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Bohème, metropoli contemporanea

Il Teatro dell’Opera di Roma, che inaugurerà l’estate dal 3 luglio alle Terme di Caracalla, ha scelto la Bohème di Giacomo Puccini diretta dal regista Àlex Ollé per la chiusura della stagione invernale al Costanzi.


People say graffiti is ugly, irresponsible and childish. But that’s only if it’s done properly.

Banksy

Foto Ufficio Stampa

Se alla frase di Banksy (il celebre street artist inglese) sostituiamo “people” con “pubblico operistico” e “graffiti” con “regia lirica contemporanea” ecco che ne nasce una perfetta finta citazione provocatoria, che potrebbe verosimilmente appartenere ad Àlex Ollé, il regista responsabile della Bohème ora in scena al Teatro dell’Opera di Roma, coprodotta con il Teatro Regio di Torino, dove è andata in scena nel 2016.
Nonostante Ollè – ancora associato alla compagnia teatrale de La Fura dels Baus, famosa per le sue sperimentazioni estreme – abbia decisamente virato dallo stile altamente decostruttivo che caratterizza i lavori di quest’ultima in favore di un più concreto (e, inevitabilmente, semplificato) iperrealismo, il pubblico romano risulta ancora riluttante ad accettare una Mimì che non sia una parigina del diciannovesimo secolo.
Una riluttanza che, oltre ad essere ormai scaduta e fuori moda, appare per quest’allestimento del tutto ingiustificata: il regista catalano non effettua neppure un cambiamento, né un’aggiunta alla base drammaturgica costituita dalle indicazioni del libretto, ma si limita semplicemente a trasporre la vicenda così com’è in una periferia urbana dei giorni nostri. E non solo, come spesso si suol dire a proposito delle trasposizioni nella contemporaneità, la storia “regge”, ma il trasferimento temporale funziona così bene che non può che spingerci a domandarci: “Siamo davvero ancora come 180 anni fa?”.

Foto Ufficio Stampa

Prima ancora che il sipario si apra, siamo posti di fronte alla gigantografia dello scenario che ci accompagnerà per i successivi quattro quadri: un grigio “casermone” d’acciaio, un complesso di palazzine popolari vecchie e anonime, composte di minuscoli appartamenti dai soffitti bassi, inesorabilmente replicati in serie, tutti finestre e cassoni di condizionatori. La scenografia di grande impatto visivo di Alfons Flores ci immerge nel tema principale d’indagine di questo allestimento, la periferia urbana: graffiti di Banksy, canne, discount, night club, prostitute, transessuali, venditori abusivi, carabinieri, extracomunitari e spacciatori si alternano sul palco che non rimane mai vuoto, ma sempre in condizioni di semibuio.
Tutto è sporco e squallido, ma è proprio in un tale contesto che si genera la nuova arte bohémienne, che qui è quella dei graffitari, della musica elettronica, della vita notturna, ma soprattutto dei giovani e del precariato che li accompagna. Fa freddo ed è sempre buio, ma per i quattro allegri coinquilini abitanti nel cubicolo centrale non sembra essere un gran problema, dato che, né la mancanza di denaro per comprare semplicemente del cibo, né la scarsità di fuoco spegne la loro voglia di goliardia. Come dice chiaramente il regista: “Questi giovani hanno fame di tutto, hanno fame della vita”.
Così si delinea la storia di questi ragazzi, Rodolfo (Giorgio Berrugi), Marcello (Massimo Cavalletti), Colline (Antonio di Matteo) e Schaunard (Simone Del Savio) in eterna lotta con la respingente società circostante, così come lo è stata la versione pucciniana di loro stessi: uno scrittore, un pittore, un filosofo e un musicista che nonostante il futuro incerto abbracciano con passione la vita e l’amore. Due amori, quello di Rodolfo e Mimì (Vittoria Yeo) e quello di Marcello e Musetta (Olga Kulchynska) si rispecchiano e si contraddicono, mostrando come la passione giovanile diventi fuoco, sentimento, gelosia, ma soprattutto paura.

