Nel mezzo di questa densa estate, abbiamo visitato Civitanova Danza. Uno sguardo a tre coreografie.
Giunto alla sua 25esima edizione, con debutti assoluti e non, presentazione di libri e stage per ballerini affidati alla Scuola di Ballo Accademia del Teatro alla Scala, Civitanova Danza 2018 (7 giugno-11 agosto), festival marchigiano posto sotto l’egida del grande didatta Enrico Cecchetti (1850-1928), riserva ogni anno almeno una giornata intensiva. Tre spettacoli (talvolta quattro) in teatri diversi della ridente cittadina sul mare e l’ultimo collocato lassù, nella Città Alta, sede dell’Annibal Caro, preziosa bomboniera sorta nel 1872, restaurata più di un secolo dopo, e riconquistata come sede di debutti “a sorpresa”.
Avrebbe dovuto essere tale anche Farde-Moi (truccami/ingannami dal francese farder) della compagnia franco-italiana MF di Maxine Freixas e Francesco Colaleo, entrambi anche interpreti, assieme ad altri tre danzatori, di una pièce a dir poco sconclusionata. Peccato per la curiosa e accattivante immagine d’insieme – tutto bianco, anche le tute indossate dai ballerini e bianchissimi i copricapo a cespuglio, simili a giganteschi fiocchi di neve, o appunto a cespugli innevati. Ma, oltre al primo quadro che li vede assiepati in modo da formare un grande e misterioso “batuffolo” niveo, non si va.
O meglio: si va nella direzione di una fastidiosa anarchia scenica, ove tutti provano a dire la propria, a mostrarsi come ballerini accademici, ad esprimersi anche in lingua inglese, ma portando un testo che vorrebbe seguire con tonalità leggere, grottesche e ridanciane il fil rouge “di un percorso verso la consapevolezza di sé; una storia di crescita, maturazione, di riconoscimento della propria identità, della propria unicità”, come si legge nelle ambiziose note del programma di sala.
E invece non ci riesce, ignorando le più elementari regole del rapporto con lo spazio, dei danzatori tra di loro, del tête à tête con la musica; soprattutto la necessità di un pensiero in grado di tradursi in corpo e ritmo. Siamo lontani dalla coerenza e originalità linguistica e coreografica del De rerum natura di Nicola Galli: solo un anno fa offrì proprio a Civitanova Danza una sorpresa preziosa, confermandosi tra i giovanissimi autori di danza più interessanti e consapevoli di oggi.
Se uno spettacolo, forse ancora embrionale come Farde-Moi, non pregiudica la fortuna di un festival, stupisce semmai la reazione del pubblico nel suo magari stanco o gentile applaudire: chi e che cosa non si sa.
La danza contemporanea, o presunta tale, conquista sempre immeritati favori: il problema della formazione degli spettatori sopravanza persino quello dell’individuazione di chi può essere autore di danza e possiede questo dono innato, cui serve solo qualcuno in grado di stanarlo. Per fortuna, con estrema semplicità e senza sbandierare inutili “filosofie” esistenziali, il gruppo portoghese/francese Plan-K, fondato nel 2014 da Filipe Lourenço ha mostrato, in Homo Furens (2016) al Teatro Cecchetti, come marce, esercizi ginnici, traiettorie di guerra complicate da ponti umani da scavalcare o sui quali passare in equilibrio, possano tramutarsi – in un palco vuoto, tra luci pressoché invariate – in un esercizio coreografico più che corretto.
Bandita ogni spettacolarità, e la musica che Rudolf Laban riteneva una stampella per il movimento, eccoci a registrare ogni singolo respiro dei cinque danzatori in non-costumi (abbigliamento casual-comodo), a osservare il sudore grondante dalle loro non certo finte fatiche, ad ammirare quei piccoli, ironici ammiccamenti che ogni tanto trapelano – una testa sbucante da un gamba piegata, uno spilungone acceso dal desiderio di sovrastare gli altri, certe complicate concatenazioni di braccia, teste e gambe – con quella malizia nella quale fa ogni tanto capolino la competizione maschile.
Non a caso a lungo complice del folklore arabo-andaluso (folklore, in genere, dispensatore di molta saggezza compositiva), Filipe Lourenço soprattutto stupisce per come sa organizzare con ritmo e musica interiori il proprio percorso apparentemente “solo” ginnico. Ma la fisicità di Homo Furens, la sua prima coreografia per Plan-K, è qui al servizio di consapevolezza: nello spazio perfettamente calcolato – fondale, proscenio, diagonali, serpentine – al vuoto s’aggiunge il pieno e viceversa, e alla ripetizione si sa dare accenti sempre nuovi, con mirabile naturalezza che il coreografo chiama “ossessione”; e non osiamo di certo contrastarlo, data la perseveranza con la quale sprona i suoi “guerrieri” a non perdersi d’animo (magari si fermano a riposare: è permesso) e a “sopravvivere” nelle composizioni più intricate.
Altro il carico di One.One&One dell’israeliana Noa Wertheim, al Teatro Rossini, per la sua Vertigo Dance Company.
Tre volte ospite del Napoli Teatro Festival Italia, il gruppo di Gerusalemme si fece conoscere con Reshimo (novità nel 2013), titolo tratto dalla Kabala (traducibile in “reminiscenze del passato”) e il precedente Mana del 2009 (ovvero, forza soprannaturale), entrambe proposte quasi sul mare in un’indimenticabile cornice con luna a spicchio di limone, onde calme e scintillanti, un palco tutto aperto dal fondale a cartolina illustrata, con i piccoli ed eccitati bagliori intermittenti di una Posillipo lontana.
Suggestivo anche l’incipit di One.One&One: sul palco del Rossini coperto di sabbia un interprete trasporta altra sabbia e la sparge qua e là, mentre una ballerina si esprime in un fantastico cambré e un collega s’inerpica con le sole braccia su su verso il cielo. Gli interpreti però sono nove, tutti belli, tecnicamente perfetti, di invidiabile eleganza e flessuosità (si vede che lavorano in allungamento e il metodo “Gaga” di Ohad Naharin non è lontano…) e divengono particolarmente attraenti quando in gruppo accendono il folklore jiddish, sprizzano salti concitati e corse in cui i costumi – camicia chiara e pantaloni scuri per tutti -, si sporcano di quella sabbia che insistono a gettare a terra, sollevando un polverone. Ma One.One& One contempla anche una serie di passi a due – uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo (amore, gelosia, combattimento? Chissà, la pièce non è narrativa ma evocativa di stati d’animo), mentre gli altri interpreti se ne stanno seduti su muretti bassi, laterali.
Questo alternarsi di gruppo e coppie circa a metà della pièce crolla in una ripetizione stereotipata e di maniera, in un alleggiar di braccia e movimenti di una Modern Dance nota, che lascia qualche amaro in bocca. La ricerca dell’altro, il mettersi alla prova nella collettività (i desiderata nelle note di sala) qui contrasta con la prima parte promettente, carica di fascino, di piegamenti in due dei corpi con accenni a un dolore che si lascia portar via a corpo morto, sollevato da braccia altrui. Pur con questi limiti linguistici, One.One&One (2017) è senza dubbio la migliore coreografia di Noa Wertheim cui abbiamo assistito: nel venticinquesimo anniversario della fondazione della sua compagnia (25 genetliaci come quelli di Civitanova Danza), c’è un fremito in più, una tensione a fior di pelle e un ardire chic, che per alcuni e non pochi momenti, ci lascia senza fiato.
Marinella Guatterini