Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 79 esplora antiche tradizioni pitagoriche individuando alcune metafore teatrali.
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Nel numero 79 prosegue la ricerca all’interno delle tradizioni antiche e ellenistiche del pitagorismo su possibili rimandi alla sfera teatrale esplorandone qualità positive e negative.
In un precedente appuntamento, avevamo appurato come l’unica testimonianza utile per attribuire al pensiero di Pitagora una componente “teatrale” o artistica fosse la testimonianza di Eraclide Pontico sull’incontro tra il filosofo e il tiranno Leonte di Fliunte. Il primo avrebbe cercato di spiegare al secondo che cosa fosse la “filosofia” usando una metafora della vita come una fiera. Una serie di ragioni hanno indotto però a concludere che il racconto di Eraclide è molto romanzato e non ha probabilmente valore storico, dunque che il pensiero di Pitagora non aveva una componente teatrale o artistica. Non abbiamo, dopo tutto, alcun testo che permetta di trarre questa forte affermazione. D’altro canto, una dimensione teatrale e artistica può essere ricondotta al Pitagorismo successivo.
Una prima prova in tal senso è fornita da Aristosseno. Secondo questo autore, i Pitagorici che gli erano contemporanei o poco precedenti (= quelli del IV-III secolo a.C.) ricorrevano alla musica per purificare le anime dai loro mali. In questo senso, l’arte assolve per loro una funzione “catartica”, analoga a quella che la medicina esercita sul corpo. Tale credenza resterà viva nel Pitagorismo, come dimostra il caso del neopitagorico Diotogene, che nel trattato Sulla pietà riconosce ancora il potere calmante/lenitivo delle melodie e aggiunge che gli antichi legislatori lo introdussero nel curriculum educativo, in quanto strumento di conservazione della concordia civica. Se infatti l’individuo sarà ordinato nel privato, lo sarà altrettanto nella sfera pubblica e la città resterà salva, al sicuro da infrazioni interne.
Un’ulteriore conferma della componente teatrale del Pitagorismo di IV-III a.C. è reperibile nel pensiero di Filolao, che pare paragonasse i moti dei pianeti a un “coro”, dunque a uno spettacolo di danza che la natura mostra a chi lo vuole osservare. Questo rilevamento ci permette di supporre che la metafora della vita-fiera di Eraclide Pontico potrebbe essere derivata della dottrina di questo o di altri Pitagorici antichi, presso i quali egli aveva dopo tutto studiato, prima di diventare discepolo di Platone. La base documentaria molto esile invita, però, a prendere anche questa supposizione con assoluta prudenza esegetica.
La testimonianza di Giovanni Lido menziona poi l’esistenza in Magna Grecia di alcuni Pitagorici drammaturghi (Rintone, Scira, Bleso), che educarono con i loro insegnamenti i propri conterranei. Non possiamo purtroppo sapere se essi comunicassero i loro ammaestramenti attraverso le opere teatrali. O quanto meno, i frammenti che ci sono pervenuti non manifestano alcun contenuto edificante e filosofico. Poiché però vedremo in seguito che vi furono in effetti dei filosofi-drammaturghi che veicolavano idee attraverso le opere teatrali, come Ione di Chio, non possiamo nemmeno escludere la possibilità.
È tuttavia con i Pitagorici ellenistici che la componente teatrale si fa più pronunciata. In età ellenistica, infatti, si osserva il curioso fenomeno dell’attribuzione di alcuni scritti apocrifi o falsi d’autore a illustri membri dell’antico circolo di Pitagora, in cui i riferimenti al teatro sono abbastanza frequenti. Possiamo rilevare qui due interessanti elementi comuni che hanno qualità teatrali.
