ostilità degli altri, che giungono a credere che un individuo simile sia, oltre tutto, anche un furfante. Io, dunque, ho imboccato una via interamente opposta alla loro: ammetto apertamente di essere un sofista e di educare gli uomini e credo che questo aperto riconoscimento sia una precauzione migliore della loro dissimulazione. Ed ho preso anche altre precauzioni, sicché, grazie a dio, la mia professione di sofista non mi ha fatto soffrire alcuna danno. Eppure sono molti anni ormai che professo questa tecnica. E gli anni della mia vita non sono certo pochi. Non vi è nessuno tra voi di cui, per la mia età, non potrei essere padre (Platone, Protagora, passo 316d3-317c5 = Protagora, 80 A 5 DK; trad. Cambiano)
«Tu interroghi bene, Socrate, ed io sono lieto di rispondere a chi interroga bene. Ippocrate, venendo da me, non si troverà nella situazione che subirebbe frequentando qualche altro sofista. Gli altri in-fatti rovinano i giovani. Questi fuggono le tecniche, ma essi ve li ricacciano a forza, insegnando calcoli, astronomia, geometria e musica» e qui diede un’occhiata ad Ippia. «Chi viene da me, invece, non imparerà altro che ciò per cui viene. L’oggetto del mio insegnamento è l’accortezza negli affari domestici – come amministrare la propria casa nel modo migliore – e negli affari della città – come essere abilissimi a parlare e ad agire per il governo della città». «Se seguo il tuo discorso» dissi «mi pare che tu parli della tecnica politica e garantisca di formare buoni cittadini». «Proprio questa, Socrate» rispose «è la professione che io esercito» (Platone, Protagora 318d5-319a7 = 80 A 5 DK; trad. Cambiano)
Il sofista Ippia, di Elide, manteneva ancora, da vecchio, una memoria così potente, da saper ripetere nello stesso ordine anche cinquanta nomi uditi una volta sola; nelle sue conferenze trattava di geometria, di astronomia, di musica, di metrica; parlava anche di pittura e di scultura. (…) C’è di lui anche un Dialogo troiano, di cui ecco l’argomento: Nestore in Troia conquistata suggerisce a Neot-tolemo figlio di Achille che cosa deve fare per acquistar fama d’uomo valente (Filostrato, Vite dei sofisti, libro I, cap. 11, §§ 1-2 e 4 = Ippia di Elide, 86 A 2 DK; trad. Giannantoni)
Sì, per Giove, Socrate, anche di recente riportai là [a Sparta] un gran successo, parlando delle nobili occupazioni a cui conviene che un giovane si dedichi. Io ho appunto su quest’argomento una com-posizione magnifica, soprattutto per la scelta dei vocaboli. Lo spunto e il principio del dialogo è su per giù questo: dopo la presa di Troia, immagino che Neottolemo domandi a Nestore quali siano le nobili occupazioni alle quali debba dedicarsi un giovane per farsi un ottimo nome. Dopo ciò prende la parola Nestore, che gli suggerisce moltissime e bellissime norme (Platone, Ippia maggiore, passo 286a3-b4 = Ippia di Elide, 86 A 9 e B 5 DK; trad. Giannantoni)
Oltre a ciò dicevi di aver portato con te delle tue composizioni poetiche, come poemi epici e tragedie e ditirambi (Platone, Ippia minore, passo 368c8-d1 = Ippia di Elide, 86 A 12 DK; trad. Giannantoni)
Dopo che dunque l’uomo divenne partecipe della condizione divina, anzitutto, unico tra gli animali, credette negli dèi, ed eccolo a erigere altari e immagini sacre. Poi con l’arte ben presto articolò la voce in parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e scoprì gli alimenti che ci dà la terra. In tali condizioni da principio gli uomini vivevano sparsi, perché non c’eran città; sicché periva-no uccisi dalle fiere, perché erano in ogni senso più deboli di quelle; e la perizia pratica, se bastava loro come aiuto alla produzione del cibo, era insufficiente nella lotta contro le fiere; ché non aveva-no ancora l’arte politica, di cui la bellica è parte. Cercarono allora di radunarsi e salvarsi fondando città; ma quando facevan tanto di raccogliersi, si recavano offesa tra loro, appunto perché non possedevano l’arte politica; sicché di nuovo si disperdevano, e perivano. Allora Zeus, temendo per la nostra specie, che non andasse tutta in rovina, manda Ermes a portare agli uomini Pudicizia e Giustizia, perché fossero ordinatori della città e vincoli conciliatori di reciproco affetto. Domanda Ermes a Zeus in qual modo debba distribuire Giustizia e Pudicizia agli uomini: «Debbo distribuirli come furon distribuite le arti ? Per queste si fece così: un solo medico basta per molti ignoranti di medicina; e così per le altre professioni. Anche Giustizia e Pudicizia debbo assegnarli in questo modo, o debbo darne a tutti?» «A tutti, – rispose Zeus, – e che tutti ne partecipino; ché se solo pochi li avessero, come avviene per le altre arti, le città non potrebbero esistere. E fa’ pure una legge a nome mio, che chi non è capace di accogliere in sé Pudicizia e Giustizia, sia ucciso come peste della città» (Platone, Protagora, passo 322a3-d5 = Protagora, 80 C 1 DK; trad. Giannantoni, leggermente modificata)
