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«Rompere un po’ questo cristallo». Intervista a Danilo Cremonte

Oh Gregorgioco scenico in una stanza di Danilo Cremonte aprirà – domenica 26 agosto – la rassegna Todi Off – Futuro Anteriore. In questa intervista, Cremonte racconta il proprio percorso come regista e come formatore, le difficoltà sistemiche dello scenario umbro, il senso di presidiare culturalmente il territorio.

Qualche battuta sul tuo percorso e sul lavoro che presenterai.

Il mio amore per lo stare di fronte ad altri, questo vivere la comunione, nasce fin da piccolo, con le esperienze di scout. Al liceo mi sono avvicinato all’unica compagnia che operava in Umbria in quel periodo, Fontemaggiore, per poi spostarmi a Bologna dove ho scoperto un altro teatro: quello di Eugenio Barba. A Perugia intanto si andava formando, pure in modo caotico, un gruppetto che faceva ricerca attorno alle idee di Grotowski: è stata la genesi dell’esperienza di Teatro Studio 3, al fianco di Roberto Ruggieri, durata fino al 1989. Accanto a questo, l’incontro cruciale con Pierre Byland, più volte invitato a Perugia, e l’esperienza ravvicinata con il teatro danza di Pina Bausch, mosso dal desiderio di capire dal di dentro la sua rivoluzione.
La mia strada si è poi concretizzata in un progetto: nel 1994 ho inventato questa creatura, Human Beings, il mio laboratorio teatrale interculturale. Il nome proviene da una formula burocratica, tratta dal testo di una legge regionale dell’epoca in cui si diceva che il fenomeno dell’immigrazione andava inteso come una risorsa. Quasi da subito si è creato un bel miscuglio – allievi di tutte le etnie e di tutte le età, non solo studenti – e quasi da subito mi sono accorto di come spesso gli stranieri abbiano antenne più sensibili. Tengo molto a questo laboratorio e tengo anche a precisare il valore della parola «laboratorio», così abusata: il laboratorio è un luogo dove si studia e si pratica. Il lavoro che facciamo insieme è basato non tanto sulla messa in scena di testi ma sulla creazione e sull’improvvisazione. Allo stesso tempo, la vicinanza al linguaggio del teatro danza ci dà modo di superare lo scoglio del non avere la lingua in comune. Non mi piace immaginare il teatro “al servizio” di qualcosa, non è un’attività sociale, ma offre una possibilità.
Oh Gregor nasce dal desiderio di approfondire un po’ questo metodo: si è partiti dall’idea di trasportare i nostri esercizi (sul peso, sulla gravità, sull’equilibrio e il disequilibrio) in una dimensione più drammatica. Nel corso di una di queste esercitazioni è scattato qualcosa: una ragazza aveva una panca sulla schiena e, in quell’istante, ho visto l’insetto, schiacciato dal peso dell’autorità. Da lì abbiamo iniziato a lavorare su temi specifici, a selezionare i testi di Kafka, a rileggerli, in una dimensione prima riservata e provvisoria, poi via via sempre più chiara.

Che cosa rappresenta la piazza di Todi Off per il tuo percorso artistico?

Spero ci permetta di rompere un po’ questo cristallo dentro il quale siamo: soffriamo di un isolamento in gran parte cosciente. Essendo molto preso dalla dimensione operativa del mio lavoro – Human Beings, ma anche Teatro Rifugio, un laboratorio teatrale con rifugiati e richiedenti asilo – non mi sono occupato con la stessa dedizione della parte promozionale. Oh Gregor è stato presentato negli spazi della Rocca Paolina di Perugia e poi a un festival cinese – lo Shandong International Small Theatre Modern Drama Show a Jinan – in un teatro tradizionale: è stata un’occasione importante, più di tutto per la possibilità di ascoltare le domande che ci venivano rivolte, provenienti da un retroterra culturale tanto lontano. Attendiamo la piazza di Todi come lo spazio utile a un nuovo riscontro, l’affacciarci a un pubblico ancora diverso.

Che cosa pensi delle limitazioni anagrafiche che sempre di più caratterizzano le opportunità di produzione e circuitazione?

La mia posizione rispetto a queste dinamiche è, come ti dicevo, abbastanza appartata. Oltre a questo mi sento scettico e disgustato rispetto al metodo dei bandi: sottende l’idea che sia necessario sempre inventarsi qualcosa di nuovo, molte parole che finiscono per tradurre in termini vacui anche il progetto più serio. L’arte non può essere intesa che come un processo continuo, da accompagnare, non da segmentare e restringere. Si tratta di una metodologia che contraddice una logica importante della ricerca teatrale che è quella di “aspettare che le cose arrivino”, il non lavorare a tesi.
Capisco anche che quello che noi facciamo è davvero al di fuori di ogni logica di mercato: il nostro è un teatro poverissimo ma che, di contro, chiede un importante investimento di tempo.

Che cosa significa per te il termine OFF? 

Mi ci trovo bene. Le etichette non mi piacciono ma, dovendo scegliere, è l’etichetta sotto la quale preferisco lavorare. Mi sembra che i progetti che raccoglie siano in qualche modo caratterizzati da una dimensione di ricerca più aperta. Stare fuori va bene.

Una considerazione sulla formula Futuro anteriore, titolo della rassegna

In una battuta semplice, potrei dirti che io sono “anteriore” e i ragazzi che lavorano con me sono il futuro, innamorati di questa prima esperienza. Mi sembra che questo titolo sia anche un invito a proiettarci nel tempo che verrà, a rompere le categorie, i ghetti. Sembra banale ma dobbiamo ripeterlo, in questi tempi politici: dove c’è più diversità, c’è più ricchezza.
I teatranti sono così marginali, così fuori dalla tecnologia. Forse possiamo prenderci delle diverse possibilità di creare, anche una certa libertà di infrangere quel paradossale “stereotipo del nuovo a tutti i costi”, quella tipizzazione degli orizzonti d’attesa che tipizza anche le novità.

Redazione

 

 

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