Oskaras Koršunovas ha condotto lo scorso maggio un workshop all’interno dello Spazio Matta a Pescara, in occasione della rassegna Scenari Internazionali. Un diario di lavoro
Alla fine dello scorso maggio Oskaras Koršunovas ha condotto per quindici attori professionisti un workshop di quattro giorni strutturato su Tre sorelle di Anton Čechov all’interno del padiglione dello Spazio Matta di Pescara, un complesso pseudo industriale (con concrete prospettive di creazione di una foresteria per residenze e moltiplicazione delle possibilità performative nei due altri edifici ancora da sistemare), oggi recuperato e restituito alla città abruzzese a seguito della messa a disposizione del Comune e grazie all’accesso a finanziamenti da parte della gestione, con l’intento di «portare finalmente anche qui il teatro contemporaneo». «In Lituania, il video come tecnica artistica contemporanea emerse soltanto negli anni ’90. Il suo arrivo coincise con il ritorno all’indipendenza nel 1990 e fu permeato dall’insieme dei relativi cambiamenti politici, sociali e tecnologici. […]Insieme ad altre nuove forme d’arte, come l’installazione e la performance art, che erano scarsamente presenti nel periodo sovietico, il video ottenne particolare attenzione da alcuni artisti, che documentarono la realtà della trasformazione del paese» così si legge nella presentazione della rassegna video Scenari Internazionali, accanto alla quale l’iniziativa è stata concepita come se il lavoro di Koršunovas rappresentasse il contraltare teatrale perfetto per estetica e cronologia di tale ondata cambiamento. Curata da Valentina Valentini, l’operazione è stata realizzata grazie al sostegno della Fondazione Aria, animata da imprenditori locali, già attiva nel settore dell’arte contemporanea e per la prima volta impegnata su un progetto a carattere performativo . Racconteremo il percorso del laboratorio dividendolo in due parti, corrispondenti in qualche modo ad altrettante fasi del processo creativo.
Avere la possibilità di osservare cosa accade in un percorso di questo tipo, concentrato nell’arco di pochi giorni e con un gruppo di professionisti non abituati a lavorare insieme, restituisce certo a tratti quel deficit di empatia tra gli interpreti, la discontinuità di fiducia consolidata che appartiene invece a una compagnia più stabile, ma apre pure, anzi precipuamente, una finestra impagabile sul modus operandi di un artista di caratura internazionale. Il clima di condivisione e intesa cresce con l’avanzare dei giorni, con l’approfondirsi di una ricerca che si connota e vive dello scambio circolare fra i laboratoristi, dell’ascolto frontale fra loro e il regista, tuttavia anche e soprattutto della dialettica direzionata e governata dell’uno con gli altri. Dubbi sinottici, domande, ipotesi, e constatazioni si affastellano e si avvicendano a momenti di spiegazione e coinvolgono con intensità e approcci diversi i quindici interpreti. Come racconteranno poi nel corso di una chiacchierata alla fine della terza giornata, fra loro c’è chi il teatro lo ha studiato all’università de L’Aquila con Ferdinando Taviani prima di decidere di passare dall’altro lato e farlo, chi con Koršunovas ha già avuto modo di lavorare nel corso del workshop alla Biennale Teatro 2016 – quantunque su Amleto e con un approccio completamente diverso -, chi ne è attratto pur non conoscendo approfonditamente il suo lavoro, chi apprezza il teatro lituano, in particolare quello di Nekrosius, addirittura chi fa cinema e televisione, all’occorrenza anche teatro.
Prima di procedere alla creazione di un’azione scenica vera e propria in cui far fluire l’interezza del percorso elaborato nei due giorni precedenti, il regista suggerisce loro di scegliere fra i tre atti la frase, la battuta più rappresentativa in grado di «tracciare sinteticamente “la direzione”, “la linea” del personaggio nell’intero corpo drammaturgico». A seconda del ruolo e delle sensibilità, le scelte ricadono per alcuni su una sola frase, su due o tre, altri descrivono il personaggio o costruiscono una breve barra di battute su cui si innesta, dopo aver ascoltato, il regista lituano a rimarcare sfaccettature, dettagli, nodi, aspetti importanti che sembrano mancare.
Assecondando quel senso di casualità degli eventi già sottolineato in precedenza e che effonde dalla drammaturgia, si stabilisce di costruire l’azione come una partita: «Abbiamo pensato che potreste giocare a carte. Ora quando giocheremo potete prendere sia la frase che qualche passo breve del testo». Assemblata una lunga tavolata frontale alla platea, un cartaro a rotazione distribuisce una carta ad ognuno dei “convitati” che possono decidere di cambiarla con quella di con chi li segue nel giro, lo schema su cui muoversi è il “cucù”, il fante e il re sono i punteggi più alti a far saltare o bloccare lo scambio, i due punteggi più bassi perdono e decretano la salita sul tavolo, divenuto così un campo performativo quasi per penitenza. «Dal momento in cui inizia il teatro gli altri sono spettatori, quindi sia al tavolo che fuori quando dite la battuta potete scegliere se essere il personaggio oppure no, così chi risponde può decidere di essere il personaggio oppure no.» Acuendo lo sguardo sull’articolazione dell’azione, Koršunovas chiarisce la sua distinzione di tre livelli, quello del gioco, uno di mezzo e quello della pièce, rispetto ai quali spiega pure «il primo livello è avvicinarsi al personaggio, riferirvisi è il secondo, mentre salire sul tavolo è il terzo livello, quello del teatro vero e proprio, come in palcoscenico, la quintessenza del personaggio. Prendere gli spettatori, abbracciarli, vi porta dal gioco allo spettacolo». È così che la concentrazione si accentra inevitabilmente sui concetti fondamentali di “situazione” e “personaggio”, diversi eppure sinergici: «cercate il vostro personaggio, approfittando del fatto di non avere uno schema precostituito di entrate ed uscite. Tanto più siamo adeguati alla situazione, tanto più lo siamo al personaggio. Ho visto voi come persone nel training, ho visto come vi siete trasformati nel personaggio e ho visto voi come spettatori. Quando reagite, reagite come colleghi, cosa che siete realmente, ma il vostro obiettivo è il personaggio».
