Federica Santoro e Luca Tilli, forti di quasi dieci anni di collaborazione, stanno lavorando da circa un anno a un ambizioso progetto di ricerca su L’Anitra selvatica di Henrik Ibsen. Un assalto al testo, una profonda sperimentazione su suono, spazio, corpo e parola, che prende forma come progetto modulare. Abbiamo incontrato Federica Santoro per un’intervista.
Lo scorso 23 maggio abbiamo visto all’Angelo Mai Altrove Occupato di Roma il primo studio del progetto L’ A N I T R A S E L V A T I C A – “I sommersi”, curato da Federica Santoro e Luca Tilli e presentato in anteprima a Fabbrica Europa 2018. Il 6 e 7 luglio sarà ad AltoFest a Napoli. Un palco spoglio e disordinato, senza un centro, esploso in piccoli focolai di vita, fotografata in ultimo guizzo prima della fine. I corpi e le voci di Federica Santoro e Gabriele Portoghese e il violoncello di Luca Tilli abitavano questo spazio trascinandosi da una sedia all’altra, attraversando coni di luce e scomparendo a tratti in un buio pastoso; nell’aria, un suono tormentato e continuo; il testo di Henrik Ibsen scarnificato e maltrattato, ora ridotto a elenchi atonali, ora frammentato e mutilato della propria linearità.
Della complessa trama, che articola in cinque atti i complessi rapporti tra i personaggi in un arco temporale lungo quindici anni, si potrebbe facilmente cogliere i tratti essenziali leggendo qui, ma non basterebbe a far immaginare la vertiginosa curva di senso percorsa dal lavoro dei due artisti, impegnati a sottolineare tutti i modi sinistri in cui il genio norvegese, nel 1884, faceva detonare i cliché della ricca borghesia nord-europea lanciando in tutte le direzioni schegge di severo giudizio. Santoro e Tilli stanno dando a questo progetto una forma profondamente rizomatica, in cui un frammento si lega ad altri, ma ne lascia volentieri altri indietro, a perdersi in una confusa memoria.
Per capire qualcosa di più mi sono fatto invitare a casa di Federica Santoro, che mi ha accolto al suo tavolo da lavoro, in un ampia living room con angolo cucina, intrisa di profumo di caffè appena tolto dai fornelli. Abbiamo trascorso insieme un denso pomeriggio, per scoprire i prossimi schemi di questa complessa architettura, in questi giorni ricostruita in una forma ancora nuova all’AltoFest di Napoli.
Da dove è venuta l’idea di questo progetto?
È cominciata così: io e Luca Tilli stavamo facendo degli esperimenti primari sul suono della voce, sul suono concreto, musica e azione scenica, senza un particolare tema. Appena arrivato il testo di Ibsen ci siamo resi conto che il tema era la complessità dell’uomo. Ho subito riconosciuto in questo testo e in quelle parole una grande qualità contemporanea; da subito ne ho abusato dandogli quella secchezza e quell’andamento ritmico. In effetti non sai mai che cosa può succedere quando giri pagina, non sai se stai leggendo una commedia o una tragedia, perché è una vicenda cupa ma piena di umorismo, le gag convivono con argomenti molto viscerali.
Raccontare questo progetto è complesso, si può prendere davvero da vari punti di vista, perché è molto complessa la scrittura di Ibsen. Il primo quadro, I sommersi, ha una propria compiutezza e sarà staccato da questo secondo quadro che non sappiamo bene che forma avrà, saranno due mondi molto diversi anche nell’attività scenica e nell’immaginario.
C’è una frase di Paul Valery che mi risuona dentro: «Il profondo è la pelle»; c’è molto di questo lavoro, che ha a che fare con la levità, di cui tutto il progetto è disseminato. Evoca la materia che scivola su un tessuto, come un sipario. Proprio come la pelle del corpo, che è sempre in contatto con gli organi interni e riverbera di essi, ma non va dentro. E questa levità è anche il modo di procedere nella creazione di questo progetto.
Come avete dato forma a questa molteplicità di piani?
La complessità sta nel linguaggio tecnico, ma anche nella struttura, perché la vicenda si snoda in quindici anni, in cui gli avvenimenti si svolgono quasi in contemporanea; ci sono più strati in cui si svolge l’azione: un piano sonoro, uno visivo, uno fatto di azione scenica, in uno spazio per lo più vuoto. Ad agire lì non sono personaggi, sono piuttosto degli enti che agiscono degli argomenti.
E questa ambiguità culmina nell’ipotesi finale: «Inizierà un’altra epoca segnata da un’altra tragedia». In quasi tutte le sue opere Ibsen ci fa sentire colpevoli di questa mancanza di memoria storica. Io credo che l’arte debba dare dei segni che non devono imporre giudizio o opinione su chi la riceve; abbiamo depositato dei nostri gesti nello spazio e nel tempo per lasciare che agissero nel loro operare anche staccato, nel loro ritmo. Stiamo davvero lavorando in un modo compositivo, vicino all’improvvisazione musicale, perché il senso di quest’opera e di chi siamo noi arriva attraverso questo alternarsi di azioni sonore, performative, testo e voce e nello stratificarsi di queste materie.
