IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Nel numero 85 si affronta la controversa figura di Orfeo, la sua filosofia performativa attraverso testimonianze positive e negative.
È assodato il legame tra Orfeo e il teatro; i suoi miti furono rappresentati nelle tragedie antiche. Ma fu anche un filosofo? Diogene Laerzio menziona l’ipotesi secondo cui egli potesse essere tra i padri iniziatori della disciplina. La filosofia sarebbe così nata tra i barbari e non in Grecia.
Eppure, Diogene trovava ripugnante pensare a questo padre fondatore della disciplina filosofica. Orfeo fu, a suo dire, un individuo che raccontò cose molto disdicevoli sugli dèi, in particolare introducendo ai Greci due celebri “misteri”. Il primo è quella della morte di Dioniso bambino. Nato dall’unione illegittima di Zeus con Semele, egli si attirò la gelosia di Era, che istigò contro di lui la crudeltà dei Titani. Questi attirarono con dei giochi il piccolo Dioniso lontano dai Cureti, divinità armate e danzanti che avrebbero dovuto proteggerlo, per poi smembrarlo e divorarlo. Scoperto l’accaduto, Zeus incenerì i Titani, dalle cui ceneri sarebbero in seguito nati gli esseri umani, e ordinò ad Apollo di ricomporre le membra del fratello, procurandone così la resurrezione. Il secondo mistero di Orfeo riguarda invece il mito di Demetra, che riportò nel mondo dei vivi la figlia Proserpina rapita da Ade. Determinante nella riuscita dell’impresa fu Baubò. Questa donna fece infatti ridere la dea mostrandole i propri genitali e, così facendo, la guarì dalla depressione in cui era caduta dopo il rapimento della figlia e la infuse nuove energie per proseguire nella sua ricerca.
Diogene non reputa insomma opportuno chiamare Orfeo il “primo filosofo”, in quanto ebbe l’ardire di introdurre sotto i nomi di “misteri” dei falsi racconti che attribuiscono agli dèi passioni nocive quali l’odio, il dolore, la gelosia, l’ira, la lascivia, la tristezza, il tradimento e la morte.
Altre testimonianze antiche propongono, però, che l’Orfismo fosse qualcosa di più di un’empia fantasia poetica. Accanto alla lettura razionalista di Diogene Laerzio (a cui si aggiunge almeno anche quella di Diodoro) si sviluppò una linea difensiva di natura allegorica, che riconosceva ad Orfeo e ai suoi seguaci una filosofia di tipo mistico. Gli Orfici intendevano presentare, sotto il velo della poesia misterica, un invito a intraprendere un percorso di purificazione morale e intellettuale. Gli esseri umani devono cercare di abbandonare la loro origine “titanica”, ereditata dalla loro nascita dalle ceneri dei Titani, e acquisire una rinascita divina, che invece risulta accessibile grazie al contatto con le membra smembrate e divorate di Dioniso. Il racconto del ciclo della morte con relativa resurrezione proprio dei misteri non fa che ribadire lo stesso concetto sotto altra forma. Chi vivrà puro come Dioniso e Demetra non potrà mai morire, perché la sua anima rinascerà incorrotta e perfetta.
Cercare di capire fino a che punto la prospettiva allegorica esprimesse le autentiche convinzioni di Orfeo e soprattutto coincida con la realtà storica è un’ambizione realisticamente impossibile. Le fonti orfiche sono talmente numerose, variegate e contraddittorie da precludere anche al più dotto storico delle religioni di arrivare a un risultato pacifico, o anche solo poco controverso. Quello che mi interessa qui sottolineare è che la linea di difesa allegorica procedeva, forse, di pari passo con la dimensione di tipo performativo. In altri termini, la filosofia orfica era di carattere performativo, perché veniva realizzata soprattutto attraverso il ricorso a due arti: il canto e la danza.
