Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 81 ci introduce ai paradossi di Eraclito, provando a proiettarli sulla recitazione.
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Nel numero 80 una riflessione a partire dal corpus hippocraticum e dai riferimenti all’arte performativa in esso contenuta.
«Fair is foul, and foul is fair» (William Shakespeare, Macbeth, I 1, v. 9)
L’oscurità da cui viene avvolto chi si immerge nei meandri di una dottrina filosofica potrebbe non dipendere dalla difficoltà dell’eloquio o dei contenuti espressi dal filosofo. Alcune idee possono risultare oscure, anzi, perché apparentemente troppo semplici e luminose. Gli occhi non vedono più perché sono accecati da un nitore e dalla facilità disarmante di certi pensieri. Questo è il tipo di oscurità in cui si trova immerso chi si confronta con Eraclito.Il cuore della filosofia eraclitea è rappresentato, infatti, da una dottrina a cui siamo ormai abituati e che, entro certi limiti, potrebbe addirittura sembrare scontata: quella dell’unità degli opposti. Eraclito la sostiene in molti degli aforismi che compongono la sua opera Sulla natura, ciascuno dei quali ha un contenuto a prima vista molto banale. Due esempi basteranno per cogliere questo metodo.Da un lato, Eraclito rileva la coincidenza degli opposti entro le trasformazioni qualitative che hanno luogo nella nostra natura. Noi nasciamo e moriamo, ogni giorno ci svegliamo e dormiamo, siamo giovani e invecchiamo: eppure, il nostro “sé” – vivo o morto, sveglio o addormentato, bambino o anziano – resta sempre unico e identico. Dall’altro lato, Eraclito indica un esempio di unità degli opposti nel movimento del rullo di una macchina per cardare la lana. Il moto di un simile marchingegno sembra al tempo stesso procedere dritto e curvo, ossia unire due direzioni che di primo acchito sembrano essere divergenti. Se io disegno su un foglio una linea retta, non posso far sì che essa sia contemporaneamente anche curva.
I fenomeni richiamati da questi due esempi ci sono familiari. E tuttavia, essi alludono a qualcosa di misterioso e di paradossale, che si coglie andando oltre la superficie di quello che percepiamo. Quando si fa ciò, infatti, si conclude che gli opposti formano un’unità dinamica, ossia si ricava un paradosso: che esiste un movimento statico, o un essere che diviene. Possiamo dire, riprendendo gli esempi precedenti, che il “sé” permane e diviene molte cose: è un ente immobile che si muove o diviene. Di contro, la macchina per cardare la lana ora si curva e ora va diritta, nondimeno segue un percorso fisso: essa si muove restando ferma nel suo tracciato.Andando ancora più in profondità, si scopre un ulteriore paradosso: le varie opposizioni sono a loro volta unitarie. Altri aforismi eraclitei mostrano, a tal proposito, che anche gli opposti “movimento” / “stasi” e “essere” / “divenire” costituiscono un’unità dinamica. Ciò accade nel frammento in cui si dice che il ciceone (= bevanda fatta di acqua, farina e menta) permane se viene mosso. Se non venisse mescolato, i suoi ingredienti si rapprenderebbero e tale bevanda perderebbe la propria natura di bevanda. O ancora, vi si allude nei famosi aforismi sul fiume il quale, diversamente da quanto vuole la vulgata tradizionale, non dicono che tutto scorre o diviene. Questa tesi risale, invece, alla riflessione di Cratilo, un Eracliteo che deduceva dal mobilismo universale addirittura l’idea dell’impossibilità di nominare le cose, dato che ogni ente si trasforma di continuo e non ha più quelle proprietà che noi fissiamo attraverso i nomi. I testi di Eraclito evidenziano, al contrario, che moto / stasi e essere / divenire coincidono. Il fiume resta fiume perché il suo argine resta stabile e costringe l’acqua a scorrere entro il proprio limite, e tuttavia non è più quel fiume lì, perché l’acqua che io occupo ora non era quella in cui mi ero bagnato dieci minuti prima. Allo stesso modo, anche il nostro “sé” esiste e non esiste. “Paolo” resta Paolo quando invecchia e quando muore, ma il Paolo morto non è il Paolo vivo e il Paolo decrepito non è il Paolo neonato.