Il primo è di natura positiva e consiste nell’uso delle metafore del coro / dell’armonia musicale per indicare l’ordine a cui si conforma il cosmo e a cui l’essere umano si deve a sua volta conformare se vuole condurre una vita felice. La declinazione cosmica di tale paragone è esplicitamente posto nel trattato Sul dio e sul divino che in età ellenistica era attribuito a Onata, ossia a uno dei discepoli di Pitagora menzionati da Giamblico. Il testo ricorre alla metafora del coreuta per difendere il politeismo, o meglio una dottrina teologica che vuole che esista un Dio sommo e che governa tutto, assistito nella sua attività provvidente da alcuni dèi minori. Come i coreuti non possono realizzare la danza corale in assenza di un corifeo che prescriva loro cosa fare, così queste divinità inferiori non avrebbero modo di esercitare la loro provvidenza sul mondo, qualora non esistesse la divinità superiore che orienta le loro capacità verso questo fine comune.
L’applicazione della metafora del coro / dell’armonia al consesso umano si rinviene, invece, in altri due testi pitagorici. Da un lato, abbiamo il trattato Sulla felicità della casa di Callicratide, che intende regolamentare il rapporto coniugale. Il testo consiglia alla donna sposata di pensare che la famiglia sia come un coro, in cui le parti fanno riferimento a un comandante migliore per autorità e sapienza (= il padrone di casa), in vista del fine comune della concordia. O ancora, le propone un paragone con il cantore. Come questi cerca uno strumento musicale adatto alle proprie capacità e insieme la giusta proporzione della voce (= una né troppo acuta né troppo grave), così la donna sposata deve scegliersi un marito adatto al proprio animo e a cui possa obbedire sia nella buona che nella cattiva sorte. Dall’altro lato, è interessante menzionare l’Epistola a Callisto attribuita (di nuovo, falsamente) a Teano, descritta dalle fonti antiche ora come la moglie, ora come la figlia di Pitagora. Qui ritroviamo il paragone con lo strumento musicale, seppure stavolta applicato al rapporto tra la padrona di casa e la sua schiava. “Teano” consiglia alla prima di non trattare la seconda né con troppa condiscendenza, cioè perdonandole tutti gli errori e compromettendo così la sua autorità, né con troppa crudeltà, che ha l’unico risultato di indurre la serva a fuggire di casa o persino a commettere suicidio. La soluzione è, appunto, la via di mezzo, paragonabile alla retta proporzione di una cetra in cui le corde non sono eccessivamente allentate, così da non produrre più un suono, né eccessivamente tesi, di modo che rischiano di spezzarsi.
Il secondo elemento di qualità “teatrale” che i testi pitagorici ellenistici hanno in comune è negativo: l’invito ad assumere un comportamento diverso da quello attuato dai personaggi della tragedia. Notiamo anzitutto che, nella lettera inviata stavolta a Callistrata (Ep. 5.7), “Teano” consiglia alla donna che ha scoperto che il marito si è trovata una concubina di non adirarsi come la Medea tragica e, di conseguenza, di portare la distruzione / la discordia nella casa. La donna deve semplicemente aspettare con pazienza che la passione erotica del suo uomo si esaurisca. In secondo luogo, osserviamo che il testo Sulle leggi attribuito a Caronda (p. 62.19-23 Thesleff = Stob. IV 2.24) – l’antico legislatore di Catania che studiò presso Pitagora (Diog. Laert. VIII 16, Porph. VP 21) – sprona il suo lettore a non rendersi schiavo del denaro, perché questo comportamento conduce a una vita analoga a quella di un personaggio da tragedia: una esposta ai colpi della fortuna e, dunque, al passaggio dall’opulenza alla miseria. Può darsi che, in questo caso specifico, la tesi potrebbe essere fatta risalire al Pitagorico storico. Se infatti è affidabile la notizia del libro XII della Biblioteca storica di Diodoro, che vorrebbe che Caronda prescrisse di perseguire legalmente chi si sposava per la seconda volta, allora potremmo attribuire a questo legislatore anche una delle argomentazioni a favore di questa scelta riportata nel medesimo testo, ossia che una matrigna provoca spesso conflitti terribili tra il padre e i figli della prima moglie, rappresentati spesso nella tragedia. Un possibile riferimento è la vicenda Teseo, che accogliendo Fedra nella reggia causa indirettamente la morte del figlio Ippolito. Chi si sposa due volte diventa, insomma, un personaggio tragico, e la legge deve intervenire per impedire che la vita umana si tramuti in una tragedia rovinosa.