Sul primo, si può procedere speditamente. Tutte le testimonianze – incluse quelle sulla leggenda di Orfeo “cantore” – attestano che i misteri orfici fossero rivelati cantando. Circa la danza, può invece essere utile esordire da una testimonianza di Luciano di Samosata. Questi riporta, nel Sulla danza, che gli Orfici rivelavano all’iniziato la loro sapienza tramite danze, che riproducono i tratti salienti dei misteri dionisiaci. Benché Luciano sia molto posteriore a Orfeo e le informazioni del suo trattato siano da prendere con cautela, dal momento che il personaggio di Licinio che espone le idee lucianee tenta forzosamente di dimostrare che il ballo diede origine a tutte le arti, i mestieri e le filosofie, la testimonianza è storicamente affidabile perché trova diversi paralleli antichi. Oltre a un aneddoto di Demostene, si può ricordare la danza armata che imitava lo smembramento di Dioniso e i suoi Cureti, che già Platone conosceva e sarà echeggiato sia da Proclo, sia da Clemente di Alessandria. Lo stesso Platone prende in giro questa pratica orfica nell’Eutidemo, sostenendo che i sofisti Eutidemo e Dionisodoro rivelavano la loro misteriosa arte sofistica danzando attorno ai giovani. La linea razionalista non mancherà di denunciare le danze orfiche per la loro lascivia e mollezza, stavolta attraverso la voce di Apollonio di Tiana. In ogni caso, questa argomentazione polemica conferma la storicità della fonte di Luciano. Nessuno infatti attacca una pratica che non esiste.
Cos’è che gli spettacoli del canto e della danza hanno in comune, al punto da essere stati presi dagli Orfici come la probabile via regia per l’iniziazione salvifica? Il solo denominatore comune che, secondo la prospettiva orfica, unisce canti e danze – stando almeno ai testi che conosciamo – è la dimensione del gioco, che a sua volta conduce l’iniziato all’esperienza del riso e del piacere. Il punto trova conferma in moltissimi testi, che sottolineano come le melodie di Orfeo si distinguono per la loro dolcezza e che il difficile percorso misterico culmina nella gioia – icastica è una lamina orfica del IV secolo a.C. trovata a Thurii, che riporta: «Gioisci sopportando la prova, che mai prima provasti: / da uomo sei divenuto dio». Anche Platone e Plutarco riferiscono, poi, che le iniziazioni orfiche erano di carattere ludico (dei “giochi”, appunto), che avrebbero condotto con un divertimento illuminato a una vita di pura gioia nell’aldilà. E qui gli Orfici non avrebbero fatto altro che ripetere quello che già facevano da iniziati nell’esistenza mortale: danzare, cantare, ridere come ebbri. Infine Museo – discepolo di Orfeo – porta all’estremo questa prospettiva, asserendo che gli esseri umani traggono il massimo piacere dal canto.
La via della salvezza orfica deve insomma passare per l’edonismo, o per meglio dire tramite quella che potremmo chiamare una “filosofia del riso”. L’essere umano raggiunge uno statuto divino per mezzo del piacere destato dall’ilarità delle arti della danza e del canto. Del resto, stando almeno a delle tarde testimonianze orfiche, dal riso e dal sorriso degli dèi sarebbe nato il mondo. Ridere è quindi il principale veicolo iniziatico per raggiungere l’assimilazione al divino.
Potrebbe certo apparire bizzarro qualificare l’Orfismo come una “filosofia”, e per giunta una filosofia di carattere edonistico. Da un lato, gli Orfici sembrano mancare quanto ci aspetteremmo da un discorso filosofico: il ricorso alla ragione, l’argomentazione coerente, il controllo delle ipotesi sull’esperienza. Dall’altro, l’Orfismo presenta una prospettiva che da altri punti di vista è ostile al godimento e alla gioia di vivere. Gli Orfici non parlavano solo di canti, danze, giochi e risate. Erano consapevoli delle atrocità dell’esistenza, tramite le immagini dello smembramento del bambino Dioniso o della separazione di Proserpina dalla madre Demetra, e prescrivevano pratiche ascetiche o mortificanti per il corpo (considerato come la “tomba” dell’anima), quali il vegetarianismo. Pensare dunque a un edonismo orfico sarebbe un palese assurdo, un po’ come immaginare un libertinismo asessuato, o una sbronza sobria.
