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Danza Fuori Programma. Intervista a Mauro Astolfi

Foto Cristiano Castaldi

Fuori Programma è un festival di danza nato tre anni fa al Teatro Vascello di Roma. Oggi l’avventura di questa rassegna internazionale prosegue grazie alla direzione artistica e produttiva di Valentina Marini, già anima insieme a Mauro Astolfi di Spellbound Contemporary Ballet. Si tratta di una proposta che oggi muove i propri passi a partire dalla passione e dalla volontà di mantenere attivo uno spazio dedicato alla danza anche a fronte del mancato finanziamento di un centro di produzione nazionale di danza (è possibile sostenere il festival tramite la campagna di crowdfunding lanciata a sostegno di questa iniziativa indipendente). Il progetto, se fosse stato insediato a Roma, avrebbe inglobato il festival portando in città di quella che Valentina Marini definisce la “dimensione media” delle compagnie di danza attive sul fronte internazionale: quelle compagnie che ancora non rientrano nelle grandi programmazioni e che non solo meritano attenzione, ma anche dimostrano di avere molto da dire, esprimendo in alcuni casi un chiaro messaggio artistico e politico.  Si tratta, inoltre, di compagnie che la direttrice artistica ha contribuito a inserire in un progetto di circuitazione che riguarda anche altri festival internazionali tra cui Bolzano Danza e Civitanova Danza. Fuori programma rispecchia queste caratteristiche e proprio al suo interno debutterà il prossimo 25 luglio la nuova produzione di Spellbound Contemporary Ballet con le coreografie di Mauro Astolfi che nei giorni scorsi abbiamo intervistato.

Come si colloca questa nuova produzione nel tuo percorso artistico e in quello della compagnia?

Questo nuovo lavoro si chiama Full Moon ed è un lavoro sulla luna piena, ma non nel senso didascalico del termine. Mi interessa molto la reazione che gli organismi viventi hanno rispetto ai fenomeni lunari. È da molti anni che penso di occuparmi di questo fenomeno naturale nel quale tutti gli esseri viventi sono immersi, inconsapevolmente. Ho riportato nella danza molte informazioni che ho raccolto leggendo diversi contributi, anche scientifici, sull’argomento. In sala prove stiamo sviluppando un approccio diverso alla percezione del movimento, per esempio lavorando molto a occhi chiusi. I danzatori, in questo modo, devono avere a che fare con il movimento in maniera diversa. Si cerca di analizzare i cambiamenti della percezione rispetto alle fasi lunari e in particolare rispetto al plenilunio. Si pensi che, in alcuni stati, le effrazioni compiute durante le fasi di luna piena subiscono delle attenuanti in quanto si tiene conto dell’influenza che questa può avere sul corpo umano. Rispetto al repertorio della compagnia, questa nuova produzione si inserisce in un percorso dove le coreografie che compongo tendono a essere una diversa dall’altra. C’è, naturalmente, uno stile riconoscibile, ma non mi sono mai preoccupato di esprimere o meno una continuità nei miei lavori. Il carattere di novità è tracciato dagli interpreti coinvolti e dal modo in cui loro si pongono nel processo di creazione.

Pensi che il linguaggio della danza contemporanea possa parlare al nostro presente?

Penso di sì. Oggi viene espresso molto meglio che in passato, ci sono sempre più autori che cercano di interpretare la contemporaneità. Se si fa danza esprimendo la propria vitalità, senza affondare nel passato, si crea una danza che naturalmente parla al presente. La questione riguarda maggiormente il pubblico che viene attratto in teatro, spesso, dai titoli di balletto classico nei quali si riconosce con maggiore facilità. La danza contemporanea parla al presente, ma il pubblico ha difficoltà a interpretare la contemporaneità, perché non è abituato.

Che cosa pensi del sistema danza italiano?

La danza in Italia vive un processo di mortificazione costante, il nostro sistema forse è il peggiore del mondo. La sensazione è che la danza sia “tollerata” e inserita nelle programmazioni all’ultimo, dopo tutto il resto. I corpi di ballo vengono chiusi, uno dopo l’altro, questo è un messaggio chiaro. Si parla di resistenza, nel nostro settore, siamo come dei partigiani. Non si possono fare confronti con altri paesi europei, perché ovunque si guardi le tutele sono migliori. Anche la formazione dei danzatori è una grossa questione. Ci sono ottimi maestri in Italia, e moltissimi allievi che hanno voglia di apprendere e di fare. Le scuole, però, non sempre sono di qualità, perché non c’è regolamentazione ma c’è un grandissimo pubblico. Ci sono un milione e mezzo di iscritti alle scuole di danza e non una vera e propria visione dedicata a questo grande bacino d’utenza. Il sistema della formazione è una giungla in cui può essere difficile orientarsi. Consiglierei a un giovane danzatore di vivere pienamente il processo di formazione senza pensare troppo al futuro. Bisogna avere una grande passione per il lavoro in sala prove, per il lavoro sul proprio corpo. Lo studio va approcciato senza pensare troppo ai risvolti lavorativi.

La tecnica classica ricopre un ruolo importante nel tuo lavoro. In che modo la integri nella tua visione?

Utilizzo la tecnica perché credo che un danzatore con un background di danza classica abbia una struttura muscolare più duttile. La tecnica classica non la riporto nel mio lavoro in quanto tale, ma è il training di base della compagnia. Un corpo preparato dalla danza classica ha una maggiore sensibilità anche se ci sono effettivamente performer che non hanno queste conoscenze, ma sono eccezionali. Non considero la tecnica come un dogma, ma ritengo sia molto importante. Per esempio, credo che discipline come la breakdance abbiano molto da offrire. Tutto quello che riconosco nascere da un’intenzione vera può entrare nella mia visione artistica, per me questo è molto importante.

Come interpreti il titolo del Festival, Fuori Programma?

“Fuori programma” per me significa la possibilità di non programmare rigidamente attenendosi a un unico modo di pensare la danza contemporanea. Il Festival, per come l’ha ideato Valentina Marini, offre una molteplicità di stili diversi tra loro che si rivolgono potenzialmente anche a pubblici diversi. Non c’è fissità di veduta, senza dubbio ci interessa andare in questa direzione.

Redazione 

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