Tale analisi dei testi pitagorici apocrifi ha dimostrato che, nel Pitagorismo ellenistico, il riferimento al teatro diventa molto più frequente e decisivo, rispetto a quello del Pitagorismo originario. Indirettamente, poi, essa mette in discussione una tesi che Nietzsche esponeva nel suo corso sui Filosofi preplatonici: che la filosofia di Pitagora fosse una mistica “pura”, libera della componente dialettica e regale. I Pitagorici usavano metafore teatrali/musicali per sottolineare che il cosmo e gli esseri umani devono obbedire a una qualche autorità, sia essa un dio sommo o la legge o la patria potestà, se intendono improntarsi a ordine e felicità. Seppure l’aneddoto di Eraclide su Pitagora non abbia allora alcun valore storico, esso ha il pregio almeno di cogliere l’elemento regale che è insito nel pensiero suo e dei suoi discepoli. La sapienza pitagorica si arroga di possedere un’autorità indiscussa, superiore e più istruttiva di quella posseduta dai re.
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I Pitagorici, secondo Aristosseno, compivano la catarsi del corpo attraverso la medicina, dell’anima mediante la musica (Aristosseno, fr. 26 Wehrli; trad. mia)
Filolao mette il fuoco nel mezzo, intorno al centro, che chiama focolare del tutto e casa di Zeus e madre degli dèi e altare e congiungimento e misura della natura. E poi un altro fuoco alla sommità, quello che circonda il tutto. Dice che per natura primo è il mezzo, e che intorno a questo girano in coro i dieci corpi celesti, <e sotto la sfera delle stelle fisse> i cinque pianeti, e sotto questi il sole, e sotto questo la luna, e sotto questa la terra, e sotto questa l’antiterra, e dopo tutti questi il fuoco del focolare che ha la sua sede intorno al centro (Aezio, Opinioni dei filosofi intorno alla natura, libro II, cap. 7, § 7 = Filolao, testimonianza 44 A 16 DK; trad. Giannantoni)
In Atene [Eraclide Pontico] s’incontrò prima con Speusippo, ma fu anche uditore dei Pitagorici ed ammiratore dell’opera di Platone (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro V, § 86; trad. Gigante)
Sappiamo che Rintone, Scita, Bleso e gli altri pitagorici furono maestri di non piccoli insegnamenti per l Magna Graecia, e in particolar modo Rintone che per la prima volta scrisse una commedia in esametri (Giovanni Lido, Sulle magistrature, libro I, cap. 41 = Rintone, T4 Favi; trad. Favi)
Poiché i primi legislatori non potevano rendere stabile la classe media della società, essi introdussero [nell’educazione] la danza e il ritmo, che hanno il potere di produrre movimento e ordine, nonché le attività sportive, alcune delle quali creano associazioni tra gli individui, altri guidano alla sincerità e all’acutezza mentale. A coloro che commettevano crimini sulla scia dell’ubriachezza e, inoltre, i legislatori prescrivevano di intervenire sulla mente tramite il suono del flauto e l’armonia, cosicché si poteva ordinare e abbellire il carattere (Diotogene, Sulla pietà, fr. 2 Thesleff = Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 1, § 96; trad. mia)
Dico dunque che [il primo dio] sia l’essere che governa, il reggitore dei simili, il più potente e ciò che sopravanza noialtri. Gli altri dèi stanno a questa divinità prima e intelligibile come i coreuti al corifeo, l’esercito allo stratega, i soldati e i mercenari al comandante e al capogruppo: cose che per natura seguono e accompagnano con ordine il proprio superiore. L’opera di costoro è comune sia al governante che ai governati. Tuttavia, i governati non hanno il potere di realizzare l’opera tenendo dietro al loro padrone. Non succede, infatti, che i coreuti realizzino la danza corale e i soldati l’esercito, se si separano dal loro governate, cioè il corifeo e lo stratega (Pseudo-Onata, Sul dio e sul divino, in Stobeo, Florilegio, libro I, cap. 1, § 39; trad. mia)
