Un attraversamento di T*Danse, il festival dedicato alla nuova danza che ha animato dal 14 al 21 ottobre 2018 la Cittadella dei Giovani di Aosta, e un approfondimento su Melting Pot di Marco Torrice.
Un reportage veridico da T*Danse, il Festival internazionale della nuova danza di Aosta che quest’anno ha animato la Cittadella dei Giovani dal 14 al 21 ottobre, dovrebbe avere il proprio incipit nell’entusiasmo di Laura, giornalista che mi ha ospitato nel suo appartamento di Villair de Quart: ne descriverebbe la cura posta nell’accoglienza, l’interesse nello scoprire quali fossero le caratteristiche della critica teatrale contemporanea, la sensibilità offerta nel consigliarmi con quali occhi osservare il paesaggio. Il resoconto descriverebbe poi la dedizione con cui gli studenti del Liceo Artistico hanno abitato la Cittadella e ne hanno riverberato sul web — grazie al progetto #comunicadanza diretto da Simone Pacini — gli eventi così come l’atmosfera quotidiana, e proseguirebbe raccontando di una platea partecipe e curiosa, che ha affollato i workshop, le installazioni e le performance. L’articolo si concluderebbe offrendo uno sguardo agli incontri con gli artisti — svolti nella caffetteria della Cittadella sotto forma di brevi talk all’insegna della convivialità — e alle conferenze che hanno animato le sale della Biblioteca Regionale di Aosta, coinvolgendo curatori e studiosi. All’analisi critica degli spettacoli sarebbero dedicate poche righe, in confronto allo spazio necessario a ripercorre i tanti fili che T*Danse tende attraverso una città e i suoi abitanti, intrecciando con essi un tessuto resistente, in grado di sopportare le contraddittorie sollecitazioni del territorio.
Inserita dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali tra le regioni “teatralmente disagiate”, la Valle d’Aosta è stata ciò nonostante costellata di festival pionieristici. Nella loro volontà di esaltarla attraverso i linguaggi dell’arte, avulse da qualsiasi ottica turistica e commerciale ma in grado di coinvolgere imprese e istituzioni locali, le esperienze de Lo Scenario Sensibile — diretto dal 2000 al 2011 da Valeriano Gialli — e de Le Strade del Cinema — curato da Enrico Montrosset, oggi direttore artistico della Cittadella dei Giovani — sono la testimonianza di un passato vitale e fervido, nel quale l’avanguardia teatrale o la musicazione live di capolavori del cinema muto attraevano pubblico e investimenti. Eppure oggi tali rassegne sono già oggetto di una memoria colma di ammirazione: proprio al lavoro di Gialli è stata dedicata nella giornata conclusiva del festival la tavola rotonda Artisti e curatela: l’esperienza de “Lo Scenario Sensibile”, trasformatasi in un momento di confronto tra alcuni operatori nazionali intorno ai successi e ai fallimenti di progetti visionari e coraggiosi. Le vicende degli Incontri Cinematografici di Stresa ripercorse da Enrico Pastore, le sfide affrontate dal festival ConFormazioni di Palermo o da TenDance a Latina raccontate da Danila Blasi, i significati complessi che l’abusato concetto di “decentramento culturale” assume a Morgex, dove il collettivo Palinodie realizza la rassegna Prove generali: tutto sembra comprovare l’esistenza a livello nazionale di un fermento sempiterno, di una necessità — equamente condivisa dagli artisti, dal pubblico e dagli organizzatori — di edificare nuovi spazi di dialogo, «arcipelaghi per provare a raggiungere altre terre emerse» come li ha brillantemente definiti Lorenzo Donati in un recente articolo. Eppure mai come in questi anni il “meccanismo festival” sembra andare incontro a una crisi che, dapprima economica, ne coinvolge la stessa identità, e mina — spesso a causa della complicità della politica — quel prezioso entusiasmo che ne è alla base: come affermato da Gialli, il rapporto tra curatori e istituzioni ha assunto, negli anni, sempre più la forma di un «combattimento», di una guerriglia che termina nella migliore delle ipotesi con un ridimensionamento della rassegna, e nella peggiore con la sua cancellazione.
