La politica, non solo quella di partiti e istituzioni, sta divorando il discorso della cultura. Al termine di una giornata di frustrazione ed emergenza, proponiamo una riflessione sul senso del “noi” e sulla comunità che abitiamo. O che pensiamo di abitare.
Al termine di una giornata dominata da cronache surreali, che faranno passare alla storia narrazioni urbane di corpi politici presso i quali, letteralmente, una mano è in grado di ignorare l’operato dell’altra, abbiamo sentito l’esigenza di risollevare anima e corpo sopra questo senso di comunità di cui le nostre pagine, oggi, hanno cercato di prendersi cura. Da questa mattina siamo stati presenti al tentativo di “sigillare”, saldandone le porte, l’Angelo Mai di Roma. Esito della giornata: una sospensione del provvedimento del quale approfittiamo anche noi, su queste pagine, per tessere un tentativo di ragionamento serale, che si propone distensivo, ma vitale. Ne emerge una visione su questo nostro piccolo mondo e sul suo senso di giustizia: una riflessione semi-estemporanea che gli accadimenti di oggi hanno stimolato e nutrito, provando a dare una nuova tridimensionalità a quel senso di comunità plurale, culturale e partecipativa nella quale muoviamo corpi e pensieri.
Infatti, se c’è un senso che ancora possiamo dare a quel “noi” nel quale possiamo provare a identificarci, noi che di cultura tentiamo di vivere o sopravvivere, quel noi risiede nel poterci riconoscere partecipi di diverse forme di esperienza basate su quello strano principio umano che è la relazione. Nell’interconnessione con gli altri, e con i contesti nei quali ci muoviamo, le nostre individualità trovano posto. A noi che scriviamo, a volte capita di sentirci posizionati all’estremo di un dialogo che da queste pagine possiamo a volte lanciare, a volte difendere, a volte mediare: ma tutto cambia quando ci si sente “la metà di niente”.
Per anni abbiamo articolato pensieri, veicolato opinioni, osservato l’evolversi delle situazioni; abbiamo atteso a lungo, e se c’è una cosa che la nostra generazione ha imparato a fare, questa è sviluppare doti quasi soprannaturali, capaci di rendere magnifiche attese che avrebbero annientato, potenzialmente, la vitalità di qualsiasi organismo vivente, figurarsi quelle di organismi delicati quali la conoscenza e l’arte in tutte le loro forme. E così siamo cresciuti, in una lotta che non è quasi mai stata veramente volta all’avanzamento delle nostre vite verso scenari migliori, nemmeno quando abbiamo assunto sulle nostre spalle l’identità scomoda di migranti di lusso, e nemmeno (o quantomeno non solo) la nostra lotta è stata volta a una vera forma di resistenza come quella dei nostri avi.
Siamo cresciuti in una lotta tacita sul piano profondo della giustizia, tanto che oggi questa nostra lotta non si accompagna più a una o più domande, ma a una richiesta di diritto all’esserci. Non ci manca la capacità di distinguere tra situazioni in cui ci confrontiamo con ciò che è diverso da noi o con ciò che è conflittuale rispetto alle nostre idee, alle nostre posizioni, ai nostri desideri. Ci professiamo resilienti e ci diciamo che è una nostra scelta: accogliamo lo stress di una vita liquida che è stata teorizzata, praticamente in diretta, mentre ne facciamo esperienza. Abbiamo fatto nostre tutte le possibili asimmetrie – di Stato, di stato, di status, di stadio e questo elenco lo si potrebbe continuare a lungo. Oggi crediamo di essere arrivati a un punto in cui il presente va pensato in quanto tale: dobbiamo seriamente domandarci a quali categorie del pensiero sociale vogliamo consegnare quel “noi”.
La storia pare averci insegnato che la concezione di un “noi” non è separabile da un contesto socio-politico di riferimento, dalla comunità. Abbiamo investito tutti molto tempo nel dare una dignità nuova a questa parola in un mondo che sempre più spesso fa a meno dei contatti reali. Ci siamo fatti le ossa, dicevamo, sull’asimmetria contenuta nel “noi” pronome personale: abbiamo capito che quel “noi” non trova più posto in quell’insieme di concezioni giuridiche e politiche, e nemmeno possiamo indignarci rendendoci conto che quella parte che dovrebbe sempre essere figlia di dialoghi e quindi futuribile, nel “noi”, è stata depotenziata, silenziata. Non siamo più abituati a pensare la giustizia come una categoria della nostra esistenza.
La necessità di identificarci, che arriviamo a volte a vivere quasi con senso di colpa, è una caratteristica propria dell’essere umano affinché si possa avere una vita mediamente buona, positiva. Abbiamo imparato a essere auto-sufficienti, assolvendo al progetto primario di qualsiasi individuo, articolando con profitto lo stare insieme con lo stare nei luoghi. Ci siamo donati a vicenda la capacità di essere “noi”, soggetti, riconoscendoci. Oggi, in diversi territori, assistiamo a movimenti che tentano di privarci non della nostra facoltà di parola, ma del modo e dei luoghi in cui noi questa facoltà la esercitiamo. Forti dei nostri corpi, anche se ci vogliono far credere che la nostra condizione sia oggi quella degli schiavi, non dobbiamo dimenticare che alla guida dell’interazione tra la nostra auto-sufficienza, chi intende produrre la nostra soggettività e i rapporti di potere, ci siamo noi che non solo le porte, ma anche le menti, le lasciamo quanto più possibili aperte.
«Justice refers to the ethical category of the existing, virtue the ethical category of the demanded».
Walter Benjamin: Notes to a Work on the Category of Justice
Gaia Clotilde Chernetich