Abbiamo sempre tentato di far convivere in un modo organico più materie insieme, lasciandole anche nel vuoto. Questo primo quadro si nutre di un’azione precisa, quella del “disertare la scena”, disertare la parola nella sua chiave psicologica, lasciandola piuttosto vivere esattamente per quello che è, nelle sue vibrazioni dentro lo spazio, per vedere che succede quando arriva al pubblico. Agiamo sempre per esperimenti, perché credo che non ci sia un desiderio di rappresentare: io non mi sentirei onesta con me stessa a mettere in scena un Ibsen in un modo che non sono io, che non è quel che mi circonda, soprattutto in un’epoca in cui si parla sempre di sé, io non voglio esprimere giudizi, ma invece un gesto artistico può riverberare senza opinioni e può essere anche più grande di quello che è.
Che tipo di parola e di semantica sono quelle di Ibsen?
Chi agisce in scena non sono dei personaggi – Ibsen sembra dipingere quadri impressionisti, non vedi bene il colore, perché ognuno ha bisogno del colore dell’altro. Se in Shakespeare ci sono picchi di vera poesia che si possono staccare dall’opera, sembra che Ibsen non consideri quella poesia: il risultato poetico è il risultato finale. Lo spettatore torna a casa e pensa: “Che cosa ho visto?”. Ecco, questo è molto contemporaneo. È complesso perché si svolge in un tempo molto lungo in cui ognuno è segnato dalla propria vita. E allo stesso modo questo progetto, che ha una lunga gestazione, subisce continue variazioni, anche se quello che si vede è millimetricamente programmato. Si agisce come degli aliquid, è un termine coniato da Deleuze ne La logica del caso. Il teatro sembra più delle altre arti il luogo in cui devi per forza esplicitare il senso di quello che stai facendo, perché ci sono le parole. E allora le parole devono spiegare. Invece il nostro intento è quello di non spiegare. Per questo è difficile parlare di questo progetto, perché è fatto di sensazioni istantanee: c’è sempre un’altra cosa. Questo aliquid, quel qualche cosa che fa rimbalzare le vibrazioni di quello che succede, è molto lieve, scorre su questo sipario pieno di pieghe, zone d’ombra e grandi curve e non è fatto di identificazione o psicologismo. È chiaro che nello studio di una materia anche scritta a un certo punto si fanno i conti con delle parole. Ma è molto importante capire come la parola sia per sé rilevante e portatrice di senso, anche nel suo andamento ritmico. Credo non abbia bisogno della mia contrazione psicologica per vivere, posso lasciarla libera, maltrattarla o divertirmici molto.
Pensi che oggi queste potenzialità del teatro siano valorizzate?
Penso che il teatro sia pieno di pregiudizi. Il teatro è diventato il brutto anatroccolo dell’arte, perché mi sembra sia il luogo in cui si deve spiegare, cosa che non accade in altre arti: la musica o l’arte visiva hanno una grande libertà di espressione. Anche il lavoro dell’attore è stato sacrificato da tutte queste imprese televisive, che appiattiscono e impoveriscono invece lo spettacolo dal vivo di una essenza che – chiaramente non in tutti – nella maggior parte dei casi toglie potenza al teatro. Perché il teatro è fatto per essere visto dal vivo. Credo che proprio questo impoverimento del lavoro dell’attore porti gli spettatori alla noia. Io non vado tanto in cerca di un’originalità, quanto di un invito lanciato dal teatro a fare come si vuole, perché non ci sono regole nel teatro. Tra i pregiudizi, c’è anche quello nei confronti di Ibsen. Quel nome già identifica un colore, un certo tipo di scrittura… invece proprio di questo mi sono subito dimenticata, perché è invece molto importante cogliere l’essenza delle cose. È come se in scena diventassimo tramite di qualche cosa che si trasforma mentre compie il percorso per raggiungere il pubblico.
Hai usato l’aggettivo impressionista per definire Ibsen.
In questo testo è molto visibile. Per esempio compare, come luogo, una soffitta, all’interno della quale uno dei personaggi, Ekdal (un vecchio cacciatore, ora quasi indigente), si è costruito una selva: ci sono alberi, conigli, colombi e un’anitra selvatica. E lui va a caccia lì. Ecco che questo luogo non è né soffitta né selva, ma un aliquid. Le anitre hanno la capacità di togliersi la vita, si trascinano sul fondo del mare e si affogano: l’anitra del titolo è stata salvata; anche lei è un aliquid, è una non-morta, una creatura resuscitata e salvata contro la propria volontà, non ha potuto scegliere una vita propria. Allora la frontalità che imporrebbe una rappresentazione decade, mandandoci alla ricerca di questo mistero, a cui non c’è una soluzione: tante porte possono aprirsi, in ogni parola detta o meccanismo messo in moto cambia l’ordine semantico dei discorsi.
