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Teatrosofia #84. I “rimedi” di Eraclito. Empietà della catarsi?

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Nel numero 84 proviamo a riflettere su Eraclito e il trattato Sui Misteri di Giambilico.

In un lungo estratto del libro I del trattato Sui misteri di Giamblico, filosofo platonico e teurgo del III-IV secolo d.C., leggiamo un’interessante digressione sul potere purificatore di alcuni riti. Le anime umane sono dapprincipio libere dal corpo e a contatto con gli dèi puramente intelligibili. A seguito della nascita o della “generazione”, però, ossia più nello specifico con l’incarnarsi nella materia, ciascun individuo si trova a patire i mali delle passioni violente e, per estensione, nella necessità di ricorrere appunto ad alcuni rituali per giungere a uno stato di appagamento emozionale non dannoso. Tra questi riti purificatori, Giamblico ne menziona tre: le falloforie, le tragedie e le commedie. Prescindendo dalle differenze, si nota che un tratto comune a questi rituali è la capacità di attuare quello che noi – sulla scia di Aristotele – denomineremmo “catarsi”. Lo spettatore dei gesti osceni delle falloforie, dei casi pietosi della tragedia e dei fatti ridicoli della commedia riesce a sfogare l’eccesso delle pulsioni interiori verso l’oscenità, la pietà e la risata, che se trattenute troppo a lungo possono arrivare a danneggiare la salute psichica. In un certo senso, dunque, l’osceno viene curato mediante l’osceno, la pietà attraverso la pietà, il riso tramite il riso.

A chiusura di questa digressione, Giamblico cita a conferma l’autorevole parere di Eraclito. A suo dire, infatti, quest’ultimo pensava a sua volta che, a seguito della generazione, le anime si trovano ad esperire i mali delle passioni e chiamava “rimedi” i riti catartici appena menzionati. Questa tesi sembra essere rinforzata successivamente da Giamblico stesso nel libro V del Sui misteri. Il filosofo ricorda qui di nuovo Eraclito, attribuendogli la credenza in un rito attuato da pochissimi esseri umani interamente purificati, o addirittura da un unico individuo.

Non è ancora possibile approfondire il pensiero di Giamblico sulla tragedia e sulla commedia. Lo si potrà fare solo molto più avanti nella rubrica, dopo aver studiato la tradizione neoplatonica di cui questo filosofo fa parte e il modo in cui questa interpretava il fenomeno estetico. Quello che si può invece già fare è verificare se il richiamo finale a Eraclito è fondato e se questi pensasse realmente che il teatro attua una forma di catarsi positiva. In tal caso, verrebbe sconfessata una delle tesi principali presentate in un appuntamento precedente: che il pensiero eracliteo fosse ostile al teatro, in quanto si tratta di una pratica che rompe l’unità degli opposti e li divide in maniera indebita.

Cominciamo col verificare, dunque, se Eraclito partisse dalle stesse premesse dottrinali di Giamblico, vale a dire che “nascere” significa per un’anima incarnarsi in un corpo e che i mali della generazione consistano nelle passioni violente. Circa la prima, non abbiamo notizie che Eraclito abbracciasse la dottrina dell’incarnazione. Egli poteva anzi in realtà osteggiarla, considerata la sua ostilità verso Pitagora che credeva nella metensomatosi e la sua idea che l’anima nasce invece dall’acqua. Il massimo che Eraclito poteva concedere è, forse, che le anime morte andranno nell’Ade, poiché un suo frammento riporta che esse continuano a esercitare l’olfatto, o che un individuo può raggiungere una sorta di immortalità conquistando la gloria in vita, o ancora che certe persone possano risorgere per custodire i vivi e i morti. Ma né l’una né l’altra prospettiva implicano che vi sia una vita prima della nascita, ma solo che ve ne sia una dopo la morte.