La prima obiezione può essere superata sottolineando che la filosofia non passa sempre necessariamente per l’argomentazione razionale e l’osservazione scientifica dei fatti. Altrettanto plausibile è immaginarla come un’attività di tipo immaginativo ed esperienziale, dove il medium della poesia risulta più efficace dell’argomentazione critica. Gli Orfici si purificano, da questo punto di vista, non adeguandosi a un obiettivo di vita stabilito razionalmente, bensì inseguendo un ideale poetico. Se questa seconda definizione della filosofia è plausibile, allora si può bene qualificare l’Orfismo come filosofico.
Contro la seconda obiezione, ben più insidiosa e forte, occorre invece stabilire una premessa. Il “piacere” è una nozione complessa, ma che viene solitamente confusa con le mere sollecitazioni dei sensi, che alcuni individui potrebbero voler cercare di massimizzare commettendo persino gesta infami. La forza o il potere potrebbero essere cercati per ottenere ricchezza sufficiente a ottenere cibi succulenti e realizzare le più perverse fantasie sessuali. Se ci fermiamo a questa concezione ordinaria, ovviamente l’Orfismo non può essere qualificato come un movimento edonista. Se invece consideriamo il piacere come quella condizione in cui si attraversano le esperienze più piene e vitali, allora si può pensare agli Orfici come a degli edonisti. La loro idea è, forse, che ciò che appaga per essenza il bisogno umano di vitalità sono le attività estetiche della danza e del canto, che destano un godimento che non ha eguali, hanno quale loro sintomo fisico il riso e non richiedono la potenza di cui si diceva sopra. Museo stesso condensò questo concetto nel verso «sempre l’arte è di gran lunga superiore alla forza», forse perché concede essa le gioie estetiche che si ottengono senza eccessivo dispendio di risorse o energie. Di fronte al danzare e al cantare con ilarità, dunque, i piaceri ordinari – cibo, sesso, amicizia, virtù, amore – semplicemente impallidiscono, svaniscono come ombre pesanti di fronte ai sottili raggi del sole.
La constatazione che l’ilarità del canto e della danza passa per il racconto di cose atroci e terribili non è allora sufficiente ad attenuarne la carica edonistica. Altri componimenti poetici attribuiti a Museo riportano, per esempio, che la dolcezza della sapienza orfica ha tra le sue componenti anche la conoscenza del male e della caducità dell’esistenza. È entro tale cornice, allora, che noi troviamo lo stimolo a cantare e danzare. Se non ci fosse la necessità di vincere il male e la morte, forse né gli esseri umani né Dioniso e Demetra avrebbero mai scoperto la danza, il riso e il canto, che aspirano a una seconda nascita. L’atrocità è insomma la condizione necessaria dei piaceri estetici. Senza ombre da dissipare, il sole non potrebbe semplicemente dispiegare tutta la sua luce.
Questa conclusione storico-filosofica potrebbe anche aprire una prassi militante, o la possibilità di un manifesto di edonismo teatrale. Attori e spettatori cercano attraverso il teatro un piacere fuori dal comune, che ambirebbe a esorcizzare la caducità e la morte con il riso. Se è così, il cammino da fare è ancora lungo e impervio, forse impossibile. Non si conosce artista che, destando una risata a teatro, sia riuscito a far rinascere attori e spettatori alla vita intensa. In questo senso, nessun attore – anche di genio – ha mai evocato il teatro. Ma l’impresa è bella e, quand’anche fallisse, riuscirebbe a farci guardare gli abissi della morte e del male non con timore e tremore, ma con un largo sorriso.
