Una riflessione sulle forme di Teatro partecipato a partire dalla visione e di alcuni spettacoli presentati all’ultima edizione di Pergine Festival: A manual on work and happiness di mala voadora e M2 di Dynamis.
«Da dentro è tutta un’altra cosa, non sapete cosa vi siete persi.» Queste parole le pronunciava una degli spettatori che volontariamente si sono prestati a diventare i protagonisti di M2, spettacolo della compagnia romana Dynamis che ha debuttato a Pergine Festival nella nuova versione estesa di 50 minuti. Era una signora con il viso immobile, che non concedeva neanche quel tipico sorriso dettato spesso dal nervosismo di chi si vede coinvolto in scena senza averlo previsto, effetto tipico del cosiddetto Teatro partecipativo.
Se da una parte gli artisti si lamentano, spesso, dell’utilizzo di nomi ed etichette create da studiosi e critici, è pur vero che queste servono per conferire un principio ordinativo a un panorama teatrale contemporaneo costituito da una biodiversità che merita di essere osservata e registrata. Il Teatro partecipativo, in un tentativo di definizione basilare e ad ampio raggio, raccoglie dunque tutte quelle espressioni artistiche in cui il fatto teatrale si muove attorno a un principio fondamentale: coinvolgere lo spettatore e renderlo consapevole del proprio ruolo – su Bologna teatri è possibile trovare un interessante compendio analitico e storico –; alcune esperienze recenti e più radicali sono caratterizzate da una spiccata cessione della responsabilità artistica al pubblico. Lo spettatore insomma sostituisce o si affianca agli attori/performer professionisti. Il fattore di cui non si può non tener conto è quello esperienziale; nel caso del teatro partecipato avviene, nella migliore delle ipotesi, un’amplificazione dell’esperienza attiva, ovvero della possibilità stessa di far mutare le sorti dell’evento artistico attraverso la presenza e azione del pubblico.
(Stanze – Collettivo Bergman)
Chiunque abbia riflettuto su questo tema si è trovato di fronte a una serie di problematiche: su tutte, quella variabile di indeterminatezza legata proprio alla necessità di utilizzare dei non-attori; caratteristica che può influenzare positivamente o meno la riuscita della performance destando sorpresa (o noia), ma anche una reale sincerità interpretativa. C’è sempre qualcosa di aleatorio, uno spazio di pericolo estremo nel quale rischiano di essere tutti fagocitati: gli spettatori divenuti protagonisti, il pubblico rimasto in platea, i professionisti della performance.
Però vi è una possibile ricaduta politica che rende l’approccio del teatro partecipativo uno strumento utile per aggregare comunità di spettatori e per sensibilizzrli rispetto a uno o più temi da condividere. Quando il fattore comunitario assume un peso specifico il teatro partecipativo si lega per natura ad altre forme di teatro sociale. E in effetti attorno a questi due poli che ormai ruota l’agenda dei finanziamenti europei dedicati al settore: audience engagement e pratiche sociali.
Da alcuni anni il fenomeno ha preso sempre più piede e i festival hanno destinato spazi e riflessioni al tema. Nei primi due giorni di Pergine Festival, realtà ultra quarantennale che nelle ultime stagioni ha iniziato a focalizzare lo sguardo sulle performing arts del contemporaneo includendo azioni multidisciplinari e sondando i confini tra le arti (quest’anno hanno trovato spazio drammaturgie sonore site specific e progetti di realtà virtuale), l’attenzione per la cittadina e il suo pubblico è stata evidente: a cominciare dalla contaminazione delle piazze (piazza Fruet con i piccoli appezzamenti di prato, le piante, le sdraio e i pouf per concedersi con comodità gli incontri pomeridiani con gli artisti) o dei palazzi storici, come nel caso della dimora del Conte Guido Crivelli utilizzata dagli artisti del Circolo Bergman per un percorso drammaturgico-sonoro in cuffia che abilmente accompagnava gli spettatori negli spazi e nella storia del luogo. Ma è attraverso alcuni dei progetti teatrali selezionati dalla direttrice Carla Esperanza che emerge una spiccata propensione per il Teatro partecipativo, oltre a quelli che abbiamo potuto seguire, dobbiamo menzionare il lavoro con le adolescenti tenuto da Eleonora Pippo, Le ragazzine stanno perdendo il controllo e le invasioni urbane di Dance Makers.
