Il 20 luglio 2018 apre il 46esimo Festival Internazionale del Teatro della Biennale, a Venezia fino al 5 agosto. Abbiamo parlato con il direttore artistico Antonio Latella. Intervista.
Il Festival Internazionale del Teatro de La Biennale di Venezia è una di quelle occasioni istituzionali in cui gli spettatori del teatro hanno la possibilità di tenere il passo con ciò che accade in Italia e, soprattutto, nel panorama estero. La presidenza di Paolo Baratta ha spostato visibilmente i riflettori sulla zona del processo creativo, chiedendo ai direttori che si sono avvicendati di offrire opportunità di formazione (Biennale College) e di fare di questo appuntamento non tanto una vetrina di grosse produzioni, ma un ambiente di conoscenza, un laboratorio di osservazione e manipolazione sui linguaggi artistici del contemporaneo.
Per il secondo anno il compito di disegnare il programma è in mano al regista Antonio Latella, nome gigante della scena internazionale, sempre alla ricerca di nuovi confini da infrangere. Dopo un’edizione, quella 2017, dedicata alla Regia (con 9 registe donne), l’«atto secondo» ha come titolo «Attore/Performer», forse la categoria davvero irrinunciabile per la creazione di arte performativa.
Abbiamo raggiunto al telefono Antonio Latella, a pochi giorni dall’apertura del festival, per una densa conversazione sul teatro di oggi e sulle responsabilità della direzione artistica di un evento così importante.
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Attore/performer, un pianeta fondamentale per l’universo teatro. Qual è la strategia di sguardo per osservarlo e, se c’è, qual è la differenza tra i due termini?
In teatro si possono vedere tante diversità: dal non costume alla non regia, fino alla non luce e al non testo, ma credo che non si possa far teatro senza attori e performer, che comunque restano la chiave che lega il pubblico e il regista – o possiamo chiamarlo artista, in alcuni casi. Mettere al centro l’attore e il performer penso che sia un passo fondamentale, soprattutto in questo Ventunesimo secolo. Non so se sia ancora lecito porsi la domanda se c’è o meno una differenza tra attore e performer, credo che siamo andati oltre, anche se poi la differenza la fanno i registi, che prediligono un attore in senso canonico o preferiscono scegliere un performer. È difficile, oggi, trovare un attore puro o un performer puro: quest’ultimo nasceva per non essere piegato alle regole della grammatica teatrale (non voleva un regista, non voleva un testo, voleva essere il creatore), ma anche perché la performance art non prevedeva replica, era unica in quel momento. Dal momento in cui è dovuta andare in replica ha dovuto anche canonizzare alcuni aspetti. Credo che sia interessante vedere questi corpi – dell’attore o del performer – mentre si prestano ai linguaggi dei registi, è per me qualcosa di estremamente commovente vedere il talento prestato all’altro talento. Credo sia questo il punto: laddove l’attore e il performer si mettono al servizio della regia nascono degli incontri e dei lavori estremamente interessanti; laddove invece essi vogliono predominare sull’operazione, secondo me, nasce qualcosa di meno vivo.
La comunità del teatro nell’Italia di oggi è una delle più forti e delle più coese, benché marginale. Con questa esplosione di mezzi digitali, però, convivono due ordini di comunità: una reale e una virtuale. Se è vero che è in quest’ultima che principalmente si sviluppa il discorso sul teatro, a tenere vivo il teatro sono ancora le categorie di presenza e compresenza. Secondo il tuo pensiero come può un’occasione come la Biennale Teatro mettersi al servizio della comunità del teatro?
