Gli atti del convegno promosso nel 2015 da AIRdanza e dall’Università Sapienza di Roma sono stati pubblicati in un volume, che appare documentato ed esaustivo, su tutte le forme del digitale esistente e che accoglie interventi su corpi e visioni in dialogo nell’era della tecnologia diffusa.
Immaginare la danza. Corpi e visioni nell’era digitale a cura di Vito Di Bernardi e Letizia Gioia Monda (Bologna, Piretti Editore, 2018) è davvero un bel viaggio nel “mistero”. Diviso in sei capitoli, è nato da un eponimo convegno internazionale indetto da AIRdanza-Sapienza Università di Roma (3-4 dicembre 2015). Si passa dalla psicofisiologia a colloquio con l’arte coreutica (Vezio Ruggieri), alla realtà intrecciata alla fantasia di bimbi dai 2 ai 6 anni, (Chiara Ossicini), dal mondo che si riconosce e si celebra come embodied, nella prospettiva del Body-Mind Centering (Gloria Desideri), alla fotografia rivelatrice del senso della coreografia più che suo documento (Massimo Agus).
Esempi di artisti della danza gratificati dall’utilizzo di dispositivi tecnologici (Enrico Pitozzi) sono citati nel saggio di Maria Grazia Berlangieri. L’intervento in inglese di Sarah Whatley insiste sulla necessità di rafforzare tramite i software l’esperienza somatica del danzatore. Il filosofo Pietro Montani ci illumina su cosa sia una tecno-estetica. Molto concreta e munita di “diari di bordo”, l’esperienza digitale di Luca Ruzza, mentre con Francesca Magnini si riassume il vario “patrimonio immateriale” della danza, esplorato da Emio Greco e Pieter C. Scholten in Olanda. Daniel Belton ci racconta, ancora, in uno scritto in inglese, di cinema e danza in digitale, ma anche della trasfigurazione dei corpi nell’opera di Oskar Schlemmer.
Passando da Matteo Marziano Graziano, convinto che l’artista odierno debba abbracciare sperimentazioni di formati ibridi, non-frontali e complementari per soddisfare la crescente curiosità del pubblico, al doveroso riconoscimento del “Coreografo elettronico”, storico festival internazionale di video-danza impiantato a Napoli da Marilena Riccio, ma anche di una sua estimatrice (Laura Valente), si giunge, in conclusione, all’ipotesi della creazione di un museo virtuale nazionale della danza (Giovanni Ragani e Donatella Capaldi).
Per finire non si vorrebbero dimenticare i due solerti curatori. Nel suo excursus introduttivo Vito Di Bernardi storicizza l’avvento dell’era del digitale partendo da Merce Cunningham, il primo ad utilizzare ogni sorta di nuova tecnologia nelle sue incessanti sperimentazioni: dalla TV, al computer sino appunto al digitale con il metodo del Motion Capture, più volte entrato nelle pagine del libro. Ma attenzione: i corpi virtuali di Biped, a differenza di ciò che scrive Di Bernardi, non sono affatto in 3D (visione che richiede appositi occhialini), per intenderci come La Sagra della primavera riscritta dal regista Wim Wenders nel film su Pina Bausch, bensì danzatori “catturati” e reinventati come scheletri colorati e giganti dai suoi collaboratori informatici. Pur appartenendo “all’estetica dello spettacolo dal vivo” essi si aprono ad un immaginario visivo. In più, la poetica del pragmatico artista americano, a nostro avviso, non è affatto incentrata sul corpo bensì sul movimento. Laban senza Laban (Cunningham non ne era interessato), che ritorna in forme nuove e personalizzate nelle Improvisation Thecnologies di William Forsythe.
Di questa “scuola di danza digitale” realizzata in CD rom già nel 1994 e dei famosi “oggetti coreografici” del coreografo americano per tanti anni attivo in Germania, si occupa Letizia Gioa Monda ristabilendo una distinzione tra danza e coreografia, arti sorelle ma molto lontane e distinte, non sempre chiara nel tragitto del libro. Per fortuna gli “oggetti coreografici” – installazioni, già messe in mostra nella svolta del terzo millennio – provano, ancora una volta, come il pensiero coreografico esista al di fuori del corpo stesso. Se dunque un’arte performativa nuova nasce, secondo la visione di Monda, connettendo il digitale con il reale, la domanda – esplorato qui tutto il digitale possibile – più cogente è: cosa è mai il reale? Ancora “il non so che” e “il quasi niente” (Jankélévitch)?
Marinella Guatterini
Una nota a margine dell’ articolo di Marinella Guatterini a proposito di “Immaginare la danza” (a cura di Vito Di Bernardi e Letizia Gioia Monda, Bologna, Piretti Editorie 2018).