Un tentativo, andato in scena la prima sera, riguardava proprio la relazione tra un dispositivo dal carattere fortemente internazionale e una piccola comunità di spettatori. Internazionale perché frutto di un progetto europeo portato avanti in Italia dal Festival di Pergine e dal Teatro Dimora di Mondaino con nazioni partner come Grecia e Portogallo. La compagnia lusitana mala voadora ha lavorato per più di un anno su una drammaturgia che potesse interrogare una serie di temi cruciali per la società contemporanea: lavoro, felicità, libertà individuale, crisi della cultura europeista, sovranismo, nazionalismi e altro. Un percorso di ricerca scandito dall’incontro con esperti e studiosi (qui il portale in cui approfondire) che ha infine partorito la scrittura di A manual on work and happiness, ovvero un allestimento che attraverso una serie di elementi distopici vorrebbe farsi luogo di riflessione sociale oltre che teatrale: ma erano evidenti a gran parte degli osservatori presenti nella sala del Teatro Comunale di Pergine tutti i problemi determinati dal format creato dagli artisti portoghesi. Dal punto di vista strettamente drammaturgico una scrittura teatrale, quella di Pablo Gisbert (già autore per El Conde de Torrefiel), fin troppo basica e fredda, nella quale si ha difficoltà a rintracciare la ricerca linguistica e poetica, un affastellarsi disordinato e ipertrofico di temi e questioni in una scansione davvero troppo ingenua rispetto al tentativo di narrazione distopica. Dal punto di vista della resa scenica la scrittura incontrava un paio di lunghissimi monologhi di un’attrice professionista (Clara Setti) e una serie di letture al microfono fatte da non professionisti, i quali, per il resto, spostavano tavoli, muovevano grandi scritte scenograficamente efficaci e urlavano il conteggio di una sorta di cronometro della performance. In questo caso siamo di fronte a un progetto internazionale che ha come ricaduta naturale quella di creare una piccola comunità di persone accomunate dalla pratica teatrale temporanea. Ci spiegano che la risultante positiva è proprio nell’incontro di questi cittadini con il teatro, nel percorso effettuato più che nella resa teatrale finale. E su questo punto, prima o poi, chi si occupa di teatro relativo alle forme partecipative o di teatro sociale dovrebbe darsi il tempo di una riflessione più ampia: troppo spesso capita di assistere a spettacoli in cui si perdono proprio le possibilità di quel processo pur di arrivare al tanto agognato palcoscenico. Il pubblico spesso non ha la fortuna o il tempo di potersi informare o di seguire un lungo percorso, ma può sedersi in platea rimanendo all’oscuro di qualsiasi “precedente”. È chiaro che in questa permeabilità dell’evento spettacolare rispetto al processo che lo ha messo in moto si gioca gran parte della questione.
Si smarca da tale difficoltà M2 di Dynamis, l’esperimento del collettivo diretto da Andrea De Magistris pesca tra il pubblico in una fase subito precedente la performance, prima di entrare in sala. Non c’è insomma un percorso, tutto avviene nel pericolosissimo spazio di quei cinquanta minuti in cui qualsiasi cosa può accadere, perfino un ammutinamento degli stessi partecipanti. I volontari devono coabitare uno spazio di 1 metro quadro, un fazzoletto di prato che diviene sempre più sproporzionato man mano che comincia ad essere occupato dai corpi. Una voce dalla regia scandisce i tempi e, in collaborazione con l’unico performer professionista presente, detta i ritmi e le prove alle quali questa piccola tribù dovrà sottoporsi. L’ironia iniziale mette in chiaro il gioco ed evidenzia la netta cesura tra le due comunità: quella degli spettatori fortunati – che non corrono alcun rischio – e quella dei 7 volontari; questi lentamente scivoleranno verso gli ambigui territori di uno spietato gioco di potere. Il performer di Dynanis, Francesco Turbanti, trasforma lentamente (con abilità, rigore e passione) il sorriso beffardo in un’inquietante smorfia da cinico carceriere: le prove diventano sempre più dure fino a valicare anche il limite rappresentato dal contatto tra lui e gli spettatori, fino a rischiare la loro messa in ridicolo.