Lungi dal voler illustrare una terapia che possa risolvere una patologia talmente complessa, T*Danse è sembrato tuttavia evidenziare una determinazione precisa e coerente: “valorizzare il territorio” rifiutando di offrire quello che Marco Chenevier — co-direttore del festival insieme a Francesca Fini — ha definito durante la tavola rotonda “teatro di servizio”, ma piuttosto costruendo una rete di relazioni dialettiche con le istituzioni, con il mondo della scuola, con i cittadini. Attraverso i numerosi host che hanno ospitato nelle proprie case artisti e critici, il coinvolgimento degli studenti nei progetti di alternanza scuola-lavoro e ai percorsi di visione degli spettacoli destinati agli allievi delle scuole di danza valdostane, T*Danse manifesta un’idea di festival fortemente inclusiva, per la quale i titoli del cartellone — in alcuni casi fin troppo acerbi o ingenui — sono occasioni di cementare attorno al fatto spettacolare e all’evento performativo una comunità transgenerazionale, al cui interno gli “addetti ai lavori” sono sembrati essere, felicemente, soltanto una minoranza.
Significativa, in questo senso, è la scelta di affidare la chiusura della rassegna a Melting Pot, l’ibrida creazione di Marco Torrice presentata in prima nazionale nella Sala Expo della Cittadella. Il coreografo italiano, attivo soprattutto a Bruxelles, è infatti autore di un dispositivo immersivo, che fonde lo spettacolo con la ricerca pedagogica, la contemplazione frontale dell’evento con la partecipazione attiva degli spettatori, una fruizione di matrice museale con l’happening: un crogiolo, appunto, di pratiche, latore di sofisticati significati etici e politici. Torrice — che a T*Danse ha condotto anche una masterclass, come tutti gli artisti invitati alla rassegna — fa propria la cifra della ball culture, a sua volta nucleo germinativo di stili quali il voguing e terreno di fermentazione dell’estetica queer, e costruisce uno spazio dove la sperimentazione della danza diviene strumento di interazione sociale e medium attraverso il quale promuovere una mixité di generi, identità, età, gusti. Make-up e bigiotteria, accessori glitter ed elementi dello streetwear più colorato sono la divisa unisex che veste nove performer, chiamati ad abitare la Sala Expo ora attraverso schiere — i cui movimenti sono mutuati dalle danze di strada ed eseguiti in un sincrono sporcato dall’estro individuale — ora in assoli, floorwork, brevi passi a due. Ciò a cui assiste il pubblico, assiepato lungo le pareti e libero di entrare e uscire a piacimento, è una performance priva di rigide costruzioni, capace di mutare secondo le posture e gli atteggiamenti degli astanti: e tuttavia i pattern sembrano a tratti ripetersi, rivelare al di sotto della superficie apparentemente fluida un tracciato replicabile e comprensibile. È con un rapido sguardo, o con una mano che indica improvvisamente il centro del dancefloor, che il gruppo ci invita a prendere parte a quella festa inizialmente riservata a pochi: ma la proposta di Torrice sembra qui scontrarsi con la difficoltà ad aprire il meccanismo e a modulare i tempi e le griglie di improvvisazione della prima sezione con la volontà di coinvolgere il pubblico. Melting Pot si sfilaccia così — nonostante la timida ritrosia di molti — nell’energico dj-set condotto da Rafael Aragon, perde la propria aura di fenomeno underground e muta sé stesso in una qualsiasi special night di una discoteca europea, dove le differenze tra artista e critico, tra danzatore e appassionato, tra straniero e cittadino, si diluiscono in una koinè sensuale, ironica, preziosa. Ma in fondo, non è questo che devono fare il teatro, la danza, un festival?
Alessandro Iachino
Aosta, T*Danse — ottobre 2018
MELTING POT
pratica di danza condotta da Marco Torrice
danzatori Naim Belhaloumi, Fanny Brouyaux, Diela Nkita Emmanuel, Maria Ferreira Silva, Nóra Horváth, Ivona Medic, Junior Ouattra, Gaspard Rozenwajn, Marco Torrice
dj Rafael Aragon
con il sostegno di VGC (Vlaamse Gemeenschapscommissie), BCDA (Budapest Contemporary Dance Academy), Recyclart (BE), Rainbow House (BE), Volksroom (BE)