La seconda premessa di Giamblico pare invece essere a prima vista fondata. Alcuni tra i frammenti più cupi di Eraclito dichiarano che nascere significa essere consegnati alla morte e che il vivere stesso non sia altro che un morire quotidianamente. Secondo i testimoni antichi, questi testi dimostrerebbero che il pensiero eracliteo vuole che la nascita sia un male e che bisogna rinunciare a generare una prole. In realtà, però, se ci fermiamo ai soli frammenti, quel che si legge non è tanto un pensiero moralistico contro la generazione, quanto un’altra giustificazione dell’unità degli opposti. Si pensa di norma che vita e morte siano diversi. Vedendo invece che chi vive sta già morendo e che dalla morte di qualcosa si genera qualcos’altro (il fuoco che brucia diventa fumo, ad esempio), si deve concludere che ci troviamo a due opposti identici: per dirla con il Poliido di Euripide, «chi sa se il vivere non sia morire / e il morire, invece, vivere?». Quand’anche però si ammettesse che Eraclito esprime qui un messaggio moralistico, la premessa di Giamblico che il male della nascita consista nel provare passioni violente non trova comunque corrispondenze nei testi. Quel che eventualmente risulta terribile nell’essere generati è l’accedere alla dimensione della caducità.

Un’altra considerazione critica sulla validità della notizia di Giamblico è che Eraclito non crede che le passioni violente debbano essere solo moderate. Un altro frammento eracliteo (citato dallo stesso Giamblico) descrive infatti l’ira, che viene guarita non abbandonandosi ad essa moderatamente, bensì trattenendola del tutto. Ancora, Eraclito sostiene altrove che la tracotanza va spenta come se fosse un incendio. La metafora indica, di nuovo, che tale passione deve essere estinta completamente. Un incendio non diventa meno innocuo, infatti, se viene soltanto moderato e non spento fino alle ceneri. Tale discorso ci mostra, allora, che il trattamento delle emozioni violente in Eraclito non prevede quello che fanno le falloforie, le commedie e le tragedie: sfogare con moderazione le passioni per impedire che nel futuro esplodano all’esterno in maniera distruttiva.

Passiamo infine alla questione decisiva, vale a dire se i testi eraclitei ci mostrano almeno che i riti hanno per lui una funzione purificatrice o persino medica. Ancora una volta, purtroppo, i frammenti di Eraclito vanno a sfavore di questa ipotesi. Da un lato, va ricordato che il filosofo non stimava l’arte medica, perché essa nasconde l’unità degli opposti salute-malattia, presupponendo che la prima consista nell’eliminazione della seconda. I medici non si accorgono, infatti, che se non ci fossero le malattie non potremmo trovare dolce sentirci o anche solo pensare di essere sani. (Da questa peculiare concezione eraclitea potrebbe essere stato elaborato, peraltro, l’aneddoto della morte ridicola di Eraclito. Egli rifiutò le cure dei medici per l’idropisia e pensò di eliminare l’acqua in eccesso coprendosi di sterco essiccato al sole, ma non riuscì più a liberarsi e venne sbranato dai cani).

Dall’altro lato, è la stessa idea di “purezza” che Eraclito mette in discussione. Che cos’è del resto ciò che è “pulito” o “purificante” in senso proprio? Se osserviamo la natura, noteremo per l’ennesima volta che la purezza non può essere distinta dall’opposto dello sporco, perché l’una e l’altro sono identici. Ad esempio, il fango e la polvere che sporcano gli esseri umani sono invece gli strumenti di pulizia di maiali o polli. O ancora, l’acqua salata che permette ai pesci di vivere è per noi tossica. Il mare, il fango e la polvere sono insomma sia puri che impuri nel medesimo tempo. Applicando questo modo di ragionare ai riti, la sostanza non cambia. Gli esseri umani credono di purificarsi da omicidi sacrificando animali, mentre in realtà si macchiano con altro sangue: il gesto è analogo a quello del lavarsi col fango, che ha senso per il maiale, ma non certo per noi. E i fallofori che con i loro gesti osceni credono di liberarsi dall’oscenità e di inneggiare alla vita si trovano, in realtà, a lodare morte. Il Dioniso a cui portano il fallo visto da un’altra prospettiva non è altro che Ade, forse per la motivazione già vista prima: che vita e morte non sono che due facce di un identico fenomeno indistinguibile. I riti menzionati non possono allora essere “catartici”, poiché qui le passioni non vengono depurate, né avviene un accrescimento vitale. Al contrario, il sacrificio sporca chi lo compie, mentre chi partecipa alle falloforie raggiunge l’Ade prima del tempo.

