Si è chiusa il 28 luglio la XXXVIII edizione del Drodesera Festival: a Centrale Fies performance e talk, mostre e installazioni hanno provato a tracciare una nuova cartografia dei luoghi e dei linguaggi. Un attraversamento degli eventi conclusivi della rassegna e un focus su My shapes, your words, their grey di Philipp Gehmacher.
Le mappe posizionano la centrale idroelettrica di Fies a pochi chilometri di distanza dalla cittadina di Dro, non lontano dal corso del fiume Sarca che l’ha alimentata fino alla fine degli anni Novanta e oggi, in parte, ne determina ancora l’attività. La valle dell’Alto Garda si estende a sud, mentre poco più a nord i massi grigi delle Marocche spezzano un paesaggio dominato dal verde delle conifere. Il sontuoso edificio asburgico, la cui facciata sembrerebbe poter celare più una collezione di armature o una pinacoteca che gruppi di turbine Francis, si eleva al di sopra di una geografia antica, il cui panorama – quello lunare delle frane scoscese, e quello iconografico dei boschi e delle montagne – sembra essere stato investito dall’azione dell’uomo con gentilezza e parsimonia.
È, questa, una cartografia tracciabile e riconoscibile, una topografia dove natura e artificio condividono i medesimi spazi, o sembrano spartirseli con una forma ancestrale di rispetto. Eternamente in fieri, la geografia altra che originandosi da Centrale Fies, in questa trentottesima edizione del festival Drodesera, sembra cercare una sua preziosa collocazione, è invece un ambito difficilmente catalogabile, un oggetto metamorfico non cristallizzato. Quella «geografia dell’arte e della cultura che si sta muovendo e sta tracciando ben altri orizzonti, ridefinendo nuove forme di geopolitica» – di cui Barbara Boninsegna, Filippo Andreatta e Virginia Sommadossi hanno evidenziato l’importanza nell’intervista firmata da Lucia Medri – trova nel supercontinent una manifestazione cangiante e inafferrabile: luogo ideale per la contaminazione e l’ibridazione dei linguaggi, transfrontaliero e ciò nonostante radicato su un concetto forte di identità, il territorio disegnato nelle tante proposte che hanno contraddistinto il cartellone 2018 del festival sembra essere ontologicamente indeterminato, incompiuto, indefinito. Ciò che ad altre latitudini – delle arti performative e del pensiero critico – apparirebbe forse come un limite o una fallacia, è qui invece un punto di forza, il fulcro di una sofisticata strategia che nel processo prima che nell’esito, nell’indagine prima che nella sua soluzione, trova le proprie azioni fondative.
Significativo, in questo senso, è che proprio gli eventi collaterali alle proposte spettacolari siano stati latori di quei sensi e di quelle prospettive che sono sembrati poi deflagrare all’interno dei confini dello spazio scenico: le stesse performance – lungi dall’esaurire i percorsi che Supercontinent², titolo di questa edizione del festival, ha provato a delineare – hanno dialogato con quanto emerso negli incontri e durante i talk, nelle mostre e nelle proiezioni cinematografiche, finanche durante le club session. Grazie a Filippo Minelli, protagonista dell’ultimo Talkin’ about moderato da Francesca Serrazanetti, proprio il paesaggio – nel suo inesausto e spesso conflittuale legame con l’uomo, così come nelle sue proteiformi modificazioni – ha costituito il tema centrale di una conversazione che ha toccato gli ambiti incandescenti delle rivolte popolari, delle scelte urbanistiche, delle migrazioni. L’artista bresciano ha evidenziato come lo svuotamento dell’identità dei luoghi – a vantaggio di quella ‘urbanalizzazione’ che, secondo l’architetto Francesc Muñoz, ha reso gli spazi interscambiabili e sovrapponibili – sia da indicare come una delle cause principali delle latenti conflittualità che affliggono le società occidentali. Differenziandosi dal comune sentire che all’identità locale e geografica attribuisce soltanto i possibili risvolti di un violento etnocentrismo e comunitarismo, Minelli oppone un dialogo inatteso con gli habitat nei quali agisce, dei quali è in grado di squadernare aspetti inconsueti, pur facendone risaltare l’intima essenza. Le Marocche di Dro sono così diventate lo scenario di una nuova tappa del progetto Silence/Shapes, dove l’interazione umana, il paesaggio e il temporaneo caos generato dall’esplosione di un fumogeno colorato si fondono per offrire una rilettura del reale, che spiazza il pubblico giustapponendo un elemento tipico delle manifestazioni di massa alla placida immobilità della natura.