Biped è stato uno dei primi esperimenti di “danza virtuale”. Le immagini della performance sono state realizzate da Paul Kaiser e Shelley Eshkar attraverso un software di animazione grafica che loro chiamarono Biped ispirandosi ai risultati ottenuti con questo programma per quello che fu il loro primo lavoro di collaborazione con Merce Cunnigham, l’installazione di danza virtuale Hand-drawn Space. Per realizzare le immagini 3D della performance coreografica dal vivo Biped, i due artisti grafici, Kaiser e Eshkar, catturarono con la tecnologia del Motion Capture 5 minuti dell’omonima “danza reale” creata da Cunningham. Lavorarono sul processo di transcodificazione del movimento, e il loro obiettivo fu proprio quello di elaborare animazioni capaci di interagire con i danzatori reali in scena. Il 3D nell’ambito dell’arte grafica digitale per lo spettacolo dal vivo è considerato il frutto di un processo di rendering grazie al quale un oggetto disegnato su tre dimensioni viene proiettato in un ambiente performativo (quello di cui parla la Guatterini è il 3D nell’ ambito del cinema stereoscopico, tutt’altra cosa, tant’è che cita un noto film che utilizza questa particolare tecnologia e non un’opera di coreografia digitale). La sperimentazione del progetto Biped fu rivolta ad individuare il piano e la superficie più adatti a
rendere l’immagine tridimensionali plausibile agli occhi del pubblico di uno spettacolo di danza. Mentre nella prima sperimentazione con Cunningham gli artisti usarono più piani di proiezione per rendere la danza virtuale tridimensionale, lavorando alla live performance Biped intuirono che le immagini proiettate su un unico piano, un enorme telo trasparente, avrebbero sortito un effetto migliore.
Vito Di Bernardi
Gentile Vito Di Bernardi grazie della sua precisazione. Ma sulla distinzione tra 3d in teatro e 3d al cinema mi pare di aver fatto una chiara distinzione. Ora lei mi parla di 3d in Biped e non metto in dubbio la sua conoscenza in merito. Nella mia lunga consuetudine al dialogo e amicizia con Merce Cunningham, anche relativa a Biped, mai l’ho sentito parlare di 3d ma solo di Motion Capture, trasfigurazione dei corpi di 3 suoi danzatori grazie alla tecnologia dei due ingegneri informatici che con lui hanno operato. Né di 3d mi parlò la grandissima e purtroppo scomparsa Trisha Brown che pochi conoscono nella sua sperimentazione virtuale con gli stessi ingegneri informatici amici di Cunningham, “How long does the subject linger on the edge of a volume” del 2006. Presentata a Parigi, Opéra Garnier, la pièce fu considerata un fallimento dalla stessa coreografa. Forse per questo nessuno ne fa menzione nel vostro libro. In sintesi accolgo volentieri le sue precisazioni, ma non posso che ribadire quanto scritto poiché deriva da ciò che lo stesso Merce Cunningham a me ha riportato. Può darsi che si sia sbagliato e che dunque abbia sbagliato pure io. Pertanto grazie!
Gentile Marinella Guatterini,
la ringrazio per il suo approfondimento. Credo comunque che in questo caso, con la testimonianza di Merce Cunningham, sarebbe stato importante considerare anche il punto di vista dell’OpenEndedGroup che ha collaborato alla creazione della performance Biped. Il nostro volume si occupa di esporre come il dialogo tra danza e tecnologie digitali sia confluito in uno spazio associativo che si occupa della relazione tra corpo reale e danza virtuale. Come ha giustamente scritto Vito Di Bernardi, con Biped ci troviamo di fronte ad una delle prime sperimentazioni di coreografia digitale che utilizza nell’ambito della performance dal vivo la proiezione di immagini 3D sviluppate grazie alla tecnologia del Motion Capture. Gli artisti digitali dell’OpenEndedGroup: Paul Kaiser, Shelley Eshkar (fino al 2014), e Marc Downie (dal 2001), sono diventati famosi per il loro particolare stile di animazione che mira ad elaborare un rendering 3D non-fotorealistico. E’ ovvio che pensare al 3D del 1998 nei termini dell’attuale 3D non aiuta a risolvere la questione da lei introdotta nella recensione del volume da noi curato. Le potrei a tal proposito citare l’articolo <> di Paul Kaiser, contributo del volume collettaneo curato da Maaike Bleeker “Transmission in motion. The Technologizing of dance” (Routledge, London&New York, 2017, pp.16-31), in cui Paul espone proprio la differenza che ha riscontrato guardando le proiezioni di Biped dodici anni dopo la loro creazione. Ricorda anche che il programma di grafica vettoriale tridimensionale che lui e Shelley utilizzarono allora per l’elaborazione delle animazioni, fu il 3DS Max, il programma alla base dell’attuale AfterEffect.