Il risultato estremo di questo ragionamento è, come dice Eraclito in un altro frammento, che «le iniziazioni ai misteri che sono in uso tra gli uomini sono empie». In linguaggio estetico-religioso, ciò non significa altro che dire che la catarsi è una forma di irrazionale empietà. Sacrifici, falloforie e presumibilmente le tragedie come le commedie non venerano gli dèi o le Muse, né giungono a rendere officianti e spettatori puri di fronte al divino. Da questo punto di vista, Eraclito è assimilabile agli Epicurei, che sono forse i soli altri filosofi antichi che furono avversi alla pratica della catarsi e teorici di un’ipotesi di teatro non-catartico.

Lo sguardo ai frammenti eraclitei ha mostrato, in conclusione, che forse Giamblico citava tendenziosamente Eraclito, attribuendogli un pensiero sulla catarsi, sui riti, sulla tragedia, sulla commedia e sulla nascita che non trova riscontro nei suoi frammenti. Il fatto che il secondo chiamasse “rimedi” i rituali potrebbe allora essere ironico, anche tenendo conto della sua scarsa considerazione verso la medicina. Un atteggiamento del genere ha del resto a sua volta dei paralleli in altri frammenti, ad esempio la sua descrizione di Omero, che era chiamato ironicamente “sapiente”, benché non fosse riuscito nemmeno a risolvere un vacuo indovinello di bambini.

Resta solo da spiegare perché Giamblico attribuisca a Eraclito, nel libro V del Sui misteri, la credenza in rituali che sono attuati da una minoranza esigua di persone già pure. La risposta qui non può che essere speculativa, poiché nessun testo eracliteo accenna a riti del genere. Si può forse pensare che Eraclito ritenesse che un rituale di tal tipo fosse l’attività filosofica, che riconosce l’unità degli opposti i quali, come si è visto sempre nell’intervento precedente, trovano tutti unione definitiva nella divinità. Questo sapere è infatti accessibile solo a pochissimi o a un’unica persona, in questo caso lo stesso Eraclito, che non a caso si dice abbia depositato il suo trattato Sulla natura nel tempio di Artemide. Se questo aneddoto è vero, ne seguirà che il suo libro avesse in realtà una valenza religiosa e che le sue parole fossero per lui molto più mistiche di quelle pronunciate in tutti gli altri riti compiuti del consesso umano. Gli aforismi del Sulla natura di Eraclito riconoscono ed esprimono, infatti, la perfezione della divinità in cui si concentrano tutti gli opposti e che falloforie, tragedie, commedie tendono invece empiamente a spezzare.

Enrico Piergiacomi

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Questi principi generali valgano dunque a rassicurare del puro culto: perché esso lega strettamente gli altri esseri con gli esseri che sono superiori a noi e perché puro si volge a puri, libero da passioni a liberi da passioni. Passando ai particolari, diciamo che l’erezione dei falli è un simbolo della potenza generatrice e crediamo che questa sia chiamata a fecondare il cosmo: appunto perciò la maggior parte di queste immagini sono consacrate in primavera, quando cioè l’insieme dell’universo riceve dagli dèi i germi della creazione universa. E penso che le parole oscene significhino la mancanza del bello che è nella materia e la sconcezza primiera di ciò che è destinato a essere posto in ordine: essi, che hanno bisogno di essere ordinati, tanto più ne hanno l’aspirazione, quanto più sono consapevoli della loro sconvenienza. Di nuovo, dunque, cercano le cause delle forme ideali del bello, apprendendo l’osceno dalle parole esprimenti oscenità; e non soltanto allontanano la pratica di queste oscenità, ma, tramite le parole, ne richiamano la conoscenza e volgono il desiderio in senso contrario. Questi problemi implicano ancora un altro discorso dello stesso genere. Le forze delle passioni umane che sono in noi, quando sono impedite ad ogni costo, insorgono più violente; se invece si accorda a esse una attività breve ed entro una giusta misura, godono moderatamente e s’appagano: dopodiché, purificate, esse si calmano con la persuasione e non con la violenza. Perciò, nella commedia e nella tragedia, contemplando passioni di altri, arrestiamo le passioni nostre, le rendiamo più moderate, le purifichiamo; e nei riti sacri, vedendo e ascoltando oscenità, ci liberiamo del danno che potrebbe venirci da esse, se le mettessimo in pratica. Per guarire l’anima nostra, per moderare i mali che, tramite la generazione, ineriscono in essa, per liberarla e scioglierla dai suoi vincoli, per queste ragioni si fanno questi riti: e perciò giustamente Eraclito li chiama «rimedi», in quanto rimediano alle avversità e liberano le anime dalle sventure della generazione (Giamblico, Sui misteri, libro I, cap. 11 = Eraclito, fr. 22 B 68 DK; trad. Sodano)