A un protagonista dell’arte concettuale italiana, Giovanni Morbin, il festival ha dedicato quest’anno una mostra antologica, curata da Denis Isaia, e una serie di letture e re-enactement volti a fornire una panoramica degli interessi e delle estetiche sviluppati in quarant’anni di attività. Le opere selezionate hanno offerto uno sguardo sulle Ibridazioni, performance nelle quali il corpo dell’artista si fonde – non soltanto metaforicamente – con l’ambiente circostante, architettonico o naturale. Salendo sulla cima di un albero e restandoci per quasi tre ore, o cementando il proprio braccio sinistro con il muro esterno di un edificio, Morbin opera un processo di antropomorfizzazione dello spazio, surreale e provvisorio. Situandosi all’incrocio tra body art e land art, l’artista di Valdagno fluidifica i confini formali dei linguaggi e decostruisce i limiti tra organico e inorganico, tra uomo e ambiente, in una sorprendente cancellazione di quelle categorie sulle quali le topografie, delle arti così come dei luoghi, hanno da sempre edificato i propri statuti.
Questo fil rouge della destrutturazione delle geografie e di una loro rimodulazione processuale, che sembra avere attraversato l’intero festival, ha però trovato il proprio climax con My shapes, your words, their grey di Philipp Gehmacher. Presentato in prima nazionale nello spazio delle Mezzelune, la performance costituisce un campo di indagine tuttora aperto, un esito sempre parziale che l’artista austriaco reitera dal 2013 e che subisce metamorfosi e integrazioni a seconda dell’ambiente in cui ha luogo: palcoscenici teatrali, gallerie d’arte, aree non codificate. L’alternarsi tra le ‘scatole nere’ e i white cube dei musei di arte contemporanea, cromaticamente significativo di una contrapposizione tra ambiti e linguaggi, trova un’alternativa transitoria nella proposta di una grey room, di un ambiente grigio capace di condensare istanze altrimenti dicotomiche. Il grigio, ineffabile colore/non-colore, e le sue declinazioni socio-psicologiche e culturali, rappresentano l’ironica origine della performance: il monologo che Gehmacher interpreta in una sala neutra, abitata soltanto dalla consolle audio di Gérald Kurdian, ripercorre così i significati che siamo soliti attribuire alla tonalità. «Was ist das graue Leben?», «Che cos’è la vita grigia?», domanda al pubblico raccolto attorno a sé l’artista: in maniera contro-intuitiva, Gemacher cerca di disinnescare le fin troppo facili associazioni di pensiero che vedono nel grigio il simbolo della mediocrità, della depressione, dell’indecisione. E tuttavia ciò che si dipana a partire da questa arguta disquisizione di psicologia del colore è una raffinata interrogazione sullo statuto stesso dell’opera d’arte; muovendosi liberamente tra gli spettatori assiepati ai suoi piedi, sollevando e spostando tavole di compensato dipinte in monocromi grigi o sulle quali campeggiano slogan e aforismi, Gehmacher sembra costruire e ricostruire lo spazio scenico, rifiutando qualsiasi attribuzione di significati dati e prestabiliti, qualsiasi necessità di fornire «tangibilità, chiarezza e narrativa». Fronteggiando una realtà che sembra richiedere incessantemente, anche all’artista, un full committment, Gehmacher oppone una ‘poetica del disimpegno’ che trova la propria ragione d’essere nello spazio infinito del potenziale, dove oggetti e luoghi, deprivati delle sovrastrutture filosofiche, si offrono per sé stessi. La danza con cui il performer accompagna l’azione è di conseguenza una gestualità spezzata e interrotta: un pattern di passi e rotazioni delle braccia, o di improvvise stasi, mai del tutto compiuto, e che tuttavia trova nella sospensione la necessaria cifra per esprimere nient’altro che il movimento stesso. E ciò che i pannelli appoggiati alle pareti, o abbandonati sul pavimento, sembrano comporre, è una planimetria instabile e discontinua: una terra ancora giovane, soggetta ad assestamenti tettonici. All’osservatore, così come allo spettatore di Supercontinent², spetta il compito – e l’intenso piacere – di cercare nuovi sentieri, o forse di abbandonarli.
Alessandro Iachino
Centrale Fies, Dro ‑ luglio 2018
MY SHAPES, YOUR WORDS, THEIR GREY
idea, performance, spazio, oggetti Philipp Gehmacher
assistente spazio e oggetti Susanne Griem, Stephanie Rauch
suono Gérald Kurdian
organizzazione Stephanie Leonhardt
produzione Mumbling Fish
coproduzione Tanzquartier Wien
sostenuto da Kulturabteilung der Stadt Wien