Betroffenheit di Crystal Pite e Jonathon Young, anteprima di Torinodanza Festival al via il 10 settembre prossimo, con il suo affascinante allestimento ruota attorno al tema del superamento del dolore all’indomani di tragedie mortali. Conferma una tendenza ormai in atto: il superamento dei generi, verso una totalità scenica senza barriere.
Di fronte a uno spettacolo dalla scenografia originale, dalle luci egualmente raffinate, con cinque danzatori monstre in grado di muoversi con vigore ed eleganza ma anche di esprimersi con la voce senza biascicare, è ben difficile voltare il capo e brandire l’arma bianca del giudizio traballante, sospeso o peggio, negativo. Ma quante volte la confezione inganna? E quante altre un’eccessiva acquiescenza critica lascia ad esempio che una pièce dal testo reiterato e noioso come Betroffenheit/Costernazione in virtù del congegno che meravigliosamente la sostiene, lasci correre sulle peculiarità irrisolte della sua esistenza?
Certo, gli autori di Betroffenheit (spettacolo del 2015, ma sempre in tournée), ovvero Crystal Pite, coreografa canadese pluripremiata e corteggiata nel mondo, a capo della compagnia Kidd Pivot e il connazionale di Vancouver Jonathon Young, invece co-direttore artistico e attore dell’Electric Company Theatre, sono personaggi autorevoli. La loro comune discesa in campo alle Fonderie Limone Moncalieri per l’anteprima del ricco festival TorinoDanza (10 settembre – 1 dicembre 2018) ha comunque, e come vedremo, una ragione condivisibile e da premiare indipendentemente dalla resa complessiva della pièce medesima. Betroffenheit/Costernazione narra per frammenti di disgrazie, di morti successe in passato e di capacità di sopravvivere o meno alla scia di un dolore permanente.
Young, in particolare, ha scritto questo testo drammatico all’indomani di una personale tragedia: durante un incendio ha perduto una figlia adolescente e una nipote; lui unico superstite nella sventura. La Pite gli si è accostata con generosità ma, occorre ricordarlo, per una certa sua consuetudine a traslare in forma coreutica temi quali il soccorso a chi richiede aiuto. Già nei Ten Duets on a Theme of Rescue (2008) presentato in Italia nel 2013, con il non più esistente Cedar Lake Contemporary Ballet, la coreografa di Vancouver si rivelava molto ordinata nell’elargire piccoli gesti e carezze abbozzate ma poco costruttiva negli slanci, nella plasticità. Nei suoi Duetti “sul tema del soccorso” si ammirava soprattutto la bravura dei ballerini e l’utilizzo della luce in funzione di protagonista.
In Betroffenheit tutto appare molto più complesso. Il palcoscenico è tagliato a metà ma in linea obliqua e non retta, in modo che un palo quasi in proscenio funga da elemento di divisione e diffusione luminosa non scontata tra una sorta di cabina teatrale in sottopalco e uno spazio invece vuoto. In quello che si immagina essere il luogo in cui sono avvenute le morti, a cui il testo non accenna mai in forma diretta, un unico attore (lo stesso Jonathan Young) tribola per un tempo infinito con un telefono a muro che squilla e con un dispositivo elettronico che impartisce ordini mentre lampeggia. Il suo dibattersi, strisciare a terra mentre urla, disperarsi e placarsi d’improvviso, è infine lenito da un danzatore di colore con un pupazzetto vestito di blu. Grazie a questo espediente il protagonista si sovviene di uno spettacolo che in qualche modo deve provare a ricordare e a rimettere in scena, così com’era. Tale show di puro entertainment con le piume rosa di ballerine da musical anni Quaranta e i boys in costumi blu – eguali al vestito del pupazzetto – alleggerisce la pesantezza di reiterati scoppi, lampi nervosi dell’impianto elettrico, cortocircuiti fatali – presumibili cause delle sue personali tragedie – che avvengono per lo più nello spazio vuoto, anche causati da una curiosa diavolessa in bikini e calotta, misteriosamente partecipe pure del dolore urlato del protagonista.
Lo spettacolo anni Quaranta termina senza dilungarsi troppo, sempre sulla musica e sul sound design di Owen Belton, Alessandro Juliani, Meg Roe, e prelude a una pausa-intervallo. Nella seconda parte della pièce si abbandona la stanza chiusa coi fili pericolosamente scoperti, ove Young si era a lungo lamentato, e si entra con i soli danzatori in costumi quasi di prova, nello spazio vuoto. Inizia una danza pura in cui i volti coperti di biacca dei ballerini non si risparmiano smorfie e versacci – un digrignare i denti, un raggrinzire le mani – come se nel loro formalismo s’infilassero tracce impure: il malessere di varie iatture. La danza è in tutto e per tutto una Contact Dance: grandi balzi, pesi di corpi l’uno sull’altro, ma anche riusciti stiramenti in catene quasi stellari, ove il grottesco dei visi cede ad armonia e raffinatezza. Il movimento si disperde ormai in tutto lo spazio (durante l’intervallo la claustrofobica stanza è scomparsa) e accoglie sul finire della pièce il corpo a terra e inerme del protagonista della prima parte.
L’intento di rianimarlo sembra non riuscire: egli giace a terra e lì dovrebbe restare, sinché il prestante e bravissimo danzatore di colore non esce di scena simulando l’incedere a ginocchia piegate di uno scimpanzé. Invece, ecco che il “morto-non morto” resuscita come il suo show, per un monologo finale in proscenio in cui ricompare un box in legno rossiccio dischiuso, servito per gli scoppi, ma ora come controcanto alle parole ultime e definitive, che dicono quanto non valga la pena cacciare via da sé il dolore, o tenerlo rinchiuso nel box del proprio cuore, ma al contrario lasciarlo aperto, per poterci convivere meglio. Fine di un dramma in cui la parte danzata, senza offrire particolari agganci coreografici a quanto l’ha preceduta, compensa le ossessioni di un testo preso dall’ansia di non essere didascalico e nel finale velato di retorica.
Eppure l’exploit di Betroffenheit/Costernazione offre un riflessivo antipasto a Torinodanza poiché – a nostro avviso – conferma una tendenza ormai da riconoscere, lasciando da parte altre inutili etichette – quella dell’ “opera coreografica”, cui di sicuro tendono i coreografi maggiori, senza più preoccupazioni per le barriere di genere spettacolare, e verso la quale anche i più giovani autori coreutici dovrebbero tendere.
Marinella Guatterini