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Spettatori marziani e il teatro dei giovani

A Trieste si è da poco conclusa la quinta edizione del Tact Festival di Teatro internazionale. Attori giovani o giovanissimi da tutto il mondo impegnati in workshop e spettacoli. Qualche considerazione a margine.

Foto di Vanni Napso

La danzatrice indiana Patribhe Jena Singh si muove con gesti misurati e attenti tra i giovani attori che da tutto il mondo sono venuti a Trieste per la quinta edizione del Festival internazionale di teatro TACT. La pioggia che imperversa sulla città e i ritmi di un festival giovane e frenetico non paiono turbarla. Sta conducendo un workshop sulla danza Odissi, i ragazzi e le ragazze escono dalla sala dopo quattro ore di lavoro intenso e senza sosta, hanno le gambe stanche ma sguardi accessi, continuano a porle domande, cercano la chiave per entrare in un mondo che pare ai più ancora sconosciuto. Dopo la maratona di spettacoli – quelli del gruppo Academy of Arts di Belgrado e del gruppo lituano Teomai – Patribhe Jena Singh si avvicina e mi dice: «È chiaro che nel vostro teatro si parla molto». È vero che la parola è ancora uno dei modi, per molto teatro, con cui si prova a rispondere ad eterne domande, ma Patribhe sembra suggerirmi altro e non lo fa con la sicumera dell’artista consumato, quanto con la lucidità di uno spettatore marziano: il contorsionismo della parola è utile laddove induce l’acrobazia di chi lo ascolta.

Al Tact si passa da Dostoevskij nella prima sera a James Barrie (Cut di Trieste), ai testi originali del Grupo Subsuelo Teatro (Argentina), al Satiricon di Petronio (Le Groupe de Théâtre Antique dalla Svizzera) e ancora Gogol (Ànima Eskola dalla Spagna), Cechov (Studiya Project dalla Russia) e un Annibale Ruccello (Itinerarte da Napoli).
Grandi classici per lo più, monumenti della letteratura mondiale con cui attori – più o meno giovani – provano a cercare il proprio teatro. Inseguono l’immagine dietro la parola, spesso la usano come ancora, ma bella tra loro è la consapevolezza di un inizio di un percorso per cui non sono disposti a negoziare.

Foto di Vanni Napso

Degno di nota lo spettacolo Darkness degli iraniani Carbon Theatre Company che ci ha raccontato la vicenda dell’imperatore Nader Shah Afshar (il cosiddetto Napoleone d’Asia) come la tragedia di un popolo, dove la distanza tra pubblico e privato esibisce tutto il cortocircuito di un paese ferito. Dall’altra parte il Grupo Subsuelo Teatro con il suo Piso 35, testo ironico e attualissimo, recupera il debito di quel teatro dell’assurdo beckettiano ma creando un buon mash-up con il dramma di una generazione su cui pesa il senso dell’abisso under 35.

Il Tact di Trieste nasce come idea di formazione permanente, sia nella prassi organizzativa con un direttore pronto ad accogliere consigli per un’auspicata e futura crescita del festival, sia come apprendimento per i giovani attori ospitati. La serie di workshop offerti agli allievi che vengono da scuole e accademie di diversi paesi (non solo d’Europa, ripetiamolo) è infatti uno strumento che può innescare la consapevolezza che la tecnica debba necessariamente trovare un indirizzo chiaro per costruire un senso del proprio teatro.

Foto di Vanni Napso

Per molti è l’inizio di un percorso per capire quanto le tecniche d’attore siano efficaci quando diventano miccia per una scoperta. Spesso si è parlato delle grandi tradizioni di teatro orientale (penso al Nō, al Kabuki, all’Opera di Pechino) come insieme di tecniche estremamente formalizzate; dall’altra parte il teatro occidentale è sembrato spesso in balia dello psicologismo da rintracciare all’interno di una forma che per molto tempo è stata quella letteraria. La forma può essere un’arma? O è una gabbia? Dove rintracciare la propria zona creativa una volta che si padroneggia una tecnica?

Il tavolo di lavoro del festival TACT, che è una babele di lingue e culture, deve puntare sulla piena coscienza della contaminazione (e già ne avevamo parlato in questo articolo), ma ancor più sulla consapevolezza che “le scuole” debbano essere trampolino anche per far proprie le parole d’altri. Perché padroneggiare una tecnica non sia affatto un punto di arrivo, ma una condizione per dialogare con un maestro che non c’è. Allora i testi di Gogol, Dostoevskij, Cechov e di tutti quei pilastri della nostra cultura riusciranno a parlarci ancora, anche senza sovrattitoli, quando noi saremo disposti a cercare l’acrobazia attraverso le loro storie universali.

Doriana Legge

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Doriana Legge
Doriana Legge
Doriana Legge è docente di Storia del Teatro e Problemi di storiografia dello spettacolo presso l’Università degli studi dell’Aquila. Nel 2014 ha conseguito il dottorato di ricerca in Generi letterari presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli studi dell’Aquila. Dal 2013 fa parte del comitato di redazione della rivista di studi “Teatro e Storia” edita da Bulzoni. Collabora a voci enciclopediche per il Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani. Scrive per la rubrica teatrale dell’“Indice dei libri del mese”. È anche musicista e compositrice per cinema e teatro, autrice di sonorizzazioni che portano a indagare le immagini pensando relative drammaturgie sonore. Da gennaio 2017 collabora con Teatro e Critica. Per consultare i suoi lavori e pubblicazioni più recenti: https://univaq.academia.edu/DorianaLegge

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