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Quelli che attribuiscono ai barbari la scoperta della filosofia, traggono in campo anche il tracio Orfeo, dicendo che fu filosofo ed è antichissimo. Io, se bisogna chiamare filosofo chi si espresse in modo così sacrilego intorno agli dèi, non so chi si debba designare con tal nome: quelli infatti chiamano filosofo un uomo che non ebbe alcuna remora ad attribuire agli dèi ogni umana passione ed anche quelle turpitudini che solo raramente alcuni uomini commettono (e, per giunta, solo con l’organo della voce) (Diogene Laezio, Vite dei filosofi, libro I, § 5; trad. Gigante).
Presso Orfeo sono tramandati quattro regni: primo quello di Urano, che ricevette Crono, una volta che ebbe evirato i genitali del padre; dopo Crono regnò Zeus, che scaraventò nel Tartaro il genitore; in seguito, a Zeus successe Dioniso che, dicono, i Titani gravitanti intorno a lui dilaniarono, per una macchinazione di Era, e si cibarono delle sue carni. E Zeus, colto dallo sdegno, li folgorò e, generatasi materia dalla cenere fumante da essi prodotta, nacquero gli uomini; dunque, non bisogna che facciamo morire noi stessi, non solo, come sembra dire il mito, perché siamo in un carcere, il corpo (questo infatti è chiaro), e non lo avrebbe detto affinché restasse segreto, ma non bisogna far morire noi stessi, anche perché il nostro corpo è dionisiaco: infatti, noi siamo parte di lui, se è vero che siamo formati dalla cenere dei Titani, che ne mangiarono le carni (Olimpiodoro, Commentario al «Fedone» di Platone, cap. 1, § 3 = Orfeo, F318 e 320 Bernabé).
E che c’è di strano se i barbari Tirreni attendono alle iniziazioni con atti così turpi, quando per gli Ateniesi e per il resto della Grecia, mi vergogno pure a dirlo, la mitologia relativa a Deò [= Demetra] è piena di crimini vergognosi? Deò infatti, peregrinando alla ricerca della figlia Core [= Persefone] nella regione di Eleusi…, si affaticò e si sedette addolorata vicino a un pozzo. Questo è vietato agli iniziati ancora oggi, perché non sembri che quanti ricevono l’iniziazione imitino lei piangente. A quel tempo abitavano Eleusi i nati dalla Terra: i loro nomi erano Baubò, Disaule, Trittolemo e, ancora, Eumolpo ed Eubuleo. Trittolemo era bovaro, Eumolpo pastore ed Eubuleo porcaro: da costoro discendono la stirpe degli Eumolpidi e quella dei Cerici, stirpi di ierofanti che fiorirono in Atene. In realtà Baubò – non ometterò certo di dirlo – accolta Deò in maniera ospitale, le offrì il ciceone. Ma poiché costei – era infatti afflitta – rifiutava di accettarlo e non voleva bere, Baubò, rattristatasi, pensando di non esser tenuta proprio in nessun conto, scoprì i genitali e li mostrò alla dea; Deò si compiacque alla vista e finalmente, divertita dallo spettacolo, accettò la bevanda. Questi sono i misteri segreti degli Ateniesi. Questi fatti, come vedi, li riporta anche Orfeo. Ti citerò gli stessi versi di Orfeo, perché tu abbia il mistagogo a testimone della svergognatezza: «Così dicendo, sollevò il peplo e mostrò le fattezze di tutto il suo corpo e non distintamente era fanciullo Iacco, e ridendo si lanciò con la mano sotto il grembo di Baubò; la dea, dopo aver sorriso, gioì nel suo cuore e accettò la coppa variopinta in cui c’era il ciceone» (Clemente di Alessandria, Protrettico, cap. 2, sezioni 20-21 = F391-392 Bernabé).
