Lucia Calamaro scrive e dirige Si nota all’imbrunire, in prima nazionale al Napoli Teatro Festival 2018. Con Silvio Orlando. Recensione
S’immagini di stare seduti su di un piccolo muricciolo, senza altro attendere che il calare del sole per la strada che compie ogni giorno, prima di scomparire alla vista. S’immagini di stare, privi di una concentrazione che rende il gesto innaturale, nella quiete di un pomeriggio tardo che precede la sera, della quale non si ha che il vago sentore. S’immagini l’attesa fintamente distratta di cogliere quell’ultimo bagliore a una discesa sempre promessa e mantenuta, ma ogni volta avvertire, appena un momento dopo, di aver mancato l’appuntamento con l’apparizione di qualcosa, finché il sole ormai già non è più. È in questa sensazione che racchiude l’intero corpo di uno spettacolo magnifico, scritto e diretto da colei che fa sperare ormai saldamente che la scrittura teatrale competa ancora e di nuovo con le alte sfere della rilevanza culturale: Lucia Calamaro, autrice di Si nota all’imbrunire, presentato in prima nazionale al Teatro San Ferdinando per il Napoli Teatro Festival 2018.
Ci troviamo in una casa di una campagna sperduta, dove un uomo (Silvio Orlando) in là con gli anni si è ritirato, dopo la morte della moglie. È il giorno del suo compleanno. I tre figli e il fratello l’hanno raggiunto per la doppia celebrazione che conterà anche la cerimonia funebre in onore della donna scomparsa. Siamo al mattino di un sabato qualunque. L’uomo in vestaglia da camera ha scelto la sottrazione, combatte la sua intima battaglia silenziosa secondo due principi basilari, maniacali: stare sempre da solo e stare seduto per sempre. Sempre. Ricorre un avverbio come una pena da scontare. Eterna. Perché la casa è animata da una presenza familiare ormai difficile da integrare alla solitudine scelta, pertanto l’uomo fa resistenza al contatto, consapevole che «da quando sto da solo tutta questa frustrazione non la sento più: ci vogliono gli altri per farti sentire veramente triste». Eppure, qualcosa nella ricorrenza degli umani attorno risuona, non già un legame parentale ma un desiderio recondito di condivisione inespressa, che a strappi malcelati effonde e si rivela. «Mi resto io. E non mi basto». Dirà l’uomo. Denunciando di sé – e degli uomini tutti – l’impossibile di riconoscersi nell’assenza degli altri, ma così chiamando a un vincolo che sia però vero, sensibile e complice di alto e basso, di gioia e strazio.
Il verde e l’azzurro delle pareti degradano nel bianco, meglio, in virtù del bianco opaco che ne rende l’essenzialità in una sfumatura di evanescenza; la struttura della scena (di Roberto Crea, ma animata dalle luci di Umile Vainieri) ha una geometria rettangolare e solo un arco in secondo piano, introduce spazi da grandi aperture lasciando a centro palco non più che poche sedute esili a scomparsa, quasi stilizzate. E soltanto qualche libro e un piccolo stereo, in una colonna laterale. L’uomo, in casa sua, fa conto dell’assenza dei presenti, per non cedere – solo e imbrunito – alla presenza degli assenti: una figlia permalosa e noiosa, con l’ossessione di mettere in ordine (Maria Laura Rondanini); l’altra figlia insicura che scrive versi ma che si scoprono ogni volta copiati da grandi poeti (Alice Redini); il figlio maschio molle e divorato dall’ansia da prestazione filiale (Riccardo Goretti); infine un fratello citazionista e nostalgico, colto da un lieve stato di esaltazione, a tratti folle e a tratti invaso da una coscienza razionale filosofica (Roberto Nobile). La riunione di famiglia ha i caratteri, per ognuno, di una misura della propria esistenza, un forse imprevisto appuntamento di formazione attorno a un compleanno festeggiato in silenzio, senza neanche canticchiare l’usata “Tanti auguri” perché banale, ma poi rinnovato in disparte accendendo e soffiando molte volte la stessa candelina.
La messa in scena – in due atti: al compleanno succede la commemorazione funebre, il verde-azzurro si staglia poi su uno sfondo di giallo tenue – gode di uno stato di sospensione entro cui i concetti riescono a stare con una brillantezza che non mostra eccessi di complessità, veicolata da attori in una forma straordinaria e in grado, grazie anche al sapiente uso degli “a parte” in una quarta parete appena socchiusa, di tenere in equilibrio ironia e dolore, consapevolezza e alterazione, densità poetica e leggerezza.
L’insofferenza è, dunque, sofferenza, per l’uomo e chi lo contorna. Ma l’iniziale sensazione di cinismo e negazione degli affetti – dal ripostiglio di una solitudine che gli fa dire «il mio paese interiore è decisamente privo di abitanti», o un sontuoso ma lapidario «il futuro di ieri è oggi: per questo ti scoraggi» – pian piano rivela un bisogno crescente di contatto e di attenzione; è in virtù di questo che Lucia Calamaro segnala il proprio alto valore intellettuale, ormai solido e consapevole: a una speculazione filosofica del quotidiano si mescola un’indagine esistenziale più ampia, capace di mettere a fuoco, maneggiando uno scandaglio psicologico, il dissidio di profondità tra la solitudine e una relazione mille volte rifiutata, mille volte ancora desiderata.
Simone Nebbia
Teatro San Ferdinando, Napoli Teatro Festival – Giugno 2018
SI NOTA ALL’IMBRUNIRE
(solitudine da paese spopolato)
di Lucia Calamaro
con Silvio Orlando
e con (in ordine alfabetico) Riccardo Goretti, Roberto Nobile, Alice Redini, Maria Laura Rondanini
scene Roberto Crea
costumi Ornella e Marina Campanale
luci Umile Vainieri
regia Lucia Calamaro
produzione Cardellino srl
in coproduzione con Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia
Spettacolo presentato nell’ambito del protocollo d’intesa tra Napoli Teatro Festival Italia e Festival dei Due Mondi di Spoleto.