Pongo perciò anche dei sacrifici due specie: l’una degli uomini completamente purificati, che, come dice Eraclito, potrebbe raramente accadere in un solo uomo o in pochissimi facilmente numerabili; l’altra materiale corporea costituita di mutazione, che s’adatta a chi è ancora contenuto nel corpo (Giamblico, Sui misteri, libro V, cap. 15 = Eraclito, fr. 22 B 69 DK; trad. Sodano)

Per le anime è morte diventare acqua, e per l’acqua è morte diventare terra, ma dalla terra nasce l’acqua e dall’acqua nasce l’anima (Eraclito, fr. 22 B 36 DK)

Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l’avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e a Ecateo (Eraclito, fr. 22 B 40 DK)

Pitagora è l’iniziatore della schiera di coloro che ingannano con le loro chiacchiere (Eraclito, fr. 22 B 81 DK)

Le anime aspirano profumi nell’Ade (Eraclito, fr. 22 B 98 DK)

Maggiori destini di morte ottengono infatti maggiori ricompense (Eraclito, fr. 22 B 25 DK)

Per gli uomini che son morti sono pronte cose che essi non sperano né immaginano (Eraclito, fr. 22 B 27 DK)

Si levano davanti a lui che è lì, e desti diventano custodi dei viventi e dei morti (Eraclito, fr. 22 B 63 DK)

Rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come bestie (Eraclito, fr. 22 B 29 DK)

Onde Eraclito dice: «Per le anime è piacere o morte diventare umide» e il piacere è per esse il cadere nella nascita. Ed altrove egli dice: «Viviamo la loro morte e vivono la nostra morte» (Porfirio, Sull’antro delle Ninfe, cap. 10 = Eraclito, fr. 22 B 77 DK)

22 B 20 [86]. CLEM. ALEX. strom. III 14 [II 201, 23]. Eraclito sembra dunque considerare un male la nascita quando afferma: «Una volta nati desiderano vivere e avere il loro destino di morte – o piuttosto riposare – e lasciano figli, in modo che altri destini di morte si compiano» (Clemente di Alessandria, Stromati, libro III, cap. 3, sezione 14, § 1 = Eraclito, fr. 22 B 20 DK)

Immortali mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morienti la loro vita (Eraclito, fr. 22 B 62 DK)

Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco; l’acqua vive la morte dell’aria e la terra la morte dell’acqua (Eraclito, fr. 22 B 76 DK)

Spesso, infatti, con la parola tu potrai mettere in agitazione e sconvolgere chi è rozzo e potrai subire <di conseguenza> cose terribili e spiacevoli. Ne è testimone Eraclito con queste parole: «Contro l’ira» egli dice «è difficile combattere, perché ciò che brama di avere, lo compra a costo dell’anima». E quello che dice è verità, perché molti, quando si abbandonano all’ira, sono disposti a pagare con la propria anima e reputano piuttosto gradita la morte. Col frenare la lingua, invece, e col mantenersi calmi, si fa sì che dalla contesa nasca l’amicizia, una volta che si sia spento il fuoco dell’ira, e tu stesso non apparirai un insensato (Giamblico, Protrettico, pp. 112-113; trad. Romano, modificata)