Perché ciò che rovinerà questo già fragile equilibrio non è un “cattivo”, così come lo è Pinkerton per la Butterfly o Scarpia nella Tosca. Il vero nemico di questi ragazzi si incarna paradossalmente proprio nella “gaia fioraia” Mimì, che con la sua malattia e la morte li porrà di fronte al dramma più grande della loro generazione: crescere. La minuscola casa che fino a qualche mese prima sembrava non essere in grado di contenere la grandezza e l’urgenza dei loro sentimenti, alla morte di Mimì diventa un bicchiere rovesciato all’interno del quale i cinque giovani si aggirano come mosche impazzite: nessuno sa cosa fare, né dove guardare. La realtà è arrivata e non si può più evitare.

Foto Ufficio Stampa

Tutto ciò che li circonda gli va stretto, oltre ad essere irrimediabilmente vecchio: abitano case riempite di mobili vecchi (anni ’60- ’70), ritinteggiati e graffitati in una strenua ricerca di senso di appartenenza, i locali che frequentano sono pieni di elegantissimi over 50 radical chic cocainomani, “turisti del disagio” venuti ad annusare un po’ di povertà dei bassifondi. Questa periferia è un frullatore di contrasti e controsensi, di pacchiano ed elegante, apparenze e mancanze nel quale i quattro giovani artisti proprio non riescono a collocarsi. E così la signora in jeans che durante l’intervallo si lamenta di vedere i cantanti in scena con “quei vestiti sciatti… in jeans!” è sorprendentemente simile alla signora, questa volta in scena, che si lamenta della sconveniente esuberanza di Musetta (la quale per farsi notare da Marcello si sdraia in pose languide sul tavolo dove la signora sta cenando) ma non si scompone se la cena le viene servita da discinte cameriere seminude. Quando le luci si alzano in sala gli applausi sono piuttosto tiepidi, nonostante le inattaccabili performances vocali di tutti i cantanti. Solo qualche “Bravo” a Giorgio Berrugi che in effetti svetta sugli altri in potenza e sensibilità, guadagnandosi un momento di gloria a scena aperta dopo la celebre aria “Che gelida manina”. Ci lascia commossi nell’intimo finale Vittoria Yeo quando, dilaniata dal cancro, spira sulla vecchia poltrona di stoffa accanto a un confusissimo Rodolfo. Buona anche la direzione di Henrik Nánási, concentrato a dare risalto ai contrasti della partitura tra i leitmotiv che identificano i quattro ragazzi e i momenti lirici riservati al dramma che investe i due protagonisti.

Flavia Forestieri

 

DIRETTORE
Henrik Nánási e Pietro Rizzo (22, 23, 24)
REGIA
 Àlex Ollé (La Fura dels Baus)

Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Scene Alfons Flores
Costumi Lluc Castells
luci Urs Schönebaum

Principali interpreti

Mimì Anita Hartig / Vittoria Yeo 14, 17, 20, 22, 24 / Louise Kwong* 16, 21
Rodolfo Giorgio Berrugi / Ivan Ayon-Rivas 14, 16, 20, 22, 24
Musetta Olga Kulchynska / Valentina Naforniță 14, 16, 20, 22, 24
Marcello Massimo Cavalletti / Alessandro Luongo 14, 16, 20, 22, 24
Schaunard  Simone Del Savio / Enrico Marabelli 14, 16, 20, 22, 24 
Colline Antonio di Matteo / Gabriele Sagona 14, 16, 20, 22, 24
Alcindoro Matteo Peirone
Benoît Matteo Peirone

* dal Progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento in coproduzione con Teatro Regio di Torino con sovratitoli in italiano e inglese.

 

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Flavia Forestieri
Flavia Forestieri
Flavia Forestieri ha studiato all’Università “La Sapienza” di Roma, laureandosi in Letteratura, Musica e Spettacolo, con una tesi in storia della musica sull’opera di Bertolt Brecht “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, e, successivamente, in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi sulla regia lirica contemporanea, analizzando quattro regie de “La traviata” di Verdi. Dopo aver vinto il bando Luiss “Generazione cultura”, ha lavorato in ambito della comunicazione come addetta e stampa e social media manager alla Reggia di Caserta. Attualmente frequenta il Master in “Drammaturgia e Sceneggiatura” all’Accademia Nazionale “Silvio d’Amico” di Roma. Dal 2017 collabora con Teatro e Critica occupandosi di recensioni di spettacoli d’opera.

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