Al Concentrico Festival IV il Teatro dei Venti porta il capolavoro di Herman Melville, Moby Dick, nella piazza principale di Carpi. Recensione.
C’è una macchia bianca nel fondo scuro dell’anima umana. È la somma di ogni inconoscibilità cui l’uomo misura il proprio stare al mondo, la chiusura imprevista di un ignoto circolare su sé stesso, là dove infrange l’onda della coscienza e si perde, nel bianco, ogni umana comprensione. Il buio fa paura, ma può essere rivelato da una futura luce. Il bianco è oltre ogni speranza. Non ha salvezza. Non ha possibili confini. E dentro il mare impetuoso una tempesta senza pace svelle la resistenza del Pequod, raccoglie il buio dalle cavità marine, segreta il cuore di Ismaele, appaia il graffio alla voce del capitano Achab, l’urlo profondo dove vendetta e coraggio si fanno una cosa e negli occhi si figura l’immagine sola di una ricerca senza fine, il bianco accecante della balena, la forma deforme di Moby Dick.
È con il sudore di una sofferenza tutta umana, corporale, che il Pequod raggiunge il centro del mare, il suolo della rappresentazione; le funi trascinano oltre la struttura della nave, si portano la paura e la fame, la supremazia e il fallimento, ogni sentimento è fuori e s’inerpica dalla prua all’albero di vela. A portarla sulle spalle nude vergate dai tiranti sono i detenuti attori del Carcere di Modena e del Carcere di Castelfranco Emilia, per questa versione del capolavoro di Herman Melville che Stefano Tè per il Teatro dei Venti, con l’adattamento del critico Giulio Sonno, ha portato sulla piazza principale di Carpi, nella IV edizione di un vitalissimo Concentrico Festival. Lasceranno il palco, poi, ma saranno vigili ascoltatori di una storia che li riguarda, a non perdere nemmeno un fiato, nemmeno un battito. Perché questa è una storia di corpo e sangue, di anima e volontà; non sembra pertanto – come invece evidenziato dalle note, che riferiscono anche di alcuni debiti nei confronti della Bibbia o del Faust di Goethe – un lavoro finalizzato a svelare una portata sociale, politica, del testo, ma proprio dalla dimensione estetica, affondata nella percezione più intima, rivela tutto il proprio valore.
Sulla nave sono attori, musicisti e acrobati a comporre una nuvola artistica che contenga una visione precisa del grande romanzo ottocentesco. Un tappeto inesaurito di percussioni (Igino L. Caselgrandi) si erge tra mare e cielo, diviene tempo atmosferico da ritmo che era, si inarca sulle note di sax (Luca Cacciatore) e di chitarra e synth (Domenico Pizzulo) e l’evocazione illude si tratti di un dipinto; il legno delle enormi botti, suonate come nella tradizione di Macerata Campania, si dispone in una scenografia di immaginario marinaro (di Dino Serra, con Massimo Zanelli), compone la struttura della nave poco a poco che le parole di un Ismaele tragico (Hannes Langanky) abbiano accolto, dalla vedetta di prua, qualcuno che ascolti, qualcuno che comprenda come si possa perdere il contatto tra obiettivo ed esistenza, affondati entrambi in uno dei più maestosi racconti che l’uomo abbia concepito. Tutto attorno è fatto di sudore misto ad acqua marina e muscoli che balzano verso il cielo, si inerpicano nello spazio verticale gli acrobati danzatori in una sensazione per contrasto greve e terragna di cambusa; a tratti solenne e lirico, altre volte carnale e ispido, il testo si dispiega per brevi monologhi condensati sulle figure centrali, mentre la nube performativa compone d’intorno la visione ambientale.
Si alzano gli alberi dalle tavole interne dello scafo, si distendono al vento le vele; mentre attorno la chiglia raccoglie una vertebra dopo l’altra lo scheletro che è nave e balena insieme, ormai l’una confluisce nell’altra, fine e mezzo si mescolano consanguinei, si fondono in una danza abissale. È dall’alto che il capitano Achab (Federico Faggioni) timbra della sua voce d’argento la ricerca assetata del bianco più vasto nel nero uniforme, cieco di una caccia lunga 40 anni non sa ancora o non vuole sapere che “la bussola punta sempre altrove”, che il motivo di un viaggio di cattura finisce per avvolgere le corde delle vele attorno al proprio corpo, a catturare sé stesso; lo sanno i marinai, lo capiscono, se ne accorgono a un certo punto che Moby Dick è un mistero e tale rimarrà: cosa stanno cercando? “Un pesce? Un fantasma? O un’illusione che fosse reale?”. Forse non altro che un affondo intimo nella propria vastità: che l’abbiano scelto o meno, sono in un viaggio detto vita, ognuno con dentro gli occhi l’impronta che non è terra, non è mare; forse, è balena.
Simone Nebbia
Concentrico Festival, Carpi – Giugno 2018
MOBY DICK
Ideazione e regia Stefano Tè
adattamento drammaturgico Giulio Sonno
consulenza alla regia Mario Barzaghi
assistenza alla regia Simone Bevilacqua
musiche dal vivo Luca Cacciatore (sax contralto e soprano), Igino L. Caselgrandi (batteria e percussioni) e Domenico Pizzulo (chitarra e synth)
costumi a cura di Teatro dei Venti, Luca Degl’Antoni e Beatrice Pizzardo
disegno luci Alessandro Pasqualini
audio Nicola Berselli e Andrea Generali
scenotecnica e realizzazione macchine di scena Dino Serra e Massimo Zanelli
scenografie Dino Serra in collaborazione con il Teatro dei Venti.
Con Federico Faggioni (nel ruolo di Achab), Hannes Langanky (nel ruolo di Ismaele), Oksana Casolari, Marco Cupellari, Daniele De Blasis, Alfonso Domínguez Escribano, Talita Ferri, Alessio Boni, Francesca Figini, Davide Filippi, Alberto Martinez, Amalia Ruocco, Antonio Santangelo, Felix Pacome Tehe Bly, Mersia Valente, Elisa Vignolo. E con un gruppo di detenuti attori del Carcere di Modena e del Carcere di Castelfranco Emilia.
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