Se ci si spingesse ancora oltre, si potrebbe alla fine ridurre ogni opposizione a unità e convenire, formulando altri paradossi, che persino i “molti” sono “uno” e che l’“uno” diviene “molti”. Dietro l’uno/molti o i molti/uno ci sarà un fondo insondabile che permane e diviene, esiste e si dissolve, si muove e sta in quiete. Secondo Eraclito, forse questo ente può coincidere con la divinità, che riunisce in sé tutti i contrari che noi teniamo distinti nell’esperienza ordinaria, inclusi i valori morali. Se il divino è infatti ogni cosa, egli sarà anche l’unità degli opposti “giusto” e “ingiusto”, o (per dirla con le streghe del Macbeth di Shakespeare) del fair e del foul che i mortali tendono indebitamente a separare. Costoro non riconoscono che senza le attività ingiuste non vi sarebbe una giustizia che fa loro da contrasto.
Si vede così bene come Eraclito parta da fenomeni chiari, familiari, distinti e comprensibili per giungere a una realtà oscura, ignota, contraddittoria e inesprimibile. Questa esperienza è paragonabile, forse, a quello che ci accade quando dalla spiaggia ci tuffiamo nelle acque profonde del mare. Dapprincipio noi galleggiamo vicino alla riva e riusciamo a distinguere quel che ci sta intorno: i nostri piedi, qualche pesciolino, le parole dei bagnanti che giocano e parlano. Poi ci immergiamo e, quanto più andiamo più a fondo, tanto più non sentiamo più alcun suono e non percepiamo le cose in cui ci imbattiamo. Freddo e buio crescono esponenzialmente. A quel punto ci affrettiamo a tornare a galla e a riva, in preda a disorientato sgomento.
Fatte tali premesse, ci si può chiedere: quale rapporto la filosofia eraclitea e i suoi paradossi istituiscono con il teatro? Le testimonianze e i frammenti che abbiamo ci consentono di dire con sicurezza solo che Eraclito potesse occasionalmente alludere all’unità degli opposti tramite gesti performativi e concetti propri dell’ambito performativo. Quest’ultimo è il caso del ricorso al concetto di “armonia”, ossia della proporzione consonante tra elementi in sé dissonanti, e più nello specifico del suono armonico rilasciato dalla tensione delle corde della lira. Potremmo poi anche aggiungere il paragone del tempo con un fanciullo che gioca a dadi, che può forse essere interpretato come una metafora della vita come scena, o dell’esistenza come gioco. E ciò rappresenta, di nuovo, l’espressione dell’unità di alcuni contrari: del serio e del faceto, dell’arte e della natura. Stando infine alla testimonianza del trattato plutarcheo Sulla loquacità, forse Eraclito potrebbe aver voluto alludere alla coincidenza degli opposti “stasi” e “movimento” del frammento del ciceone con un gesto performativo: il mescolare e il bere in silenzio questa bevanda, davanti al pubblico dei cittadini di Efeso. In realtà, Plutarco interpreta questo suo gesto performativo come un invito alla concordia rivolta dal filosofo agli Efesini. Ma potrebbe darsi che questo sia un risvolto etico della dottrina ontologica della coincidenza degli opposti. Sostenere che gli opposti coincidono significa anche formulare l’ulteriore paradosso che essi concordano pur discordando, che è poi quello che si legge in un altro frammento di Eraclito, tramandato dal Sul cosmo dello pseudo-Aristotele.
Un’altra caratteristica che emerge dagli aforismi eraclitei in merito al teatro è invece di tipo negativo. Eraclito si mostrava polemico verso quelle pratiche performative che presumono indirettamente di separare gli opposti tra loro e di negare che essi intrattengano tra loro un’armonia invisibile. Così può forse essere letto l’attacco del filosofo contro gli aedi che recitano i versi di Esiodo, che nega che giorno e notte siano la stessa cosa, e Senofane, la cui teologia attribuisce alla divinità solo le azioni giuste e, dunque, nega che il divino sia quel qualcosa di insondabile che riunisce ogni contrarietà.
In questo senso, potremmo dire che per Eraclito la recitazione dei versi esiodei e senofanei rappresenta una pratica ostile alla verità. Il teatro nasconde l’invisibile unità degli opposti che il ragionamento eracliteo cerca di mostrare studiando i fenomeni visibili.