In questo lavoro c’è stata anche la collaborazione (oltre a Gabriele Portoghese, alla costruzione degli elementi scenici di Marina Schindler, alle luci di Dario Salvagnini) anche del pittore Ettore Frani. Quando ho visto le sue opere ho scoperto una serie intitolata I sommersi, che ha poi dato il titolo a questa prima parte di lavoro.
In questa prima parte, a un certo punto la scena si riempie un po’ di più, entra questo quadro – un altro aliquid – dipinto con tecnica iperrealista, tramite cui riconosci chiaramente quello che è dipinto, qualcosa di molto materiale, sembra quasi che esca dal quadro. Ma allo stesso tempo non è niente: riconosci la materia come possibilità, ma non è un lenzuolo, non è un’anitra, non è un animale, ma non puoi non guardarlo. Ancora siamo dentro questa logica che tende a disertare la rappresentazione.
In che modo state sfruttando la vis contemporanea di questo testo?
Durante l’andamento di questo primo quadro, sembra tutto molto lontano, ci si avvicina e si arriva a un dialogo tra questi due enti, che si confrontano tra loro in modo molto duro. Chi porta argomenti in modo molto ideologico, che si fa forte della propria altezza data dalla ricchezza, ad esempio. Ma alla fine di questo dialogo, che finisce molto male, si chiude il quadro. Tutto tendeva a questo confronto, che chiude il quadro. È un continuo confronto tra modi di pensare, tra epoche che da lontano si parlano usando le stesse terribili parole e ristrettezze mentali: attraverso la storia di una famiglia si parla della storia di un’epoca. Ma gli argomenti sono sempre quelli, anche oggi: non ci si capisce e ciascuno porta avanti la propria piccola ideologia: denaro, alta morale. C’è sempre una morale comune che abita un’epoca, di cui ciascuno si appropria per comporre la propria piccola morale. In questi mesi possiamo vedere anche noi come, in pochi anni, un pregiudizio possa diventare un modo di pensare e poi venire integrato in un pensiero politico che addirittura va al governo. Una delle questioni è come il pregiudizio sia uno dei peggiori mali della società. Sono questioni che arrivano attraverso queste parole. Non vogliamo dire questo, ma mentre parliamo stanno succedendo cose molto brutte in questo paese, dunque è ovvio che il pensiero va lì. Però mi piacerebbe che chiunque veda quello che facciamo possa raccontarlo in un modo differente come, per esempio, guardando un quadro di Lucio Fontana, ognuno lo rielabora come vuole. È quello che porta il testo a essere attuale, un testo-mondo universale che potrà vivere ancora molto o forse proprio finché va avanti l’umanità.
Qual è lo spazio produttivo per un progetto come questo?
È un momento molto difficile, lo sappiamo. La logica dei bandi mi portava a un’impossibilità di parlare e raccontare questo testo. Oggi possiamo invece parlare di più del nostro lavoro, grazie a questa materia che ha accolto questa complessità e stratificazione. Questa prima parte è indipendente, per fare davvero come ci aggradava. Veniamo da una residenza a Foligno (nel 2017) e poi una a Fabbrica Europa, che ha prodotto il primo quadro. Continueremo anche con Short Theatre, lavorando su altre parti con altre persone, ma per portare avanti il lavoro c’è ovviamente bisogno di interventi produttivi. Perché oggi sta cambiando tutto. Potrei anche decidere di fare semplicemente uno spettacolo, ma mi interessa di più iniziare un progetto che germogli in più settori. E che però ha bisogno di sostegno. E non sono l’unica a intraprendere questa strada, è un livello di produttività molto diffuso, in cui persone portano avanti una progettualità su un tempo lungo. E sono contenta di aver avuto la possibilità di prenderci un anno per ragionare su questo primo quadro; ma è chiaro che questa progettualità, come altre, dovrebbe trovare un modo altro per essere sostenuta. Anche perché, con la normativa FUS, abbiamo davanti tre anni in cui non si può più accedere, restando quindi fuori dalle progettualità che riguardano il lavoro. La progettualità è uno dei temi più caldi. L’andamento del tempo, le durate, cambiano completamente le radici del lavoro. Io vengo da un periodo in cui (da Thierry Salmon a Leo De Berardinis o penso a Giorgio Barberio Corsetti su Kafka), si erano creati dei gruppi di lavoro. Ci sono ancora, ma la sofferenza è talmente evidente che ci si barcamena per produrre spettacoli in venti giorni. E allora, se vogliamo parlare di contemporaneo, proprio di questo c’è bisogno: di questo tempo, di sperimentazione reale (non quella tanto per fare qualcosa di strano), che contenga un’essenza primaria per un lavoro artistico.
Sergio Lo Gatto
L ‘ A N I T R A S E L V A T I C A – liberamente ispirato all’opera di H. IBSEN – primo studio
“ i Sommersi”
a cura di Federica Santoro e Luca Tilli
regia e adattamento drammaturgico Federica Santoro
musiche Luca Tilli
scene Marina Schindler
disegno luci Dario Salvagnini
performers Federica Santoro , Gabriele Portoghese, Luca Tilli
collaboratori artistici Ettore Frani e Paola Feraiorni
Il quadro in scena , del ciclo “ I Sommersi” è del pittore Ettore Frani