A tre anni dai “Neue Stücke 2015”, il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch torna in scena con la monumentale creazione “Seit sie”, guidata dall’artista greco Dimitris Papaioannou. Lo abbiamo visto ad Amsterdam per l’Holland Festival. Recensione.
Lo ha sottotitolato Ein Stück von Dimitris Papaioannou e il riferimento a Pina Bausch è evidente, tuttavia Seit sie è un “pezzo” in cui la poetica del regista e coreografo greco non dialoga ma si sovrappone a quella della celebre artista scomparsa. Un lavoro dai tempi perfetti, dallo spazio cinerino meraviglioso, con una compagnia che da Wuppertal all’Holland Festival di Amsterdam ha già migliorato il suo non facile approccio con il signum di Papaioannou. Seit sie di nuovo in tournée nel 2019.
Lo Stück è circolare: comincia e quasi si conclude con le sedie di Café Müller, devastante Leitmotiv dei molti epigoni di Pina Bausch negli anni Ottanta e ben oltre. Ma lui, Dimitris Papaioannou, regista e coreografo di Seit sie, ne fa qualcosa di proprio e di speciale. Conficca quel leggendario e ormai frusto Leitmotiv nella sua Weltanschauung, specialmente nel finale. Quando le sedie che proprio all’inizio entrano in proscenio, portate dai diciassette danzatori dell’attuale Tanztheater Wuppertal, spesso vacillanti nel passare, magari in tacchi a spillo, da una sedia all’altra trascinandola poi via – si accumulano incredibilmente sulle spalle di un solo uomo, che entro le sedie sparisce. Magnifica soluzione di artigianato scultoreo in una pièce dal titolo perfetto – Seit sie (“Da quando lei”) – in cui il mondo di Pina e quello di Papaioannou non dialogano ma si sovrappongono, in una dolce e acre malinconia, sempre avvolgente.
La scena cinerina è fissa, ricorda un wagneriano Götterdämmerung (Wagner c’è ma è un cheto e bianco Lohengrin, se bianca può essere la musica…), non tanto per quella pila di lastre in gomma piuma che formano una montagna, forata alla base, ma per quella luce straziante – in realtà crepuscolo o alba – sulla quale si staglia sempre una figura femminile. Strano per il regista-coreografo greco, di solito affezionato a una performatività spostata verso il maschile (da Primal Mater a The Great Tamer passando per il più che memorabile Still Life), ma qui aleggia una “lettera d’amore” in cui non potevano mancare le molte donne della Bausch in abiti lunghi da sera o elegantissimi, gli uomini in completi neri e talvolta cravatta, assai diversi dai nerovestiti, in foggia sirtaki del teatro di Papaioannou. Così vi sono abiti femminili gonfiati dal vento creato da uomini addossati all’incantevole Ditta Miranda Jasjfi; abiti sfogliati dei loro veli e abiti tutti dorati appiccicati alla perfetta silhouette di Julie Stanzak che del mito è l’emblema. Non v’è spettacolo di Papaioannou, il pittore, lo scultore, il coreografo-regista, che non si getti nelle braccia della mitologia e della tragedia greca anche con humour, né pièce ove non si esalti il contrasto tra corpi vestiti (vivi) e ignudi (anime, fantasmi del sottosuolo e altro). Costruire in scena la scena è poi il suo grand atout.
Mentre passa una figura muliebre trascinando lunghe e pesanti frasche – probabile citazione da Auf dem Gebirge hat Man ein Geschrei gehört – , il vir della troupe (sempre presente un leader in Pina, dall’indimenticabile Ian Minarik in poi) estrae dalla feritoia alla base della montagna un corpo maschile che vi è incastrato e, postolo sopra un tavolo, gli costruisce scarpe strane, mentre c’è chi sta in bilico sopra una sedia in proscenio e chi scala la montagna. Intanto la (quasi) iniziale musica greca, spesso interrotta da silenzi e gocce sonore, diventa d’improvviso un grande valzer di Aram Khachaturjan: inaspettato vortice di movimento di coppie che si vorrebbe non finisse mai. Ma i tempi in Papaioannou sono perfetti nel suo less is more: un respiro in più potrebbe essere fatale.
