Le nozze di Figaro con la regia di Graham Vick e la direzione musicale di Stefano Montanari, visto al Teatro dell’Opera di Roma. Recensione
The “Elephant in the room”, l’elefante nella stanza, è un’espressione idiomatica inglese, usata per riferirsi a qualcosa che si trova sotto gli occhi di tutti, ma che ci si ostina a non voler vedere: un mix tra il nostro struzzo con la testa sotto la sabbia e la favola dei vestiti nuovi dell’imperatore. Un concetto prepotentemente esposto, come suo solito, dal regista britannico Graham Vick, che materializza questa espressione piazzando un gigantesco elefante sul palco del Teatro dell’Opera di Roma, pronto a schiacciarci tutti sotto le sue mastodontiche zampe.
Un’immagine così chiara che a chiamarla metafora sembra quasi di esagerare, tanto è reale la pressione che comunica, e che non concede troppo spazio a divagazioni sui massimi sistemi. Quello che fa è piuttosto lasciarci seduti al buio a domandarci: “Ma cos’è che stiamo evitando di vedere?”. Le possibili risposte a questa domanda in realtà sono parecchie e tutte contenute nel testo di Beaumarchais prima e in quello di Da Ponte – Mozart poi. Un testo teatrale controverso, quello della Folle giornata, ricco di contenuti politici anti-aristocratici, che ne decretò nel 1781 il divieto messa in scena da parte di Luigi XVI: troppo pericoloso quel Figaro, servo libertino contro l’ordine costituito e peggio ancora sua moglie Susanna, che si permette di irretire un Conte in una trama di inganni, neanche fosse suo pari. Quando riesce a diventare un’opera e va in scena nel 1786 a Vienna i tagli sono sostanziali, ma lo spirito di fondo non va perso: è subito un grandissimo successo.
Tutto quello che una volta, quindi, ci si sforzava di tenere nascosto e che nel corso dei secoli è stato faticosamente svelato, oggi paradossalmente vive e abita ancora silenzioso tra noi, occupando un ingombrante posto nei nostri salotti. Le persistenti differenze tra classi sociali, il malsano rapporto di potere imposto dal denaro, ma soprattutto la disparità tra l’uomo e la donna, sono i piccoli grandi elefanti che Vick, con pochi elementi estremamente simbolici, mette in scena. Lo vediamo già nell’overture a scena aperta, dove viene emblematicamente rappresentato il concetto chiave di questa regia, il potere, nella sua declinazione di potere sessuale dell’uomo sulla donna: mentre una serie di cameriere, chine sul pavimento nell’atto di pulirlo, eseguono una specie danza a tratti erotica a tratti terrorizzante, passando da posizioni lascive a movimenti convulsi da crisi epilettica senza soluzione di continuità, il Conte di Almaviva si aggira tra loro esaminandone “l’operato” e, sul finale, ne sceglie una e se la porta fuori scena.
Il Conte (Andrey Zhilikhovsky), che di nobile non ha proprio nulla, è un volgare erotomane quasi sempre svestito, che si aggira a piedi nudi (in vestaglia, ma col Rolex) per quello che sembra essere il suo albergo, a caccia di tutte le donne su cui può mettere le mani, sempre, letteralmente piene di soldi. Non è tanto però la sua ricchezza a dargli il potere, ma la condizione di superiorità che questa gli permette di avere sul personale di servizio, che si traduce in questo caso in supremazia sessuale: sulla cameriera dell’overture, su Susanna, dalla quale vuole riscattare lo “Ius primae noctis” e ovviamente sulla propria moglie, dalla quale però non cerca sesso, ma esige lo stesso obbedienza.
La Contessa (Federica Lombardi) ne è perfettamente consapevole, parla dei “Moderni mariti” “Per sistema/ infedeli, per genio capricciosi,/ e per orgoglio tutti gelosi”(atto II, scena 1), ma ne rimane ugualmente innamorata o, quanto meno, soggiogata dal suo potere. È proprio qui che compare il primo enorme elefante, dipinto mentre fa breccia nella parete di fondo del salone della Contessa, quasi a tentare di farle notare, con una certa irruenza, che ciò che è disposta a subire dal marito, forse, non è proprio giusto. Ma la nascita e l’ascesa del maschio-padrone a quanto pare è una cosa normale a casa Almaviva, dato che anche il piccolo Cherubino (Miriam Albano) non sembra essere immune al morbo del conte. Del tutto e per tutto uguale a quest’ultimo, vestito perfino allo stesso modo, anche Cherubino si aggira per la tenuta in una smaniosa caccia sessuale rivolta dapprima a Susanna, poi alla Contessa e infine a Barbarina (Daniela Cappiello), la giovane figlia del giardiniere; questa, all’inizio del quarto atto, sdraiata su un materasso in camicia di notte canterà con una tale disperazione “L’ho perduta… Me meschina…” toccandosi i genitali, da farci domandare se stia effettivamente parlando della spilla della cugina.