È un argomento a me molto caro. A me viene data un’occasione, appunto, una possibilità, che va sfruttata al meglio non per me ma proprio per la comunità del teatro. Mi spavento quando sento parlare troppo del direttore artistico e poco del contenuto. Io credo sia importante che si parli davvero del programma, di quello che viene proposto. Quando questo accade, a volte nemmeno si sa chi sia il direttore artistico, ma si segue solo un programma particolarmente interessante. In quel caso il direttore artistico ha veramente colpito nel segno, perché la sua figura viene raccontata attraverso il programma, attraverso il suo lavoro. Il programma non è una semplice ostentazione delle capacità, deve avere una forza altruistica: io non credo che il mio sia il programma migliore, ma penso che porti con sé la possibilità di creare un evento, un luogo in cui il pubblico, il direttore e l’operatore possano andare a vedere e seguire un processo creativo. Questo è nato lo scorso anno e sta accadendo anche oggi: molti vengono al festival proprio per entrare dentro a un processo creativo, piuttosto che limitarsi a vedere gli spettacoli. Abbiamo creato la sezione Retrospettiva, che diventa una possibilità di incontrare l’artista e di abbracciarlo anche in quello che non si capisce: si può vedere il suo percorso, i suoi appuntamenti. E questo secondo me differenzia il festival, lo fa diventare davvero un’occasione di incontro. Me ne sto accorgendo anche sul pubblico, che magari prende il biglietto per un solo spettacolo, ma poi si incuriosisce e finisce per vedere anche tutti gli altri. Allora questa è anche una possibilità di incontro per la comunità teatrale e per me è fondamentale. Altro aspetto per me molto importante è quello di portare artisti che non sono conosciuti: anche se alcuni sono dei nomi, magari non hanno una visibilità come quella di altri, ma stanno segnando una differenza. E il festival diventa un territorio dove si può conoscere e incontrare, piuttosto che un’occasione per applaudire qualcosa che abbiamo già visto e che non ha bisogno di un passaggio dentro al festival della Biennale.
Il tuo lavoro è essenzialmente quello di regista, ti occupi di processi creativi. In che modo una direzione artistica può occuparsi di svelare e presentare allo spettatore questi processi che caratterizzano il teatro?
Il presidente della Biennale, Paolo Baratta, ha una missione precisa, quella dello scouting; è un input che trasferisce ai direttori di ogni sezione. Ma per me è la stessa indicazione che ho dato al mio lavoro fin da subito: fare scouting di me stesso, degli attori, dei drammaturghi. Credo quindi che la possibilità di una direzione artistica sia proprio quella; magari sbagliando, magari segnalando cose che tra un paio d’anni verranno dimenticate. Ma in altri casi può davvero accadere qualcosa di importante: proporre un sostegno economico a un giovane di ventinove anni che ha vinto un bando under 30 dimostra uno sforzo per fare scouting, non per entrare nelle leggi di mercato. A me non interessa se quello spettacolo venga venduto, mi interessa il fatto che l’artista è finalmente libero dalle leggi di mercato ed è libero di creare. Nelle istituzioni proprio le regole di mercato vanno a condizionare le scelte e la programmazione; un festival deve essere libero da queste costrizioni. Oggi mi sembra che le cose più interessanti accadano proprio nei festival, anche perché c’è una competizione sana nel segnalare artisti che non hanno avuto possibilità di essere notati. Io ho ancora due anni qui in Biennale e lavorerò in questa direzione, forse togliendo ancora di più la spettacolarizzazione e tentando di concentrarmi ancora di più sul contenuto. La Biennale non è ricca, rispetto a come viene vista all’estero – rispetto a quel mercato siamo proprio una Cenerentola – ed è interessante vedere che gli artisti che invitiamo investono un grande sforzo, perché hanno la possibilità di mostrare più cose e il loro processo creativo. Quindi non è un supermercato, dove non si ha tempo di connettersi con l’artista, la cui presenza rischia di passare in silenzio.
Una domanda che riguarda invece la tua poetica. Pensi che oggi il teatro debba ancora raccontare delle storie e avere una propria epica nel rapporto con la società e con lo spettatore?
Forse non in molti se ne sono accorti, ma da quando sono stato nominato direttore della Biennale ho prodotto pochissimo come regista, perché sto cercando di concentrarmi molto sui giovani. Mi sta succedendo di vedere molti lavori che mi mandano in crisi come regista, perché vedo che le barriere si sono definitivamente rotte. Credo che sia un bene per la creatività, perché questa frattura innescherà la nascita di nuovi linguaggi di narrazione e di drammaturgia. La drammaturgia sta diventando uno scrivere per la scena, una composizione, dunque gli spettacoli stanno diventando delle creazioni. Io penso che una storia ci sia sempre, che non segue però più la grammatica che conosciamo e questo ci affatica la lettura. Per esempio, tutti amiamo David Lynch, ma quanto ci ha messo lui per essere letto dallo spettatore? E quanto ancora non viene letto? Una storia la racconta sempre, ma usa un’altra grammatica. E allora questo connubio di linguaggi, proprio del Ventunesimo secolo, ha una forza incredibile, di cui dovrebbe accorgersi anche il teatro istituzionale. Ancora non lo fa perché ha paura di perdere pubblico, quando invece secondo me il pubblico dovrebbe essere accompagnato nella lettura di un’opera. Io sono graziato dal fatto di dover dirigere un festival, dove le regole sono altre. Alcuni degli artisti che porto quest’anno li ho visti in festival di danza, per esempio, ma per me sono spettacoli teatrali; trattandosi di attore e performer, poi, ci sono artisti che raccontano storie con gli oggetti e senza parola. È una forma di scrittura per la scena, è un raccontare e un raccontarsi.