Nemmeno Eraclito si allontana, insomma, dalla tendenza anti-performativa propria di molti pensatori antichi. Il fatto che la sua filosofia possa invece apprezzare il lavoro degli attori è provato dal libro I del trattato ippocratico Sul regime dietetico che, come accennato nell’appuntamento precedente, è influenzato ampiamente dalla dottrina eraclitea. L’autore sostiene qui che tutte le arti degli esseri umani sono imitazioni della natura divina che riunisce in un’unità tutte le contrarietà, in altri termini mostrano che le cose dissimili e opposte si assomigliano per un’armonia segreta. Ora, l’arte della recitazione è annoverata tra le attività umane che evidenziano questa convergenza di una o più opposizioni.
Gli attori mostrano, infatti, l’unità di verità e falsità, o anche dell’identità e della diversità. Essi dicono delle cose pur pensandone delle altre, davanti a un pubblico consapevole della loro finzione. Un esempio possibile è quello dell’attore che pronuncia le battute di Clitemnestra senza davvero aderire a quello che la donna dice, come che l’omicidio di Agamennone sia giusto, e che proprio tramite tale finzione rende vera o credibile quello che il pubblico osserva sulla scena. O ancora, gli artisti di teatro entrano gli stessi ed escono che non sono più gli stessi. Essi sono il personaggio che interpretano sulla scena e, quando la abbandonano, non lo sono più. L’attore è e non è il ruolo che ricopre. Il “sé” dell’attore si mantiene allora integro, pur divenendo molti personaggi nella rappresentazione drammatica.
Su cosa poi sia più di preciso questo fondo insondabile cui il teatro allude, si continuerà per il resto a dibattere. Il teologo lo chiamerà «dio», il fisico parlerà dell’«abisso» della natura, il nichilista descriverà un «sogno» della ragione, il poeta canterà del «gioco» del tempo, il mistico parlerà del «nulla», il filosofo userà il concetto di «neutro». Ma si tratta di una guerra di parole. Nella sostanza, che importanza ha?
Enrico Piergiacomi
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La stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 88 DK)
Una e la stessa è la via dritta e quella curva per la vite nella gualchiera (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 59 DK)
Anche il ciceone si scompone se non è agitato (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 125 DK)
Acque sempre diverse scorrono per coloro che s’immergono negli stessi fiumi; ma anche le anime evaporano dall’umido (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 12 DK)
Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 49a DK)
Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 92 DK)
Inoltre, vedendo che questa realtà naturale è in movimento, poiché di ciò che muta nulla è possibile dire di vero, essi conclusero che di ciò che muta per ogni rispetto e in ogni maniera non è possibile dire nulla di vero. Da questa supposizione derivò l’opinione più radicale tra quelle menzionate, quella cioè di coloro che affermano di essere seguaci di Eraclito e che anche Cratilo condivise: il quale, alla fine, ritenne che non si dovesse dire nulla, ma muovere soltanto il dito e rimproverava perfino Eraclito quando diceva che non è possibile scendere due volte nello stesso fiume; egli riteneva infatti che non fosse possibile neppure una volta (Aristotele, Metafisica, libro IV, passo 1010a7-15 = Cratilo, fr. 65 A 4 DK)
Se non fosse per Dioniso che fanno la processione ed intonano il canto del fallo, essi compirebbero le cose più indecenti; ma identici sono Ade e Dioniso, per il quale delirano e celebrano le Lenee (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 13 DK)
Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come , quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 67 DK)
Per la divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste; gli uomini invece alcune cose ritengono ingiuste e altre giuste (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 102 DK)
Non conoscerebbero nemmeno il nome “giustizia”, se non esistessero queste cose [cioè, le ingiuste] (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 23 DK; traduzione modificata)
L’armonia nascosta vale più di quella che appare (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 54 DK)
Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 51 DK)
Il tempo è un bimbo che gioca a dadi: regno di fanciullo (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 52 DK; traduzione mia)