Ora, in un tempo successive, Orfeo, che godeva in Grecia di grande fama per l’abilità del canto, la competenza dei riti e la dottrina teologica, fu ospitato dai discendenti di Cadmo ed ebbe a Tebe onori particolari. E poiché aveva grande familiarità con la tradizione teologica egiziana, trasferì la nascita dell’antico Osiride in tempi più recenti e per gratificare i discendenti di Cadmo istituì un nuovo rito, in cui agli iniziati si rivelava il racconto della nascita di Dioniso da Semele e da Zeus. Gli uomini allora accettarono queste cerimonie iniziatiche, parte ingannati per ignoranza, parte convinti dalla fama e dell’autorità di Orfeo in materia religiosa, soprattutto perché erano pronti ad accogliere volentieri un dio ritenuto d’origine greca, come si è detto in precedenza. In seguito, dopo che del racconto della nascita del dio si impadronirono gli scrittori di miti e i poeti, ne son stati riempiti i teatri e tra le generazioni posteriori salda e immutabile si è fatta la credenza in questa storia (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro I, cap. 23, §§ 6-8 = Orfeo, F327 Bernabé).
Faccio a meno di dire che non si trova un solo rito misterico antico senza la danza, senza dubbio perché li istituirono Orfeo, Museo e i migliori danzatori di quel tempo. Essi stabilirono la bellissima regola che i misteri dovevano svolgersi con ritmo e danza. Senza mettere in dubbio il fatto che sia giusto mantenere il riserbo sui misteri a causa dei non iniziati, tutti hanno sentito dire che chi svela i misteri lo fa danzando (Luciano, Sulla danza § 15 = Orfeo, T599 Bernabé, e Museo, T36 Bernabé; trad. Beta-Nordera).
Diventato poi uomo, leggevi gli scritti magici a tua madre che conduceva l’iniziazione e assieme a lei complottavi altre cose; dì notte ti coprivi con pelli di cerbiatto, ti ubriacavi, purificavi gli iniziati, li nettavi con la creta e con la pula, e sorgendo dalla purificazione ordinavi di dire «ho fuggito il male, ho trovato il meglio», fiero del fatto che nessuno abbia mai gridato con voce talmente forte… di giorno poi guidavi lungo le strade i bei cortei rumorosi, dove tutti erano incoronati dì finocchio e di foglie di pioppo, tenevi stretti i serpenti bruno-rossastri e li agitavi levandoli sopra la tua testa, gridavi euoì sabòi danzando al ritmo di hyès attes attes hyès; facevi il corifeo e l’istruttore e il portatore di edera e il portatore del canestro, acclamato con questi titoli dalle vecchiette, e ricevevi come mercede per tutto questo pappe e ciambelle e focacce fresche. Per tali ragioni, chi non dovrebbe davvero ritenere fortunato se stesso e la propria sorte? (Demostene, Sulla corona, cap. 18, §§ 259-260 = Orfeo, T577 Bernabé).
Né si devono trascurare tutte le scene che conviene imitare nelle danze: in questo luogo (Atene) quelle dei Cureti in armi, a Sparta quelle dei Dioscuri. La nostra giovane vergine e signora, lieta del gioco della danza, pensò che non doveva dilettarsi a mani vuote, bensì, adorna di un’armatura completa, guidare così la danza. Sarebbe di sicuro conveniente che giovani e fanciulle insieme, onorando la grazia della dea, imitassero queste danze, sia nella necessità di una guerra che per le feste. Bisognerebbe poi che i fanciulli, subito e per tutto il tempo in cui non vanno ancora in guerra, facendo processioni e cortei in onore di tutti gli dei, si ornassero sempre di armi e cavalli, rendendo più veloci e più lente nelle danze e nella marcia le preghiere agli dei e ai figli di dei (Platone, Leggi, libro VII, passo 796b3-d1 = Orfeo, T19 Kern).
Inoltre, seguendo Orfeo, Platone chiama in termini precisi la triade implacabile e incontaminata degli dei intellettivi triade dei Cureti, come nelle Leggi dice lo straniero di Atene, quando celebra i divertimenti in armi dei Cureti e la loro danza ben ritmata. E infatti, Orfeo pone presso Zeus i Cureti come custodi in numero di tre. I decreti dei Cretesi e tutta la teologia greca rapportano a questa classe la vita e l’attività pura e incontaminata. Il termine koron non indica nient’altro se non ciò che è puro e incontaminato (Proclo, Teologia platonica, libro III, cap. 3 = T151 Bernabé).