Si deve ritenere che la famiglia è il complesso dell’associazione di persone appartenenti alla stessa stirpe. Ora, ogni complesso è composto da taluni contrari e dissimili e coordinato verso qualcosa che è il meglio e si riporta all’utile comune. Quel che si chiama coro è il complesso di un’associazione di persone atte al canto e si riporta a un fine comune, al concerto (…). Così anche la famiglia, che è il complesso di un’associazione di persone appartenenti alla stessa stirpe, è costituita di parti dissimili e contrarie, è coordinata verso qualcosa che è il meglio, il capo di casa, e si riporta all’utile comune, la concordia. Per esprimerlo con parole semplici, ogni casa, come una cetra, ha bisogno in maniera assoluta di queste tre cose: adattamento, buona disposizione, il tocco e l’uso dell’esperto (Callicratide, Sulla felicità della casa, fr. 2 Thesleff = Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 28, § 16; trad. Natali)
Bisogna imitare il cantore il quale, capito il tono particolare della sua voce, cerca di portarlo a una certa qual medietà in modo che riesca a raggiungere l’acuto e il basso senza che la spezzi o venga meno nel suo sforzo. Così bisogna anche adattare il matrimonio all’indole propria dell’animo in modo che i coniugi possano andar d’accordo non solo nella buona fortuna ma anche nella cattiva. Perché anche l’auleta sceglie flauti che convengono alle proprie capacità e il nocchiero un timone adatto alla grandezza della nave (Callicratide, Sulla felicità della casa, fr. 4 Thesleff = Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 28, § 18; trad. Natali)
Perché alcune donne, mia cara, diventano brutali per la gelosia o l’ira e, con crudeltà, arrivano persino a frustare i corpi delle loro schiave, quasi come se dovessero lasciare su questi il marchio della loro passione eccessiva. Col passare del tempo, alcune schiave vengono uccise per la pressione, altre si procurano la salvezza con la fuga, alcune altre ancora smettono di vivere o si liberano con il suicidio, infine la padrona rimasta sola si lamenta della propria dissennatezza ed è presa da un desolato rimpianto. Tu invece, mia cara, diventa imitatrice degli strumenti musicali, che sono dissonanti quando le loro corde sono più allentate [del normale], mentre si rompono quando sono tirate troppo, e applica questo principio anche al rapporto con le schiave. Infatti, l’essere troppo permissivi induce le schiave a discordare dall’obbedienza all’autorità, mentre l’arrecare troppa tensione e costrizione determina la dissoluzione della natura. In questo senso, devi tenere in mente che la misura è la cosa migliore in tutte le cose. Stammi bene (Pseudo-Teano, Lettera a Callisto, §§ 4-5; trad. mia)
Ordirai qualcosa contro di lui [tuo marito]? No, mia cara. I drammi tragici che rappresentano gli atti criminosi di Medea hanno insegnato a dominare l’ira gelosa, tenendola sotto controllo. Ma come uno deve tenere le proprie mani lontane da un’infezione agli occhi, così tu devi astenerti dal fare una scenata. Perché sarà sopportando pazientemente che spegnerai più velocemente la sua passione (Pseudo-Teano, Lettera a Nicostrato, § 7; trad. mia)
Che venga disprezzato chi è schiavo della ricchezza e del denaro, in quanto individuo pusillanime e illiberale, che è impressionato dai suoi vasti possedimenti e, nondimeno, conduce una vita tragica e vile (Caronda [?], Sulle leggi, p. 62.19-23 Thesleff = Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 2, § 24; trad. mia)
Pitagora in Italia avrebbe fatto di molti altri dei perfetti uomini dabbene, e tra questi i legislatori Zaleuco e Caronda: perché era abile nel suscitare amicizia e in particolare se veniva a sapere che qualcuno condivideva i suoi simboli subito ne faceva un sodale e ne diveniva amico (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro VIII, § 16; trad. Giangiulio)
