Centrale Fies è un luogo attivo tutto l’anno e interessato a perseguire pratiche e sinergie culturali che mettano in relazione il locale con la dimensione globale. Intervista a Barbara Boninsegna, Virginia Sommadossi e Filippo Andreatta.
Seduti attorno a un tavolo nel parco che circonda Centrale Fies, nel verde della valle alle porte di Dro, Barbara Boninsegna (direzione artistica), Virginia Sommadossi (identità visiva e relazioni esterne) e Filippo Andreatta (co-curatore) ci accolgono per una conversazione a più voci riguardante il Supercontinent² immaginato, costruito e osservato durante tutto l’anno e che nei giorni del festival, conclusosi una settimana fa, si comunica agli operatori e agli spettatori. Essendo coinciso il nostro incontro con l’ultimo giorno di programmazione, i tre operatori ci accolgono in una condizione di tranquillità che segue invece un periodo precedente di agitazione e osservazione: «Per tutto l’anno parti da un’idea alla quale ti affezioni e alla quale vuoi dare concretezza; è durante le giornate di festival che puoi renderti conto del lavoro che hai fatto e se risponde o meno al tuo pensiero iniziale». Un’introduzione questa della direttrice artistica Barbara Boninsegna che, mirando al fulcro del nostro dialogo, stabilisce sin da subito un nesso diretto tra l’attività svolta durante la stagione e quella festivaliera, che ne rappresenta un passaggio e non un arrivo. Al fine di mantenere quella visione d’insieme riscontrata durante la nostra chiacchierata in cui i singoli punti di vista sono confluiti in una prospettiva condivisa, si preferirà non evidenziare la singolarità delle risposte ma privilegiare il loro carattere unitario.
Quali sono le linee di continuità rispetto allo scorso anno e quali invece le differenze che hanno segnato dei passi in avanti?
Nell’edizione precedente siamo partiti col concentrare la nostra attenzione sul movimento migratorio delle persone e degli animali e sulle traiettorie che disegnano questo nuovo supercontinent, le cui dinamiche permettono di guardare al paesaggio come creato e poi modificato dagli stessi esseri che lo attraversano. Il titolo non viene deciso a priori, la scelta è frutto dell’osservazione delle diverse pratiche performative presentate dagli artisti, che ci hanno portato quest’anno a far esplodere, semanticamente, il concetto di migrazione in una visione più ampia e più naturale; per sentirci parte di una terra emersa che si muove e muta. Mantenere lo stesso titolo e claim dell’edizione precedente indica una scelta di ecologia del pensiero culturale: è un concept comunicativo che non sente la necessità di cambiare edizione dopo edizione, ma preferisce dimostrare la propria continuità e il legame con il lavoro di un centro che opera tutto l’anno e che comprende le residenze e le produzioni. Ci sono degli elementi che riecheggiano e consolidano la nostra visione: se nel 2011 nell’edizione di Cara Catastrofe il booklet conteneva quattro inserti di artisti liminali al teatro che offrivano la loro visione sul tema, questo stesso approccio è proseguito, modificandosi, nei Talkin’ About di questa edizione. Un’esplosione del tema relativo al supercontinent che cuce insieme le nostre riflessioni con quelle degli artisti e coi lavori presentati. Dal cartaceo siamo passati all’esperienza fisica e condivisa della discussione.
Rispetto al pensiero che sta alla base della volontà di sostenere un percorso artistico piuttosto che un altro, chi è “l’artista di Fies”?
Quello di Fies è un artista che non c’è ancora. La nostra è una ricerca continua di selezione che si muove su tre livelli: individuale, scientifico e discorsivo. Alcuni degli artisti ritornano al festival per i Live Works (Jacopo Jenna e Urok Shiran) e tessiamo un dialogo continuo con quelli che vengono invitati durante l’anno in residenza. Le sinergie create con gli altri studiosi durante i talk poi, ci invitano a riflettere non solo sull’artista ma soprattutto su ciò che accade in scena più o meno casualmente, e su come guardare e modificare il paesaggio, non solo quello scenico, circostante.
A proposito di internazionalizzazione delle pratiche, che cosa vuol dire per voi far parte del “paesaggio europeo” in questo periodo storico e qual è il peso della vostra posizione di confine?
Il territorio di Centrale Fies va oltre il confine europeo, che ora percepiamo fortemente dal punto di vista politico rispetto al nostro essere italiani e a quello che sta accadendo intorno a noi. In questa particolare regione si considera il confine come passaggio, del resto parliamo di una zona di transito tra il nord e il sud dell’Europa. L’analisi che deriva dall’osservazione dei Live Works ha a che fare con tematiche postcoloniali che ora stanno prendendo direzioni e incroci diversi e che superano di gran lunga quelli politici: c’è una geografia dell’arte e della cultura che si sta muovendo e sta tracciando ben altri orizzonti ridefinendo nuove forme di geopolitica. Noi facciamo parte attiva di questo territorio, siamo un tassello di realtà che non coincide con l’eccezione ma che vive di un fuoco sempre alimentato e in espansione.
La nozione di territorio sta subendo, nell’attuale sistema teatrale e performativo nazionale, una peculiare torsione. Il “lavoro sul territorio” sta diventando un elemento sempre più fondamentale nell’attività di un ente o di una residenza. Come si conciliano il “globale” e il “locale” nei tanti progetti di Centrale Fies?
A differenza di altri festival, abbiamo la fortuna di abitare una casa che viviamo tutto l’anno, questo ci permette di fare un lavoro sul pubblico a iniziare dalle giovanissime generazioni, con l’obiettivo che in un futuro questo luogo venga da loro riconosciuto come proprio. La performance art, che qui è una narrazione minore rispetto alle offerte culturali del territorio, viene presentata nelle scuole come disciplina al pari delle altre, e durante il mese di ottobre, grazie al progetto Enfant Terrible, Centrale Fies si apre ai ragazzi.
Da due anni siamo inoltre promotori dell’iniziativa Trentino Brand New che, veicolando l’immaginario di Supercontinent² in un laboratorio di comunicazione turistica, chiede ai ragazzi dai 18 ai 35 anni di raccontare, diversamente a modo loro e con l’aiuto degli artisti, il territorio. L’arte li ha resi politicamente attivi, pronti e vogliosi di rendersi responsabili. Facendo questo abbiamo intessuto una grandissima rete tra spettatori, operatori, artisti e associazioni: un lavoro di tipo sociale non nella missione ma nella sua sperimentazione e fattività.
Vi descrivete come una struttura “porosa”, nella quale è biunivoco il rapporto di influenza tra artista e curatore. Come si inserisce lo spettatore in questa dinamica? Quale attenzione riceve la performance art dall’attuale platea di spettatori, e di quali strumenti questa ha bisogno per avvicinarsi e decodificare forme artistiche così ibride?
Centrale Fies si avvicina al pubblico senza snaturare la propria identità, preserva la ricerca sulle pratiche artistiche e nutre il territorio con la propria specifica natura. Tutto si regge sull’alimentare la curiosità e la soglia di attenzione dello spettatore, questo è ciò che ci interessa.
Lucia Medri