I misteri di Dioniso sono infatti del tutto disumani: mentre attorno a lui ancora fanciullo i Cureti si muovevano in una danza armata e i Titani cercavano di guadagnarsi il suo favore con l’inganno, dopo averlo sedotto con passatempi che si addicono ai fanciulli, questi Titani lo sbranarono, benché fosse ancora un bambino, come afferma il poeta dell’iniziazione, Orfeo il Tracio: «La trottola, il rombo, le bambole pieghevoli, e le belle mele d’oro delle Esperidi dalla voce acuta». E non è inutile illustrare come oggetto di biasimo i simboli inutili di questa vostra iniziazione: l’astragalo, la palla, la trottola, le mele, il rombo, lo specchio, il vello (Clemente di Alessandria, Protrettico, cap. 2, sezioni 17-18 = Orfeo, F306 e T588 Bernabé).
Clinia, non meravigliarti se questi discorsi ti appaiono insoliti. Forse non ti accorgi di ciò che stanno facendo i due forestieri nei tuoi confronti: fanno la stessa cosa che fanno quelli che partecipano all’iniziazione dei Coribanti, quando eseguono l’intronizzazione di colui che stanno per iniziare 21 • Anche là c’è una danza corale e un gioco, se sei stato iniziato. Così anche adesso questi due non fanno altro che e danzare in coro scherzando intorno a te, come se poi volessero iniziarti. (Platone, Eutidemo, 277d4-e2 = Orfeo, T602 Bernabé; trad. Cambiano).
Si dice che abbia biasimato gli Ateniesi riguardo alle Dionisie, che vengono da loro celebrate nel mese di Antesterione. Egli pensava infatti che si recassero a teatro ad ascoltare monodie e canti di parabasi e di ritmi, come quelli che sono propri della commedia e della tragedia; ma, dopo aver sentito che danzano flettendo il corpo al suono di un flauto e, in mezzo all’epica e alla teologia di Orfeo, compiono gesti ora come le Ore, ora come le Ninfe ora come le Baccanti, si fece avanti per criticare questo e disse: «Smettete di disonorare danzando i vincitori di Salamina e numerosi altri uomini valorosi defunti; se infatti si trattasse di una danza spartana: Bene soldati, poiché fate esercizio per la guerra e danzerò con voi, ma se è molle e tende all’effeminatezza, che cosa devo dire dei vostri trofei?» (Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, libro IV, cap. 21 = Orfeo, T1018 Bernabé).
Museo e suo figlio concedono ai giusti da parte degli dèi beni ancor più splendidi di questi: li guidano infatti col loro discorso presso Ade, apprestando per loro un simposio dei santi, dove giacciono inghirlandati, e di qui in poi li fanno passare tutto il tempo bevendo, giacché ritengono che il più bel compenso per la virtù sia una sbronza eterna. Ma altri estendono ancora al di là di questi i compensi ricevuti dagli dèi: figli dei figli, dicono, e un’intera stirpe rimane dopo di lui dell’uomo santo e fedele ai giuramenti. (…) Esibiscono poi un bailamme di libri di Museo e di Orfeo, figli, a quanto dicono, di Selene e delle Muse: secondo le loro prescrizioni officiano i sacrifici, convincendo non solo singoli privati ma persino città che esistono purificazioni assolutorie per gli atti ingiusti, ottenibili mediante sacrifici e piacevoli giochi da chi è ancora in vita, e ve ne sono anche per i morti, che essi chiamano iniziazioni, le quali ci liberano dai mali di laggiù, mentre cose tremende attendono chi non abbia compiuto i sacrifici (Adimanto in Platone, Repubblica, libro II, passi 363c3-d4 e 364e3-365a3 = Orfeo, T431, 434, 573 Bernabé; Museo, F76 Bernabé; trad. Vegetti).
