Dopo il debutto al Teatro Lauro Rossi di Macerata, l’Aminta firmata da Antonio Latella ha raggiunto il Teatro Cucinelli di Solomeo. Recensione
Il mondo dell’Aminta di Torquato Tasso è, nelle parole del critico Francesco De Sanctis, «un mondo raffinato, e la stessa semplicità è un raffinamento». A questa qualità – artificio prezioso ma terso, che rinnova la propria purezza nella densità viva del ritmo – rimanda anche il lavoro condotto da Antonio Latella con la Compagnia stabilemobile, elaborato in residenza a Esanatoglia, un piccolo paese nel cuore squassato del maceratese, e debuttato al Teatro Lauro Rossi di Macerata l’8 novembre, all’interno del progetto di rinascita culturale post-sisma, targato MiBAC e Amat.
Per portare in scena la favola pastorale che Tasso presentò alla corte estense nel luglio del 1573, Latella sceglie una scena scura e profonda e rinuncia a ogni espediente estetico che possa de-focalizzare la ricezione della parola, nella sua inestimabile nettezza. Questa costruzione risponde a due intenzioni dichiarate: la «trasparenza della regia» – al servizio di un pensiero sensibile, prima che analitico – e l’adozione di una «lingua madre», quella di Tasso, espressa e potente, “politica” perché investita del compito di opporsi (mai ritoccata o semplificata nell’adattamento drammaturgico di Linda Dalisi) alla parola contemporanea, banalizzante e brutale.
L’intreccio originario conta nove personaggi e un coro, ciascuno di loro, in modo più o meno cangiante, simboleggia o espone una visione dell’amore: la trasfigurazione dolce e sensuale della quale il pastore Aminta investe Silvia, fuggevole e fiera, piegata infine solo dalla pietà, che «messaggiera è de l’amore, come ’l lampo del tuono»; forza primordiale da osservare con lieve sprezzatura di pensatore per Tirsi; strumento di un’iniziazione alla vita secondo Dafne, saggia amica di Silvia; voluttà cruenta nel satiro. Attorno a loro, come echi, le voci di altri pastori o messaggeri risuonano di moniti, nell’orbita lieve di una querelle sulla teoria d’amore che – accanto alle questioni normative e letterarie della Controriforma, e in parte facendosene specchio – costituisce il cuore del dibattito di corte del secondo Cinquecento.
I quattro interpreti (Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta, Matilde Vigna e Giuliana Bianca Vigogna) sono “creature mutanti” sul palco buio: ciascuno di loro riveste più di un ruolo ma questi passaggi non vengono espressi attraverso tratti di caratterizzazione quanto affidati all’ascolto del pubblico. Appaiono, al contrario, spesso immobilizzati nella geometria quasi arbitraria di un disegno scenico essenziale che, mentre eleva e verticalizza l’intensità della parola che portano, esalta la qualità armoniosa delle loro presenze fisiche. Allo stesso tempo l’utilizzo così raccordato degli attori, nel flusso ininterrotto e verseggiato del testo, conferisce alla coralità un’architettura scenica e ritmica di macchina, nella quale scintillano pochi cenni di individualità più esposta e poche sospensioni, ricche di eloquenza.
Il trattamento virtuoso della parola non offusca la vitalità del testo, l’indietreggiamento della regia cede un terreno simbolico alla comprensione di questa lingua lontana nel tempo, che nella musicalità madrigalistica della combinazione di endecasillabi e settenari ricerca, sotto la grazia di maniera, il suono capace di dare densità viva, quasi corporeità, all’espressione del paradosso e del tormento. La sfida è dunque vinta assecondando la natura dell’ostacolo. La difficoltà e l’antichità del linguaggio sono l’elemento prezioso e, per paradosso, nuovo, che rilancia l’ascolto in direzione di una profondità complessa ma spontanea: nel situarsi fuori da ogni automatismo di ricezione, la parola recitata dimostra la propria comprensibilità, senza celebrare la tradizione ma raccogliendola e rigenerandola nell’atto semplice del consegnarla. La seconda parte dello spettacolo conquista un grado espressivo ulteriore e – portando a emersione quella latenza rock che già si intuiva nelle posture e nelle prossemiche del primo atto – sviluppa gli esiti, fatali ma lieti, della vicenda spezzando il fraseggio per versi con le esecuzioni di Rid of me di P.J. Harvey e Vitamin C dei Can. Nel frattempo la luce calda di un faro viaggia sul binario circolare che avvolge la scena, sottraendola a ogni percezione di stasi.
Questo lavoro, elaborato negli stessi luoghi feriti nei quali ha debuttato, acquista una grazia anomala e ulteriore nello spazio conchiuso di Solomeo, dove aleggiano l’atmosfera e la cura di una piccola corte neoclassica: appena oltre la sensualità a orologeria del meccanismo scenico, si avverte ancora, in quell’idillio increspato d’inquietudine, il messaggio equivoco di Tasso.
L’Aminta di Latella porta sull’amore una verità spaventosa: racconta della sua qualità non ammaestrabile, che confligge con le regole del consorzio civile e con quelle dell’equilibrio umano, che chiede una trascendenza impossibile e, in ogni dinamica simmetrica o normata, cessa di esistere. Il desiderio ha la natura dell’invivibile, una natura che non può essere nominata in maniera diretta ma solo evocata nei movimenti complessi di una parola che, aggirando il modello che incarna, lascia aperti come ferite i varchi per l’abisso.
Ilaria Rossini
L’AMINTA
da Torquato Tasso
regia Antonio Latella
con Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta, Matilde Vigna, Giuliana Bianca Vigogna
drammaturgia Linda Dalisi
scene Giuseppe Stellato
costumi Graziella Pepe
musiche e suono Franco Visioli
luci Simone de Angelis
movimenti Francesco Manetti
produzione Stabilemobile
in collaborazione con AMAT e Comune di Macerata