In seguito li mandano dai maestri ed esigono che sia curata molto più la buona condotta dei bambini che il loro perfezionamento nelle lettere e nel suonar la cetra. I maestri allora provvedono a questo e, quando i bambini hanno imparato le lettere e incominciano a comprendere le parole scritte, come prima quelle pronunziate, pongono loro sui banchi, affinché li leggano, i poemi di buoni poeti e li costringono ad impararli, perché in essi vi sono molti insegnamenti, molte descrizioni e lodi ed elogi di valenti personaggi antichi, affinché il bambino si senta spronato ad imitarli ed aspiri a diventa-re come loro. I maestri di cetra, a loro volta, provvedono anch’essi che i bambini siano saggi e non commettano nulla di male: non appena i loro scolari hanno imparato a suonare la cetra, insegnano le poesie di altri buoni poeti lirici, facendole loro suonare sulla cetra e costringono i ritmi e le armonie ad adattarsi alle anime dei bambini, affinché diventino più miti, più armonici e ordinati e, in tal mo-do, valenti nel parlare e nell’agire: tutta la vita dell’uomo, infatti, ha bisogno di ritmo e di armonia (Platone, Protagora, passo 325d7-326b6; trad. Cambiano)
Il diritto ha il suo fondamento nel volere dei popoli, nelle prescrizioni dei capi, nelle sentenze dei giudici: esso trova l’approvazione per mezzo del voto o del decreto popolare. Tanto grande potere possiedono le votazioni e la volontà < della moltitudine >, in modo che la natura si muti in séguito a un voto. La legge potrebbe trasformare in giusto ciò che è ingiusto. Ciò che è bene, ciò che è male noi giudichiamo che dipendono dall’opinione. Per esempio la perfezione di un albero e di un caval-lo dipende dall’opinione. Se la perfezione in generale viene giudicata secondo l’opinione, con questo medesimo criterio si giudicano anche le loro parti. Le qualità naturali devono venir giudicate secondo la natura: le virtù e i vizi, che si determinano dalla natura, devono venir giudicati con un altro criterio. Questi, infatti, non devono venir giudicati con un altro criterio, mentre ciò che è bene e ciò che è male non è necessario che sia riferito alla natura. Il bene di per sé dipende dall’opinione. Esiste infatti varietà di opinioni, che si manifesta nelle opposte vedute degli uomini, e poiché questo medesimo dissidio non si manifesta nei sensi, noi consideriamo questi per natura infallibili; le esperienze, invece, che si rivelano agli uni in un modo, agli altri in un altro, né sempre in un sol modo alle medesime persone, noi diciamo che sono opera dell’immaginazione. La madre, la nutrice, il pedagogo, il poeta, l’arte drammatica, quando ricevono animi che si possono plasmare e inesperti, li impregnano e li piegano (Cicerone, Sulle leggi, libro I, capp. 16-17, §§ 43-47 = Protagora, fr. 23a, ed. e trad. Untersteiner)
Cominciò allora [Protagora] a interrogare così: «Io credo, Socrate, che la maggior parte dell’educazione di un uomo consista nell’essere un conoscitore di poesie, cioè nell’essere in grado di comprendere quali affermazioni dei poeti sono composte rettamente e quali non lo sono, saperle distinguere e, interrogato, saperne dare ragione. La mia domanda ora verterà sullo stesso argomento di cui discutevamo prima io e tu, cioè sulla virtù, ma trasposto in poesia: questa sarà l’unica differenza. In un passo Simonide dice a Scopa, figlio di Creonte il Tessalo: “Diventar uomo buono veramente è, sì, difficile, / tetragono di mani, di piedi e di mente, / costruito senza difetto”. Conosci questo canto o devo recitartelo tutto?». Io risposi: «Non è necessario, lo conosco e l’ho studiato molto». «Bene» disse. «Ti pare che sia composto bene e rettamente o no?». «Molto bene e retta-mente» risposi. «Ma ti sembra che sia ben composto, se il poeta si contraddice?». «No