Così, diciamo che l’anima giunta nell’Ade è andata completamente perduta, tenendo presente il suo passaggio e la sua trasformazione dal particolare al Tutto. Quando è qui sulla terra, l’anima non sa nulla, salvo quando è vicina alla morte. Allora prova un’emozione simile a quella di quanti sono iniziati ai Grandi Misteri. Perciò è parso legittimo accostare la parola e il fatto di morire alla parola e al fatto di essere iniziato. Dapprima l’uomo affronta un faticoso vagabondare e un ritrovarsi sempre al punto di partenza, e un cammino incerto e senza meta tra le tenebre, e poi, prima della fine, prova tutte esperienze spaventose: terrore, tremito, sudore e sbigottimento. Ma, dopo questo momento, gli si fa incontro una luce meravigliosa e lo accolgono luoghi e prati incontaminati, dove sono voci e danze e solenni canti sacri e visioni santificanti. In questi luoghi l’uomo ormai giunto alla perfezione e iniziato al mistero, libero e sciolto da ogni legame terreno, se ne va in giro con la corona sul capo, rapito in estasi, e si accompagna a uomini beati e senza macchia. Guarda sulla terra la folla dei vivi, non iniziata e impura, che si lascia calpestare a vicenda e sospingere nel fango e nella nebbia; la vede che per paura della morte rimane legata ai suoi mali, perché non crede ai beni dell’aldilà. E poi c’è un altro fatto dal quale potresti renderti conto che l’intreccio e l’unione dell’anima con il corpo non è naturale (Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 52, § 49 = Plutarco, fr. 178 Sandbach, Orfeo, T594 Bernabé; trad. Rossa).
La tua lingua è contraria a quella di Orfeo: con la. sua voce infatti egli condusse ogni cosa nella gioia (Eschilo, Agamennone, vv. 1629-1630 = Orfeo, T946 Bernabé; trad. Colli).
Ma quando l’anima abbandoni la luce del sole, / la via destra deve seguire, che custodisce ogni bene. / Gioisci sopportando la prova, che mai prima provasti: / da uomo sei divenuto dio; capretto cadesti nel latte; / gioisci, gioisci, percorrendo la via a destra / per i sacri prati e i boschi di Persefone (Lamina di Thurii, IV secolo a.C. = Orfeo, 487F Bernabé; trad. Colli).
Perciò anche Museo afferma che «per i mortali piacere supremo è il cantare»… (Aristotele, Politica, libro VIII, passo 1339b21-22 = Museo, F94 Bernabé).
I miti non dicono sempre che gli dei piangono, ma infinite volte che ridono, poiché le lacrime simboleggiano l’attenzione da loro prestata alle cose mortali e caduche, le quali a volte sono, a volte non sono, mentre il ridere simboleggia l’influenza che essi esercitano sulle masse intere e mosse da un movimento sempre identico le quali compongono l’universo nella sua totalità. Ecco perché, credo, anche quando dividiamo le creature del demiurgo in dei e uomini, accordiamo il ridere alla generazione degli esseri divini, le lacrime alla nascita degli uomini o degli animali: Le tue lacrime sono proprie della razza dei miseri uomini, ma è con un sorriso che tu hai fatto nascere la sacra stirpe degli dei; Quando li suddividiamo tra gli esseri celesti e quelli sublunari, di nuovo, secondo il medesimo principio, attribuiamo il ridere agli esseri celesti, le lacrime a quelli sublunari; quando poi prendiamo in considerazione le generazioni e le corruzioni degli stessi esseri sublunari, riferiamo le prime al ridere degli dei, le seconde ai lamenti. E per questo, anche nei misteri, i fondatori delle leggi sacre raccomandano di praticare queste due attività in date stabilite, come è stato detto altrove. E lo stesso è il motivo per cui gli sciocchi non comprendono né i riti compiuti in segreto nei misteri, né simili finzioni mitiche. Infatti, l’ascolto di entrambi senza che se ne abbia una conoscenza scientifica produce nella vita dei molti uno sconvolgimento terribile e straordinario del timore reverenziale verso il divino (Proclo, Commento alla «Repubblica» di Platone, libro I, cap. 127 = Orfeo, T545 Bernabé).
