Ha debuttato durante il 46° Festival Internazionale del Teatro Spettri, spettacolo con cui Leonardo Lidi ha vinto la prima edizione del bando per registi under 30 della Biennale College – Teatro. Recensione.
«Se si fosse trattato di una comune malattia mortale», si augura ormai invano Alving, posto di fronte allo scempio che un’oscura patologia degenerativa compie sul corpo e sulla mente di un «indescrivibilmente abominevole» Osvald. Eppure una malattia mortale sembra stia corrodendo le anime del gruppo famigliare ormai da tempo: non la disperazione che sconvolgeva Søren Kierkegaard e assumeva i contorni di un’angoscia esistenziale, quanto una morbosa e laida perversione, capace di intaccare anche gli ingenui entusiasmi di Regina. È una volgare depravazione, dei gesti e delle intenzioni, di fronte alla quale impallidiscono anche le «vecchie morte opinioni, e ogni genere di vecchie morte credenze» che attanagliano con la loro assillante presenza la quotidianità. Gli spettri hanno carne, ossa e iniqui desideri, in questa cittadina norvegese così simile alla provincia italiana: le radio trasmettono, negli indolenti pomeriggi domenicali, Tutto il calcio minuto per minuto e si canticchia Gente di mare di Umberto Tozzi e Raf.
Sono proprio le tante inferenze estetiche che costellano la messa in scena, elementi di gusto pop se non addirittura nazional-popolare, il principale segno con cui Leonardo Lidi firma la propria stratificata rilettura di Spettri: eppure tale cifra – lungi dall’essere un mero aggiornamento formale del capolavoro di Henrik Ibsen, eseguito secondo istanze postmoderne – sembra inserirsi, con coerenza e pregnanza di significato, in una compiuta realizzazione di quell’aspra critica al passato, soffocante e oppressivo, che il dramma ha veicolato fin dal suo debutto. Il dispositivo costruito dal giovane piacentino – vincitore del bando per registi under 30 promosso all’interno della Biennale College Teatro 2017 – sembra infatti chiamare in causa la stessa tradizione, e le modalità spesso cristallizzate con cui è stato reso, nel corso dei decenni, il grande classico del teatro di fine Ottocento. «Affrontare un testo del genere ti impone questo combattimento, ti chiede di cancellare ciò che l’eco del passato porta in te, anche a livello teatrale»: queste le significative parole con cui Lidi stesso ha definito, in un’intervista apparsa su queste pagine, il proprio approccio a Ibsen. Ecco che le «vecchie morte credenze» contro cui combatte invano Regina sembrano assumere adesso, agli occhi degli spettatori, i contorni di tante regie spente, incapaci di parlare al contemporaneo o tuttalpiù appiattite sul facile linguaggio dell’attualità: ed ecco risuonare all’interno delle Tese dei Soppalchi le voci di Giorgio Albertazzi e Romolo Valli nello sceneggiato RAI del 1954. Monumento fané di un’epoca e di uno stile, è a questa gemma della televisione diretta da Mario Ferrero che Lidi affida la sequenza dell’incendio dell’asilo, l’edificio intorno al quale si snoda la vicenda della famiglia Alving.
Tuttavia l’afflato che anima questa sorprendente versione di Spettri – presentata in prima assoluta durante le giornate inaugurali del 46° Festival Internazionale del Teatro, a un anno di distanza dal primo, già convincente studio – non è circoscritto a una coraggiosa rottura con l’eredità: è piuttosto il risultato di un processo di espansione di alcuni temi sotterranei del testo, che sono adesso posti in piena luce, condotti quasi alle loro estreme – e tuttavia naturali – conseguenze. L’elemento acquatico, il malessere del giovane Osvald, le malcelate pulsioni carnali trovano qui una lente di ingrandimento che sembra squadernarne i sensi reconditi: nell’adattamento di Lidi è così Helene Alving a essere morta, e a condizionare il presente con un grumo di segreti; il giovane artista di ritorno da Roma e Parigi è affetto da una paresi spastica ben più invalidante dell’emicrania che lo affliggeva nel testo originale; l’ombra di un rapporto incestuoso sembra aleggiare anche nel legame tra Regina e il padre Jakob Engstrand. L’acqua, infine, attraversa visivamente l’intero spettacolo: Mariano Pirrello si mostra al pubblico grondante, indossando una maschera e una sola pinna come un improbabile sub; accanto a lui – seduti su una panca parallela al proscenio, nella luce diffusa che accomuna un palco vuoto e la platea – Matilde Vigna porta una parrucca argentea e il grembiule delle cameriere, Michele Di Mauro sfoggia l’abito nero e i sandali di una vedova del Sud, Christian La Rosa, il viso deformato in una smorfia, è coperto soltanto da un t-shirt dell’Hard Rock Cafe.
I quattro, sempre in scena, dipanano le dinamiche squallide di una famiglia all’interno della quale l’affastellarsi delle voci sembra celare ansie esplosive e velleità di rivalsa. Lidi affida a Pirrello il duplice ruolo del Pastore Manders e del falegname Engstrand, mentre Di Mauro è un Alving crossdresser e ibrido: al contempo padre e simulacro della madre, Capitano colpevole di un amore malato per Regina e fantasma di Helena, morta suicida per aver compreso un’inaccettabile verità. La sovrapposizione dei ruoli trova un correlato visivo nel frequente scambio degli abiti o degli accessori tra gli interpreti, negli sguardi attenti con cui anche i personaggi fuori scena assistono ai dialoghi altrui, nell’occasionale sincrono con cui due voci recitano la stessa battuta: a essere delineato è un groviglio di rimorsi e dubbi, a loro volta meri effetti di quel coacervo di insospettabili parentele e relazioni che, dal passato, infestano ancora la casa degli Alving.
Nulla, nemmeno la pioggia che cade copiosa e instancabile sulle note lisergiche di Angel dei Massive Attack, sembra lavare le «colpe dei padri» che assillano Alving e vincolano come un lascito di dolore il paraplegico Osvald, la sognante Regina, perfino il gretto Engstrand: irrigiditi sotto gli scrosci, attendono una salvezza che, nella spietata e acuta direzione impressa da Lidi, avrà l’aspetto di una carneficina e di una vendetta. Con un’espressione luciferina e un gesto finalmente libero e deciso, La Rosa – autore di una performance virtuosistica – suggella un dramma che ha anche nel magistrale lavoro attorale uno dei suoi punti di forza. Se Vigna è una Regina eterea ed estatica, e Pirrello sembra sviluppare per contrasto due personaggi disincantati e sofferti, è soprattutto Michele Di Mauro a offrire impressionante spessore al proprio Alving. Agendo su una pluralità di registri e al contempo cesellando con microscopica perizia le intonazioni e i gesti, Di Mauro è una figura ambigua e sottile, in grado di far detonare con analoga furia i desideri e le meschinità, la rabbia compressa e le atroci sconfitte; la loro deflagrazione, silenziosa e progressiva, si rivelerà ben più mortale di qualsiasi malattia. Ma in fondo forse ha ragione Alving, a domandarsi: «perché sopravvivere?».
Alessandro Iachino
Tese dei Soppalchi, Venezia – luglio 2018
LEONARDO LIDI
SPETTRI
da Henrik Ibsen
adattamento e regia Leonardo Lidi
con Michele Di Mauro, Christian La Rosa, Mariano Pirrello, Matilde Vigna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Graziella Pepe
suono Gup Alcaro
assistente alla regia Isacco Venturini
produzione La Biennale di Venezia