Bisogna spegnere la superbia ancor più dell’incendio (Eraclito, fr. 22 B 43 DK)

La malattia rende piacevole e buona la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo (Eraclito, fr. 22 B 111 DK)

I medici, infatti (…) tagliando, bruciando e tormentando malamente in ogni modo i malati, pretendono, pur non meritando nulla, di ricevere un compenso dai malati, avendo fatto le stesse cose, cioè benefici e malattie (Eraclito, fr. 22 B 58 DK)

Ermippo dice ch’egli chiese ai medici se qualcuno fosse capace di essiccare l’umore vuotando gli intestini; alla loro risposta negativa, si distese al sole e ordinò ai ragazzi di ricoprirlo di sterco animale. Stando così disteso, il secondo giorno morì e fu seppellito nella piazza. Neante di Cizico, invece, dice che era rimasto lì non essendo più riuscito a staccarsi lo sterco di dosso, e che, divenuto irriconoscibile per la deformazione, fu divorato dai cani (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro IX, § 4 = Eraclito, fr. 22 A 1 DK)

I porci godono del fango più che dell’acqua pura (Eraclito, fr. 22 B 13 DK)

Se pure crediamo all’efesio Eraclito, il quale disse che i porci si lavano nel fango e i polli si lavano nella polvere e nella cenere (Columella, Sull’agricoltura, libro VIII, cap. 4 = Eraclito, fr. 22 B 37 DK)

Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci essa è potabile e conserva loro la vita, per gli uomini essa è imbevibile e esiziale (Eraclito, fr. 22 B 61 DK)

Si purificano contaminandosi con altro sangue, come se uno, immersosi nel fango, si lavasse con il fango. Chi osservasse un tale uomo far questo, lo riterrebbe pazzo. E si mettono a pregare siffatte immagini, come se uno si mettesse a chiacchierare con le mura delle case, ignorando chi sono gli dèi e gli eroi (Eraclito, fr. 22 B 5 DK)

Infatti le iniziazioni ai misteri che sono in uso tra gli uomini sono empie (Eraclito, fr. 22 B 14 DK)

Se non fosse per Dioniso che fanno la processione e intonano il canto del fallo, essi compirebbero le cose più indecenti; ma identici sono Ade e Dioniso, per il quale delirano e celebrano le Lenee (Eraclito, fr. 22 B 15 DK)

Gli uomini (…) si lasciano ingannare rispetto alla conoscenza delle cose visibili, come capitò ad Omero, che pure fu più sapiente di tutti i Greci. Fu infatti tratto in inganno con queste parole da alcuni fanciulli che uccidevano dei pidocchi: tutto quello che abbiamo visto e abbiamo preso, lo abbiamo perduto; tutto quello invece che né abbiamo visto né abbiamo preso, lo portiamo con noi (Eraclito, fr. 22 B 56 DK)

Eraclito depose il suo libro nel tempio di Artemide, avendo deciso intenzionalmente, secondo alcuni, di scriverlo in forma oscura, affinché ad esso si accostassero 〈solo〉quelli che ne avessero la capacità e affinché non fosse dispregiato per il fatto di essere alla portata del volgo (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro I, § 14 = Eraclito, fr. 22 A 1 DK)

[Le traduzione dei passi di Giamblico sono tratti da Angelo Raffaele Sodano (a cura di), Giamblico: I misteri egiziani, presentazione di Giuseppe Girgenti, Milano, Bompiani, 2013, e Francesco Romano (a cura di), Giamblico: Summa pitagorica, Milano, Bompiani, 2006. I frammenti eraclitei sono invece citati dal capitolo 22 di Gabriele Giannantoni (a cura di), I Presocratici: testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1969, mentre i resti del Poliidodi Euripide sono tratti da Olimpio Musso (a cura di), Tragedie di Euripide. Volume quarto, con la collaborazione di Annalaura Burlando, Torino, UTET, 2009]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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