Ha debuttato al Teatro della Pergola di Firenze Un cuore di vetro in inverno, creazione di Filippo Timi. Recensione
Muore un uomo, sorge un cavaliere. Muoiono desideri e amori, annegati nella sprezzante consapevolezza del paladino. Periscono i dubbi e scompaiono gli inciampi di una vita, le incertezze e gli slanci: timori e angosce possono forse cogliere gli spettatori e le principesse, gli scudieri e i critici, ma non sono concessi al nostro campione. L’eroe è – deve esserlo! – senza macchia, deve anzi celare al di sotto dello scintillio dell’armatura le tante ombre di un’umanità debole. Soprattutto, egli è senza paura: di acciaio e ferro, adamantino e impenetrabile, corrisponde – come esige la narrazione – alla nemesi delle nostre esitazioni.
Eppure è vetro cristallino la sostanza con cui Filippo Timi plasma il suo cavaliere: frangibile, permeabile alla luce come all’oscurità, esposto, forse addirittura solo. È Un cuore di vetro in inverno a battere adesso nel petto dell’eroe, improbabile spadaccino non più guascone. Non c’è millanteria nelle sue parole, bensì una consapevolezza moderna dei limiti all’interno della quale la propria incancellabile umanità si trova costretta a muoversi: confini angusti, che sembrano minare all’origine ogni possibilità di successo nella sfida mossa al drago, o nella quotidiana giostra in cui egli si trova a competere.
Presentato in prima nazionale come evento inaugurale della stagione del Teatro della Pergola, Un cuore di vetro in inverno – coproduzione tra la Fondazione Teatro della Toscana e il Teatro Franco Parenti – offre agli spettatori il risultato, intimo e personale, di un’indagine compiuta dall’attore e regista umbro attorno all’immaginario di “dame e cavalieri, arme e amori”, trasfigurato tuttavia attraverso un affastellarsi di suggestioni e citazioni, icone novecentesche e derive pop. Ed è qui, in questa sovrapposizione di estetiche, che il lavoro di Timi sembra patire una natura talmente ambigua da risultare poco coesa: da un lato ancorato alla sua consueta cifra macchiettistica, dall’altro debitore di una ricerca fortemente influenzata dai magisteri di Pasolini e Fellini, Un cuore di vetro in inverno sembra sbilanciarsi e perdere l’equilibrio, sostare in un limbo di incertezza che lo accomuna al suo protagonista.
Esemplificativi, in questo senso, sono i due incipit pressoché antitetici con i quali si apre la creazione, che nella loro rapida successione rivelano da un lato l’adesione a triti stilemi, dall’altro il contemporaneo tentativo di ricorrere a nuove soluzioni, quasi inaspettate se rapportate a quanto contraddistingueva le precedenti produzioni firmate da Timi. Indossando un vaporoso abito da sposa, solo davanti al sipario ancora chiuso e illuminato dalle lampade a incandescenza poste sulla ribalta, Timi è un surreale cantastorie en travesti, che strimpella alla chitarra – in un italiano antico impastato nel dialetto – una chanson di attese e drammatiche solitudini. È, questo, l’ennesimo elemento camp della cui presenza già Il Don Giovanni e Favola sembravano soffrire, una facile concessione ai tòpoi del varietà che nulla aggiungono allo sviluppo drammaturgico ma anzi sembrano minarne la pregnanza. L’apertura del sipario, tuttavia, rivela uno scenario di malinconica grazia: una periferia suburbana gravida di presenze, immersa nella luce crepuscolare delle borgate dei Ragazzi di vita o nell’oscurità colma di stelle delle Notti di Cabiria. Potrebbe essere il Seicento di Cervantes, oppure gli anni Cinquanta dello Sputnik, i Sessanta di Jurij Gagarin e dell’allunaggio di cui una voce off ricorda le vicende: è un’epoca ambigua e indecisa, nella quale i sogni – siano essi conquistare la bella Dulcinea o un minuscolo frammento di universo – sembrano fare i conti con la fragilità umana, e con la terra che inevitabilmente attrae a sé chiunque voglia provare a fuggirne.
Imbrigliati nei propri ruoli – e in piccole strutture semoventi che li contengono e li costringono alla bidimensionalità – si stagliano al di sopra del panorama un cantastorie non più giovane e un angelo compassionevole ma incapace di custodire alcunché, una prostituta disincantata e uno scudiero alle prime armi della guerra e dell’amore. Ad abitare questo spazio liminale, metafisico più che reale, sono così figure oniriche, mere proiezioni mentali di quel cavaliere i cui turbamenti costituiscono il solo fulcro della vicenda: mentre Filippo Timi cerca invano di fronteggiare il proprio drago, gli altri interpreti – Elena Lietti, Andrea Soffiantini, Michele Capuano e una Marina Rocco efficace nella sua svagata frivolezza – meticciano i riferimenti culturali, mistificano l’ambiente, affabulano in una babele di dialetti e accenti. Menestrelli e clown si alternano infatti a Marilyn Monroe, o alla fugace apparizione di una Sacra Famiglia, in una contaminazione linguistica e figurativa che giustappone singoli racconti a latere della traccia narrativa principale. La struttura drammaturgica tratteggia – attraverso quadri ed episodi, stazioni di una via Crucis destinata a un Golgota esistenziale – un coacervo di anime alla deriva, irrisolte e ciò nonostante caparbiamente decise ad amarsi e a proteggere un briciolo di felicità. E Filippo Timi, alternando preziose sfumature introspettive con infelici sprazzi da avanspettacolo, si pone come nucleo germinativo di una paura senza nome che emerge nei lunghi monologhi e sembra decostruire, agli occhi del pubblico così come ai propri, quell’immagine di coraggio con la quale si ritrae da sempre il corpo del cavaliere. Quello del protagonista, coperto dalla corazza o soltanto da un lembo di stoffa, è invece offeso dalla ferite del rimpianto, dall’orrore di sentirsi inadeguati alla sfida impostagli.
Nel ricorso a una trama esilissima, che sottrae centralità all’azione a tutto vantaggio di una riflessione sulla sua assenza, Timi sembra intraprendere una strada originale, autoriale seppur ancorata a modelli riconoscibili: ciò che stupisce è il ricorso alla battuta greve, l’ammiccare alle file della platea, le mossette di danza, l’utilizzo banalizzante del pop, che stride con la parabola antiretorica del tribolato guerriero che si vorrebbe qui evidenziare. C’è, nel destino del protagonista di Un cuore di vetro in inverno, il germe della ribellione al cliché narrativo: muore un cavaliere, forse sorgerà un uomo. Ma è proprio di stereotipi e consuetudini che sembra invece soffrire lo spettacolo.
Alessandro Iachino
Teatro della Pergola, Firenze – ottobre 2018
UN CUORE DI VETRO IN INVERNO
di e con Filippo Timi
con Marina Rocco, Elena Lietti, Andrea Soffiantini, Michele Capuano
luci Camilla Piccioni
assistente alla regia Benedetta Frigerio
direttore di scena Alberto Accalai
scene costruite presso il Laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati presso la Sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni
macchinista Mattia Fontana
elettricista Lorenzo Bernini
fonico Emanuele Martina
sarta Caterina Airoldi
amministratrice di compagnia Beatrice Cazzaro
direttore tecnico Lorenzo Giuggioli
produzione Teatro Franco Parenti e Fondazione Teatro della Toscana
foto di scena Filippo Manzini