C’è un equilibrio precario, ma, anche per questo, affascinante, nel meccanismo teatrale creato da Dynamis: mentre una macchina spara un forte vento a pochi centimetri dai corpi e il torturatore si appresta a bagnarli con un vaporizzatore, uno spettatore seduto nella tranquilla platea afferma sottovoce: «noi stiamo ridendo, ma per loro è tragico». Si vive, dicevamo, un’atmosfera di pericolo continuo, la possibilità che tutto possa avvenire. Anche lo scambio tra le due comunità torna a non essere un tabù quando la voce off chiede al pubblico se qualcuno abbia voglia di prendere il posto di uno dei malcapitati. Silenzio, ma non eravamo noi quelli solidali? Qualche movimento impercettibile, forse in molti stanno dicendo a se stessi che in fondo quegli esseri umani non corrono nessun reale pericolo. Poi c’è un altro momento in cui questa piccola tribù potrebbe, se volesse, mandare a monte l’esperimento teatrale, ribellandosi all’aguzzino che si mette in disparte a prendere il sole. Negli occhi di una ragazza, la più giovane, appare un’ombra di sedizione, ma la rivolta non riesce ad accendersi: i sette protagonisti dopo essere stati appiccicati l’uno all’altro nello spazio angusto di un metro quadro, dopo aver eletto un capopopolo subito detronizzato dall’esterno, dopo aver sofferto prima freddo e umidità e poi caldo torrido non si rivoltano ai loro creatori, preferiscono non macchiarsi della colpa più infamante: fermare lo spettacolo, mandare in frantumi il monolitico “the show must go on”.
E da dentro è tutta un’altra cosa, diceva la spettatrice: migrazioni, potere, solidarietà, ribellione; sono temi che qui acquisiscono la possibilità di essere avvicinati attraverso una sorta di realtà aumentata. Questioni che vengono misurate e sondate attraverso il corpo con una percezione dunque diversa da quella della spettatorialità passiva. Un equilibrio delicatissimo che forse è il cuore del discorso, di una poetica che però non dimentica chi è in sala, non dimentica in definitiva, prima di farsi partecipativa, di essere teatro.
Andrea Pocosgnich
Luglio 2018, Pergine Festival
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Short Theatre 12. Il pubblico in azione
A MANUAL ON WORK AND HAPPINESS
mala voadora con la comunita’ di Pergine
ideazione del manuale e regia Jorge Andrade
aiuto regia Maria Jorge
testo Pablo Gisbert
scenografia e oggetti di scena José Capela
elaborazione delle immagini António MV
disegno luci Rui Monteiro
in scena Clara Setti e un gruppo di partecipanti di Pergine e dintorni: Serena Beber, Andrea Bombasaro, Nicole Carpentari, Clarissa D’Alberto, Francesca Dellai, Donatella Di Giorgio, Giovanni Di Bernardo, Silvia Gadda, Alessandro Marcotullio, Giuseppe Mattivi, Laura Mosna, Masha Mottes, Fernanda Piva, Pierluigi Sartori, Saverio Sculli, Monica Vianello, Paulo Vasconcelos
M2 (IN 50 MINUTI)
ideazione e realizzazione Dynamis
regia, drammaturgia e azione scenica Andrea De Magistris, Giovanna Vicari, Francesco Turbanti
comunicazione visiva Studio Co-Co
produzione Dynamis – Teatro Vascello Centro di produzione teatrale La fabbrica dell’attore
in collaborazione con Pergine Festival, Tenuta Dello Scompiglio, Off Off Theatre, Altofest – international contemporary live art, Armunia-Castiglioncello