Le città che arrivato in Italia e in Sicilia aveva trovato soggette le une alle altre, alcune da molte anni e altre da pochi, Pitagora le liberò facendo sì, per il tramite dei suoi discepoli presenti in ognuna di esse, che fossero pervase di ardore per la libertà: si trattava di Crotone, Sibari, Catania, Reggio, Imera, Agrigento, Taormina e altre. Ad esse diede le leggi per tramite di Caronda di Catania e Zaleuco di Locri, leggi grazie alle quali queste città hanno per lungo tempo suscitato l’invidia dei vicini (Porfirio, Vita di Pitagora, § 21; trad. Giangiulio)
Innanzi tutto per coloro che imponevano una matrigna ai loro figli, Caronda stabilì come punizione che non avessero alcun potere decisionale nelle questioni riguardanti la loro città, poiché era convinto che chi avesse preso decisioni sbagliate riguardo ai propri figli sarebbe stato anche un consigliere pericoloso per la città: diceva infatti che gli uomini, il cui primo matrimonio fosse stato fortunato, dovessero fermarsi a questa loro esperienza positiva; quelli, invece, che erano stati sfortunati nelle nozze e ricadevano nel medesimo errore, dovevano essere considerati sciocchi (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro XII, cap. 12, § 1; trad. Miccichè)
Un uguale giudizio potrebbe essere espresso col dire che lo stupor non deriva dal fatto che un uomo si sposi, ma che si sposi due volte, giacché è preferibile esporsi due volte ai pericoli del mare piuttosto che affidarsi a una donna. Infatti in seno alle famiglie sono proprio le matrigne a provocare i contrasti più gravi e più violenti fra padri e figli, ed è per questo che numerosi e violenti delitti sono rappresentati dai tragici sulle scene teatrali (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro XII, cap. 14, §§ 2-3; trad. Miccichè)
Bisogna quindi giustificare in modo specifico perché è opportuno riassumere come gruppo i filosofi “preplatonici” e non quelli presocratici. Platone è il primo carattere misto grandioso, tanto nella sua filosofia quanto come tipo filosofico. Elementi socratici, pitagorici ed eraclitei sono compresenti nella sua teoria delle idee, che senz’altro non è da ritenere una dottrina originale. Pure come uomo egli ha racchiuso in sé i tratti di Eraclito, regale e maestoso, di Pitagora, melanconico, mistico e legislatore, di Socrate, dialettico e scrutatore d’anime. Tutti i filosofi posteriori sono filosofi misti di questo tipo. Di contro quella serie di preplatonici rappresenta i tipi puri e non misti, tanto nel tipo di filosofemi quanto nei caratteri. Socrate è l’ultimo di questa serie (Friedrich Nietzsche, Filosofi preplatonici, a cura di Piero Di Giovanni, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 5)
[I testi dei Pitagorici ellenistici e apocrifi sono pubblicati in Holger Thesleff, The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, Abo, Abo Academi, 1965. I frammenti e le opere di altri autori sono tratte da:
- Calogero Miccichè (a cura di), Diodoro Siculo: Biblioteca storica. Frammenti dei Libri IX-X, Libri XI-XIII, Milano, Rusconi, 1992;
- Federico Favi (a cura di), Fliaci: testimonianze e frammenti, Heidelberg, Verlag Antike, 2017;
- Fritz Wehrli (a cura di), Die Schule des Aristoteles: Texte und Kommentar. Band 2: Aristoxenos, Stuttgart, Basel, 1967;
- Gabriele Giannantoni (a cura di), I Presocratici: testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1969;
- Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio. Vite dei filosofi. Volume 2, Roma-Bari, Laterza, 1998;
- Maurizio Giangiulio (a cura di), Pitagora: le opere e le testimonianze, Milano, Mondadori, 2000;
- Renato Laurenti (a cura di), Callicratide di Sparta: Sulla felicità della casa, in Carlo Natali (a cura di), Aristotele: L’amministrazione della casa, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 127-133]