certo» risposi. «Osservalo meglio, allora» disse. «Ma, caro, l’ho esaminato abbastanza». «Allora sai che nel seguito del canto egli dice: “Né io stimo appropriata la sentenza di Pittaco, / benché pronunciata da un sapiente mortale: / è difficile, disse, essere buono”. Ti rendi conto che è la stessa persona a dire queste cose e quelle precedenti?». «Lo so» risposi. «E ti pare» chiese «che queste si accordino con quelle?». «A me sembra di sì» risposi (ma intanto temevo che mi obiettasse qualcosa). «Perché, a te non sembra?». «E come potrebbe apparire coerente con se stesso l’autore di questi due brani? Prima stabilisce che è difficile diventare uomo veramente buono, ma procedendo un po’ avanti nella sua poesia se ne dimentica e rimprovera a Pittaco di aver detto le stesse cose che ha detto lui, cioè che è difficile essere buono, e rifiuta di accettare ciò che egli stesso ha detto. Eppure è chiaro che, quando rimprovera chi fa le sue stesse affermazioni, egli rimprovera anche se stesso, sicché o prima o dopo non è giusto quello che dice» (Platone, Protagora, passo 338e6-339d9 = Protagora, 80 A 25 DK, e Simonide, fr. 260 Poltera; trad. Cambiano)
Ma se vi è qualcuno che anche di poco ci supera nel far progredire verso la virtù, bisogna accontentarsi. Io credo di essere uno di questi e di potere, più degli altri, aiutare chiunque a diventare un perfetto galantuomo e di meritarmi il compenso che chiedo, anzi uno ancora maggiore, come stimano i miei stessi allievi. Ho quindi escogitato questa procedura per il pagamento del mio compenso: terminato l’insegnamento, l’allievo, se vuole, mi paga la somma che chiedo; altrimenti, entra in un tempo, dichiara sotto giuramento quanto valgono i miei insegnamenti e ne sborsa l’importo (Platone, Protagora, passo 328a8-c2; trad. Cambiano)
Chi mai penserebbe che abbia sbagliato Omero in quel che Protagora gli rimprovera, cioè che, men-tre crede di pregare, comanda, quando dice: «l’ira canta, o dea»? Perché secondo lui, il dir di fare o no una cosa è un comando (Aristotele, Poetica, 1456b15-19 = Protagora, 80 A 29 DK; trad. Giannantoni)
Protagora dice, riguardo allo svolgimento della battaglia, che l’episodio seguente della lotta tra lo Xanto e il mortale ha luogo per introdurre alla Teomachia, e forse proprio per dare risalto alla figura di Achille … balzava non più nella corrente ma nella pianura (Scolio a Omero, Iliade, libro XXI, v. 240 = Protagora, 80 A 30 DK; trad. Giannantoni)
Nel libro intitolato Grande Trattato, Protagora disse: «Due cose l’insegnamento richiede: disposi-zione naturale ed esercizio»; e: «Bisogna incominciare a studiare da giovani» (Protagora, 80 B 3 DK; trad. Giannantoni)
Protagora diceva esser nulla sia l’arte senza studio, sia lo studio senz’arte (Stobeo, Florilegio, libro III, cap. 29, § 80 = 80 B 10 DK; trad. Giannantoni)
Protagora ha detto: «Non germina la cultura nell’anima, se non si va molto a fondo» (Pseudo-Plutarco, Sull’esercizio, p. 178 = Protagora, 80 B 11 DK; trad. Giannantoni)
Riguardo agli dèi, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana (Diogene Laerzio, Vite dei filo-sofi, libro IX, § 51 = 80 B 4 DK; trad. Giannantoni)
Nelle altre tecniche, come tu dici, se qualcuno afferma di essere, per esempio, un buon suonatore di flauto o esperto di qualsiasi tecnica, che egli invece non possiede, è deriso o biasimato e i suoi fami-liari accorrono ad ammonirlo come se fosse un pazzo. Nel caso, invece, della giustizia e di ogni al-tra virtù politica, anche se sanno che un individuo è ingiusto, se costui dichiara apertamente la verità sul proprio conto, avviene il contrario: il dire la verità, che in quel caso era considerato saggezza, qui è considerato pazzia. E si afferma che tutti debbono dichiarare di essere giusti, lo siano o no, e chi non finge di esserlo è un matto, perché è necessario che ognuno partecipi in qualche modo della giustizia o non stia tra gli uomini (Platone, Protagora, passo 323a5-c2; trad. Cambiano)
[Le traduzione e le edizioni usate sono di:• Giuseppe Cambiano (a cura di), Platone: Protagora, Menone, Fedone, Milano, Mondadori, 1983;
• Gabriele Giannantoni (a cura di), I Presocratici, Roma-Bari, Laterza, 1969;
• Mario Untersteiner, I sofisti. Volume 1: Protagora e Seniade, Firenze, La Nuova Italia, 1967;
• Orlando Poltera (Hrsg.), Simonides lyricus: Testimonia und Fragmente, Basel, Schwabe, 2008]