Non meritano lode e ammirazione in modo tutto particolare coloro che esprimono ciò che si deve fare per simboli, senza ricorrere alla parola? Come Eraclito, il quale, chiedendogli i concittadini di esprimere la sua opinione sulla concordia, salito sul palco, prese una tazza di acqua fredda, vi versò dell’orzo, e, dopo aver mescolato con un’erba odorosa, la bevve e ridiscese, mostrando così ad essi che la città si mantiene nella concordia e nella pace con l’accontentarsi di ciò che ci capita di avere e senza aver bisogno di cose lussuose (Plutarco, Sulla loquacità, passo 511B8-C5 = Eraclito, testimonianza 22 A 3b DK)
Forse la natura desidera i contrari e da questi, e non dai simili, si realizza l’accordo… e questo coincide con quanto detto dall’oscuro Eraclito: Congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele, Sul cosmo 396b7-8 e 396b19-22 = Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 10 DK)
Qual è infatti la loro mente e la loro intelligenza? Danno retta agli aedi e si valgono della folla come maestra, senza sapere che i molti non valgono nulla e solo i pochi sono buoni (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 104 DK)
Maestro dei più è Esiodo: credono infatti che questi conoscesse moltissime cose, lui che non sapeva neppure cosa fossero il giorno e la notte; sono infatti un’unica cosa (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B 57 DK)
Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l’avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo (Eraclito, Sulla natura, fr. 22 B B 40 DK)
Omero e Esiodo, secondo Senofane di Colofone, «così raccontarono un numero grandissimo di opere indecenti degli dèi, rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente» (Sesto Empirico, Contro i matematici, libro I, § 289 = 21 B 12 DK)
Gli uomini non sanno vedere, dalle cose evidenti, quelle latenti; infatti, essi non sanno usare arti simili a quelle della natura umana. La mente divina, in effetti, insegnò loro di imitare le possibilità divine e gli uomini, pur conoscendo ciò che fanno, non sanno trattare quello che imitano. Infatti, tutte le cose sono simili, pur essendo dissimili, e tutte sono convergenti nella loro divergenza, parlanti e non parlanti, intelligenti e in intelligenti: contrario è il modo di ciascuna cosa, essendo concordante. La legge e la natura, grazie alle quali noi agiamo, non si accordano pur accordandosi, giacché gli uomini hanno posto la legge per se stessi, non sapendo perché l’hanno istituita, mentre sono gli dèi quelli che hanno ordinato la natura. Ciò, dunque, che gli uomini hanno istituito, non mai conserva lo stesso andamento, sia giustamente, sia erroneamente, ma tutto quello che gli dèi hanno ordinato è sempre giusto. Tale è la differenza fra quello che è giusto e quello che non è giusto. Io, ora, voglio indicare le arti che verosimilmente sono simili alle affezioni umane, e quelle manifeste e quelle latenti ([Ippocrate], Sul regime dietetico, libro I, §§ 11-12)
L’esercizio ai giuochi atletici e la ginnastica dei bambini sono quelle arti che insegnano a trasgredire la legge secondo la legge, a commettere l’ingiusto giustamente, a ingannare, rubare, rapire, spingere con violenza ciò che è più bello come quello che è più vergognoso. Colui che non fa questo è cattivo, al contrario chi fa ciò, valente. Su questo si mostra la dissennatezza degli uomini: essi guardano queste cose e giudicano come valente uno fra tutti, e gli altri cattivi. Molti ammirano, pochi sanno. La gente va al mercato e fa le stese cose: tutti ingannano vendendo e comprando. Chi più ha ingannato, più è ammirato. Bevendo e impazzendo gli uomini fanno la stessa cosa: corrono, lottano, combattono, rubano, ingannano: e uno da essi è giudicato. Commedianti e ingannatori, dinanzi a quelli che sanno, altre cose dicono ed altre pensano; gli stessi escono, ed entrano non gli stessi. Solo ad uno, all’uomo è dato di dire delle cose e farne delle altre: non essere lo stesso essendo lo stesso essere, e ora avere questa, ora quell’altra opinione. È in tal modo che tutte le arti partecipano della natura ([Ippocrate], Sul regime dietetico, libro I, § 24)
[I testi di o su Senofane, Eraclito e Cratilo sono citati nella da Gabriele Giannantoni (a cura di), I Presocratici: testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1969. La traduzione del libro I Sul regime dietetico è di Concezio Alicandri Ciufelli, Ippocrate: Sul regime dietetico. Libro I, Sulmona, Tipografia Labor, 1961]