E, infatti, alcuni dicono che il corpo (soma) è una tomba (sema) dell’anima, ritenendo che questa vi sia sepolta nel tempo presente; e poiché inoltre con esso l’anima significa ciò che significa, anche per questo è giustamente chiamato segno (sema). A me sembra tuttavia che a conferire questo nome siano stati in particolare i seguaci di Orfeo quasi che l’anima, pagando il fio per le colpe che deve espiare, affinché si custodita in questo recinto che ha la parvenza di un carcere. E, dunque, come esso è detto, è carcere (soma) dell’anima, finché essa non abbia pagato i propri debiti, e non c’è da cambiare nulla, neppure una lettera (Platone, Cratilo, passo 400b9-c9 = 430F Bernabé; traduzione modificata).
Orfeo nella sua opera poetica disprezza profondamente il consumo di carne (Ieronimo, Contro Gioviniano, libro II, cap. 4 = T630 Bernabé).
Museo scrive: «Sempre l’arte è di gran lunga superiore alla forza»; e Omero: «Con l’astuzia il taglialegna riesce meglio che con la forza» [Iliade, libro XXIII, v. 315]. Altri versi di Museo: «Proprio come il campo fecondo fa germogliare le foglie, e alcune sui frassini le fa avvizzire, altre spuntare, così volge la generazione e la stirpe degli uomini»; e Omero trascrive: «Le foglie, parte il vento le sperde per terra, ma altre ne fa spuntare la selva rigogliosa – ed allora sopraggiunge la primavera: così le generazioni degli uomini: una spunta, una finisce» [Iliade, libro VI, vv. 147-149] (Clemente di Alessandria, Stromati, libro VI, cap. 2, par. 5, §§ 5-8 = Museo, F96-97 Bernabé; trad. Pini).
Esiodo compose i versi seguenti, riferendosi a Melampo: “Ma dolce è il sapere, ciò che per i mortali fecero / gli immortali, chiaro segno di ciò che è vile e di ciò che è nobile” e via di seguito, prendendoli alla lettera dal poeta Museo (Clemente di Alessandria, Stromati, libro VI, cap. 2, par. 26, § 3 = Museo, F99 Bernabé).
[La raccolta completa delle testimonianze e dei frammenti su/di Orfeo, Museo e altri Orfici sono pubblicate in Alberto Bernabé (ed.), Poetae Epici Graeci. Testimonia et fragmenta. Pars II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta. Fasciculi 1-3, Saur, Manachii et Lipsiae, 2014-2017. Laddove non diversamente indicato, le traduzioni sono di Elena Verzura (a cura di), Orfici: testimonianze e frammenti nell’edizione di Otto Kern, premessa e introduzione di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2011. Le altre rese italiane sono di:
- Giuseppe Cambiano (a cura di), Platone: Dialoghi filosofici. Volume primo, Torino, UTET, 1970;
- Giorgio Colli (a cura di), La sapienza greca. Vol. 1: Dioniso; Apollo; Eleusi; Orfeo; Museo; Iperborei; Enigma, Milano, Adelphi, 1987;
- Giovanni Pini (a cura di), Clemente di Alessandria. Stromati: note di vera filosofia, Milano, Edizioni Paoline, 2006;
- Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio: Vite dei filosofi, Roma-Bari, Laterza, 1962;
- Mario Vegetti (a cura di), Platone: La repubblica. Vol. II: libri II e III, Napoli, Bibliopolis, 1998;
- Rosanna Rossa (a cura di), Plutarco: Frammenti (13-24, 113-152, 173-179), in Emanuele Lelli, Giuliano Pisani (a cura di), Plutarco: Tutti i moralia, Milano, Bompiani, 2017 [la numerazione dei frammenti plutarchei è di Francis Henry Sandbach (ed.), Plutarch: Fragments, Harvard, Harvard University Press, 1969];
- Simone Beta, Marina Nordera (a cura di), Luciano: La danza, Venezia, Marsilio, 1992].