Il passaggio dal personaggio all’idea generale di improvvisazione si avvera sostanziale quale induzione deduttiva: «Siccome è un training possiamo guardare il personaggio come vogliamo. Si possono fare cose che magari nello spettacolo non faremmo, perché apparirebbero strane e pertengono alla lettura che ne diamo, anche se bisogna farlo in modo cosciente. Pensate che quando siete sul tavolo dovete sfruttare al massimo l’occasione, il vostro tempo. Potete fermarvi a ripetere l’azione, chiamare sul tavolo la persona con cui parlate. Se non ricordate il testo potete aggiungere a parole vostre. Insomma non limitatevi!». Portare avanti la situazione così come capita, sfruttandola al massimo, senza mancare di riconoscerne i limiti e la fine. Al confine tra “azione reale e realtà dell’azione” si inserisce a questo proposito una postilla sull’ “autenticità”, sommandosi come un sigillo al vocabolario di lavoro. Più volte Koršunovas adopera il parallelo col jazz in cui ognuno ha il proprio strumento e intuisce quando fare la sua entrata. Si rivolge dunque agli attori sottolineando come per loro sia necessario comprendere il proprio strumento prima di specificare come «in ogni composizione drammaturgica debba esserci un crescendo: all’inizio prevale il gioco, ma più andate avanti e più deve esserci testo; in un primo momento i personaggi quasi non ci sono affatto, poi le parole e quindi il testo aumentano progressivamente. Per creare abbiamo bisogno non solo dei testi, ma di piccole scena della pièce. Man mano che andiamo avanti i personaggi si rivelano. Quindi potremmo prendere elementi dal principio del testo e seguire via via…Tutto comincia in modo allegro, col gioco, poi si fanno sempre più spazio i personaggi, il dramma, il teatro». L’impressione che si fa strada con decisione crescente è quella di poter osservare una miniatura del sistema di lavoro che il lituano adopera nella composizione dei suoi allestimenti, seppure in un microcosmo straniato, parziale. L’invito è quello di continuare la ricerca: «Se avete fatto cose buone però potete ripeterle, nell’improvvisazione si fissano le cose più interessanti. Noi nel nostro lavoro facciamo così, iniziamo dall’improvvisazione e fissiamo le cose migliori per costruire l’intero spettacolo. Tuttavia ci sono volte in cui tenendo una cosa si rischia di perderne di migliori, quindi siete voi a dover decidere, a scegliere quello che fissate, a sentire che sia la cosa giusta». Interrogato sulle tempistiche di preparazione di un allestimento, racconta come gli capiti con la sua compagnia di doverne mettere a punto in un mese, o di altri che necessitano di più di un anno di lavoro visto che «sei settimane bastano per fare uno spettacolo, se invece si fa una ricerca di senso esistenziale, si fa arte, allora la concezione e le necessità di tempo cambiano. A teatro il tempo è un tema, è un’arte che parla del tempo e ad esso è molto legata».
La fine del workshop procede verso una sorta di messinscena, culmina in un momento performativo aperto a un piccolo pubblico di organizzatori e operatori («un’improvvisazione che abbracci tutta la pièce, nel complesso della cornice creata insieme»), risultato forse solo apparentemente inaspettato, in cui fisiologiche imperfezioni trovano contrappunto in picchi di lucida brillantezza, come accade quando le intenzioni o le proiezioni di un disegno si fondono all’imprevedibilità di forme del reale. Prima delle dipartite, dei saluti, dei brindisi, degli abbracci con promesse di incontri futuri, dei treni per le partenze, delle ultime sere a precedere il ritorno, di ritrovi supposti o programmati, le note di Oskaras Koršunovas sono per gli elementi di riflessione da portarsi via, sono quelle di un direttore di scena che si fa didatta e ribadisce come ogni personaggio si distingua per avere un suo “tema” e un suo “schema”, un proprio leitmotiv, che riafferma la centralità dell’ “intuizione” intesa come fiducia nella guida del corpo e della coscienza acquisita, con l’unico diktat di fare in modo che “il ritmo cresca” considerando pure che una volta cominciata l’azione non è più possibile tornare indietro. Come in un viaggio, in ogni cammino alla ricerca o alla scoperta di un’arte che si conosce e non si sa mai fino in fondo «la casualità non casuale è fondamentale. L’improvvisazione è la base della creazione, una mistura di casualità e struttura rispetto alla quale è importantissimo fidarsi del proprio intuito».
Marianna Masselli
Spazio Matta, Pescara, maggio 2018
Allievi attori: Monica Ciarcelluti, Daniele Ciglia, Elena Rivoltini, Serena Di Gregorio, Ugo Fiore, Simone Fraticelli, Simone Luglio, Mariangela Celi, Massimo Sconci, Alessio Tessitore, Dario Aita, Alessandro Bandini, Tamara Balducci, Sebastiano Bottari, Giulia Eugeni, Fabio Pagano