Spesso ci lamentiamo di non vedere niente di nuovo, categoria alla quale forse dovremmo smettere di affezionarci. Ma forse la storia del teatro funziona a cicli più lunghi e procede solo per fratture. Tu che cosa pensi del “nuovo” nei linguaggi teatrali?
Lo stesso è capitato a me, di avere la sensazione che tutto fosse stato già fatto, già detto, già mostrato. Poi vado a vedere Caravaggio e penso: «Quanto è nuovo!»; leggo Tasso e mi genera meraviglia. Non mi accade, per esempio, con Čechov, ma mi accade con Ariosto di pensare che sia un linguaggio molto nuovo: perché l’ho dimenticato, perché me lo hanno fatto dimenticare, non me l’hanno più raccontato. Allora il nuovo che abbiamo adesso è forse figlio di un padre che abbiamo dimenticato. Non è un discorso sulla tradizione, voglio sottolineare quanto possa risultare “nuovo” qualcosa che non è nella mia memoria; c’era forse nella memoria di quelli prima di noi. Quanto è difficile vedere un Giordano Bruno sui palcoscenici? Ma non lo si fa forse perché si ha paura di perdere pubblico, proprio perché è diventata una verità. Io guardo tantissimo al nuovo guardando quello che verrebbe di solito chiamato vecchio, o che sta prima della grammatica. Sulla questione dei nuovi linguaggi mi viene da fare una battuta: nel momento in cui ho presentato il festival qualche giornalista ha detto: «Ma non conosciamo nessuno, perché dovremmo venire?». Proprio per questo, no? Perché non conoscete. Ma mi sono accorto della pigrizia che c’è, perché il nuovo pretende uno studio, pretende che ci si informi, che si smetta di guardare solo ciò che interessa a un livello personale e che ci si metta in discussione. Il nuovo pretende che si smetta di guardare solo attraverso le cose che ti piacciono e accettare le cose che non ti piacciono e capire perché stiano funzionando. Poi, in questo scouting, la direzione artistica mette sempre in conto di poter prendere delle cantonate, ma il lavoro è proprio lì, di andare fuori dai propri gusti per raccontare quello che sta succedendo. Come nel caso del Leone d’Oro assegnato ad Antonio Rezza e Flavia Mastrella, o di quello d’argento assegnato ad Anagoor [qui le motivazioni, ndr]. Inaspettato, soprattutto il primo, perché il loro teatro può piacere o meno, ma hanno veramente creato un linguaggio inimitabile e unico e che ha creato un pubblico totalmente nuovo. La questione che si può aprire, infatti, è il rapporto con il pubblico e il tipo di fruizione che propone. Se una performance prevede tempi di fruizione creativi, su un palcoscenico possono risultare noiosi. Allora la domanda è lì: che tipo di pubblico e di fruizione creerà l’arrivo di questa ondata di arte performativa sul palcoscenico? Dovremo scoprirlo.
Concludiamo con una domanda di rito, molto personale. Quali esperienze teatrali risultano memorabili nella tua carriera di spettatore?
Anche se non ho mai fatto un Pirandello, sicuramente la prima volta che vidi Sei personaggi in cerca d’autore di Giuseppe Patroni Griffi a Torino: fu il mio primo spettacolo teatrale, avevo quindici anni, il che la dice lunga sulla mia formazione. Fu sconvolgente, perché scoprii che c’era un posto dove c’era vita più che nella vita normale. Poi metterei in lista anche un’altra versione dello stesso testo diretta invece da Vasiliev e due Amleto: quello di Romeo Castellucci e quello di Nekrošius. Quindi linguaggi totalmente diversi ma che hanno generato vita in modi molti diversi.
Sergio Lo Gatto