Rapiti dall’ebrezza rotatoria di coppie con le donne volanti tra braccia forti e da una sorta di esaltazione estatica e sensuale, non ci accorgiamo di quanto, nel frattempo, il palcoscenico si sia riempito di lunghi tubi mobili. Impossibile, invece, non notare quell’uomo costruito dal leader: ora indossa uno scafandro di pelle, ha quattro gambe (due fatte di tubi in legno) e con quelle si muove goffamente (Schlemmer docet). In Seit sie non c’è solo Pina e il suo Tanztheater, ma una buona dose di espressionismo e di Bauhaus, l’omaggio è esteso al clima da cui si irradiò un’intera corrente sperimentale. Un uomo nudo cammina con grucce “d’arte”, l’ex-imbottito nello scafandro crea forme geometriche con bacchette e Julie Stanzak le porta in testa a forma di prisma, mentre altre bacchette vengono infilate nei capelli della nera Ditta facendola somigliare a una Madonna.
Forte il contrasto tra questa immagine e quella di un uomo nudo che afferra i capelli fulvi di una collega e crea l’immagine di una medusa sovrapposta al suo pene. Mater dolorosa, mater perversa, mater che sa giocare con le sole gambe sue e di altre giapponesine come se fossero attaccate alle loro teste, mentre la musica di Mahler è svanita, dopo uno stralcio di Verdi e due larghi pezzi dal Romeo e Giulietta di Prokof’ev. Nel finale, osannante a questa donna trovata nell’Ade (quando Ulisse s’imbatte nell’anima della madre), Stanzak indossa una maschera da Minotauro, calzata pure da un collega come lei a lato della scena. Insane passioni! Ma dal suo vestito attillatissimo e tutto d’oro s’irradia un finale da favola. L’uomo dalle mille sedie è passato: ora un drappo pure dorato si staglia davanti ai nostri occhi e poi d’improvviso scurisce e si macchia di piccole galassie argentee. Trionfo di quella “domina” che stava volentieri sulla montagna ostentando un suo scettro, mentre corpi ignudi e maschili rotolavano giù a testa in giù. Trionfo di una grande bellezza a sorpresa.
Ma c’è di più: l’alto Götterdämmerung non ha solo un suo contraltare nel fare e disfare del nobile Bauhaus. Varcando la soglia dell’Ade, già citata, per passare lo Stige è bene avere secondo la mitologia greca due monete sugli occhi. Si è già morti, tranne pochi eletti come Odisseo, ma è meglio non vedere. In Seit sie si usano piatti dorati per creare gran fragori, ma anche piccole monete, versione mignon di quei piatti, per coprire gli occhi. È un attimo. Uno di quelli che fanno pensare alla cecità di Pina: in Café Müller ma anche nella Nave va di Fellini, che qui si insinua con la sua magica fantasmagoria. Pezzo memorabile e perfettibile– non tutti gli interpreti dell’odierno Tanztheater Wuppertal sanno ancora gestire anche solo con lo sguardo la tremenda caratura di questa creazione –, ci si augura voli per tutto il non lontano decennale Bausch. Seit sie è geniale.
Marinella Guatterini
spettacolo visto all’Holland Festival, Amsterdam, giugno 2018
SIET SIE – EIN STÜCK VON DIMITRIS PAPAIOANNOU
concezione e direzione Dimitris Papaioannou
set designTina Tzoka
costumi Thanos Papastergiou
light design Fernando Jacon, Stephanos Droussiotis
sound design Thanasis Deligiannis
arrangiamenti musicali Thanasis Deligiannis, Stephanos Droussiotis
consulenza artistica Tina Papanikolaou, Stephanos Droussiotis
danzatori Ruth Amarante, Michael Carter, Silvia Farias Heredia, Ditta Miranda Jasjfi, Scott Jennings, Milan Kampfer, Blanca Noguerol Ramírez, Breanna O’Mara, Franko Schmidt, Azusa Seyama, Ekaterina Shushakova, Julie Anne Stanzak, Oleg Stepanov, Julian Stierle, Michael Strecker, Tsai-Wei Tien, Ophelia Young
direzione artistica Adolphe Binder
direzione delle prove Barbara Kaufmann
scultore Nectarios Dionysatos
collaborazione ai costumi Rike Zöllnerartistic
fotografia Julian Mommert
musiche Christos Constantinou, Richard Wagner, Charles Ives, Johann Sebastian Bach, Aram Khachaturian, Gustav Mahler, Gija Kantscheli, Marika Papagkika, Wayne King, Leo Rapitis, Manos Achalinotopoulos, Sergei Prokofiev, Giuseppe Verdi, Tom Waits
produzione Tanztheater Wuppertal Pina Bausch
coproduzione Théâtre de la Ville / La Villette, Sadler’s Wells, Onassis Cultural Centre-Athens, Holland Festival con il supporto della Kunststiftung NRW