E la classe subalterna, invece, si salva? Non del tutto. Susanna (Benedetta Torre) più che la scaltra eroina mozartiana sembra una donna cinica, consapevolmente rassegnata alla propria condizione di implicita sottomissione del suo ruolo di cameriera: sa che per poter sposare il suo caro Figaro, senza avere troppi guai, deve sottostare agli abusi non solo del Conte, ma perfino a quelle di un ragazzino come Cherubino. Anche Figaro (Simone Del Savio) del resto combatte la sua lotta contro “i potenti” non tanto per senso di giustizia, quanto per poter affermare il proprio di potere, frustrato. Lo si vede bene quando durante il “Farfallone amoroso” costringe il riluttante Cherubino a farsi fare la barba da lui, diventando letteralmente quello col “coltello dalla parte del manico”. Inoltre, anche Figaro esercita il suo potere sessuale sulla sua promessa sposa: per tre volte, quando è pronto a prendere in mano la situazione e sfidare il Conte, toglie il grembiule a Susanna e la cinge ai fianchi, come a dirci che dopo il matrimonio questa non dovrà più prestare servizio al Conte, ma diventerà una cosa sua (grembiule che, prontamente, lei torna sempre ad indossare).
“Ogni donna è portata alla difesa/del suo povero sesso/da questi uomini ingrati a torto oppresso” dice Marcellina (Patrizia Biccirè) all’inizio del quarto atto, il momento di attuazione della capziosa macchinazione per smascherare i tradimenti dei mariti. Qui l’elefante si fa gigantesco, le sue quattro zampe, di cui una alzata, sono le vere protagoniste in scena insieme ai corpi nudi (di donne vere, non di manichini) impiccati, in una carriola, sulle sedie. Si sta compiendo il maggiore atto di cecità: la Contessa ha appena colto sul fatto il marito, ma repentinamente lo perdona. Al “Più docile io sono/ e dico di sì” il teatro si blocca: la Contessa non lo guarda nemmeno in faccia e l’orchestra rallenta e suona cupissima, come se fosse un requiem. Così al successivo “Ah tutti contenti/ saremo così” l’amaro dell’indifferenza ci invade la bocca, lasciandoci da soli di fronte al nostro personale elefante, ancora da smascherare, mentre il lieto fine va compiendosi, imperterrito.
Si rivela quindi ancora una volta vincente la coppia, oramai consolidata, di Montanari e Graham Vick, unita nell’intento di restituire un Mozart sospeso nella storia, libero di tutti gli orpelli barocchi. È un suono metallico, quasi elettrico quello dell’orchestra diretta da Stefano Montanari, frenetico e sospeso, sempre proiettato in avanti. Persino gli intermezzi di forte piano, suonati da lui stesso, conservano pochissimo dell’atmosfera buffonesca settecentesca, conferendo un carattere ultramoderno ai personaggi, così ampiamente caratterizzati da Vick. Questo forte legame, non sempre scontato, tra la conduzione musicale e la direzione registica crea uno spettacolo solido, estremamente a fuoco e sicuramente unico, che, nonostante tutto questo, porta ovviamente con sé qualche fischio (quello sì, purtroppo scontato).
Flavia Forestieri
Le nozze di Figaro
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Opera Buffa in quattro atti
Libretto di Lorenzo Da Ponte
Prima rappresentazione
Vienna, Burgtheater, 1 maggio 1786
Durata: 3,30h circa – I/II ATTO 92′ – INTERVALLO 30′ – III/IV ATTO 78′
DIRETTORE Stefano Montanari
REGIA Graham Vick
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Scene e Costumi Samal Blak
Movimenti coreografici Ron Howell
Luci Giuseppe Di Iorio
Principali interpreti
Il Conte di Almaviva Andrey Zhilikhovsky / Alessandro Luongo 31, 2, 7, 9
La Contessa di Almaviva Federica Lombardi / Valentina Varriale 31, 2, 7, 9
Susanna Elena Sancho Pereg / Benedetta Torre 31, 2, 7, 9, 11
Figaro Vito Priante / Simone Del Savio 31, 2, 6, 7, 9
Cherubino Miriam Albano / Reut Ventorero 31, 2, 7, 9
Marcellina Patrizia Biccirè
Don Bartolo Emanuele Cordaro
Don Basilio Andrea Giovannini
Don Curzio Murat Can Güvem*
Barbarina Daniela Cappiello / Rafaela Albuquerque* 31, 2, 7, 9
Antonio Graziano Dallavalle
Prima contadina Claudia Farneti/ Carolina Varela 31,2,7,9,11
Seconda contadina Angela Nicoli / Nicoletta Tasin 31,2,7,9,11
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
* dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento
con sovratitoli in italiano e inglese