Intervista a Eleonora Pippo autrice del concept e della regia dello spettacolo Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra. Creazione people specific per ragazze under 18 e la loro comunità tratto dalla graphic novel di Ratigher e in scena a giugno a Dominio Pubblico.
Eleonora Pippo ha una formazione classica; lavora inizialmente con Carmelo Rifici con cui ha intrapreso gli studi teatrali allo Stabile di Torino, recita con Valerio Binasco e poi Franco Branciaroli in uno spettacolo di Claudio Longhi, viene diretta da Elio De Capitani. Nel 2005 inizia a interessarsi di drammaturgia contemporanea, sia italiana che straniera, tra cui i testi dello sceneggiatore di American Beauty, Alan Ball e, tra gli italiani anche Davide Carnevali. Però ha sempre letto tantissimi fumetti, mettendo in scena qualche anno fa il Musical lo-fi, a partire dalla saga cult di Davide Toffolo Cinque allegri ragazzi morti. Proprio da questa passione deriva anche lo spettacolo Le ragazzine stanno perdendo il controllo, la società le teme, la fine è azzurra, tratto dall’omonima graphic novel di Ratigher (aka Francesco D’Erminio). Linguaggio diretto, tagliente come «proiettili d’argento per i cervelli della classe media», lo spettacolo recupera la grana acida dei colori del teen drama, i tratti del disegno che raccontano un’adolescenza conflittuale, in perenne (a volte ingenua) opposizione verso una ricerca identitaria dentro una scena tutta sovraesposta, in cui il pubblico accerchia, a luce piena, alcune ragazzine tra i 13 e i 18 anni. Dopo averlo visto al Teatro della Tosse di Genova – che assieme a lei lo co-produce, in aggiunta al supporto di Kilowatt Festival e del Coconino press-Fandango Editore di cui D’Erminio è direttore – l’abbiamo incontrata in vista della prossima tappa che si svolgerà al Teatro India di Roma, nell’ambito del Festival Dominio Pubblico dal 26 maggio al 3 giugno. [Qui la chiamata alla partecipazione]
Protagoniste di questo progetto partecipativo “people specific” sono delle giovani adolescenti le quali di volta in volta rispondono alla chiamata, organizzata dalla struttura ospitante, e per alcuni giorni prendono parte alla lavorazione con la regista in vista di un’unica e sola replica che intreccia il fumetto a momenti performativi, concludendosi con un’enorme installazione gonfiabile, La fine è azzurra, concepita dalla stessa artista friulana.
Come è strutturato il progetto?
Tutto lo spettacolo parte da questo fumetto bellissimo di Ratigher, ma il sottotitolo, Creazione people specific per ragazze under 18 e la loro comunità, è significativo rispetto il mio approccio teatrale perché le ragazzine che vi aderiscono sono strettamente legate alle altre persone che verranno a vederle e che completeranno i ruoli adulti della trama dello spettacolo. Tutta la parte di “fiction” è tratta dal fumetto che racconta di due ragazzine delle scuole medie con la passione per le analisi mediche. E poi invece c’è la costruzione registica che assembla questo con il resto, come le lettere scritte alle loro stesse del futuro.
Come viene trattato questo lavoro dal punto di vista produttivo?
A tutti gli effetti è uno spettacolo, anche se noi presentiamo 7 giorni di lavorazione e un giorno di messa in scena. Preferisco non utilizzare il termine laboratorio perché rimanda a un metodo di insegnamento fuorviante rispetto a questo progetto teatrale partecipato. Quei giorni sono una parte integrante e impegnativa dello spettacolo. Inoltre, non voglio che in questo contesto si innesti il concetto di ripetizione, di replica, di formazione classica. È tutto giocato sul tempo, sulla velocità, sulla relazione immediata, e su una sola occasione e basta.
Che tipo di lavoro fai con le ragazze e quanto questo entra poi nella drammaturgia?
Il lavoro che propongo è molto classico dal punto di vista interpretativo. Parlo sempre di sotto-testo, dell’importanza della relazione con l’altro. La verità si mescola con la finzione, dunque sicuramente in parte seguono i caratteri dei personaggi, ma ci mettono del proprio. Il percorso fatto con le ragazze entra poi anche molto nelle scelte musicali. Io so che in certi punti dello spettacolo sono necessarie delle musiche, ma le scelgono loro; fanno delle proposte, le ascoltiamo assieme, ma sta a loro decidere quali inserire, a parte alcune canzoni come quella della scena di pattinaggio e quella finale, che sono sempre presenti e sono del gruppo musicale del collettivo artistico trentino Pop X [nello specifico al fondatore Davide Panizza e al componente di spicco Niccolò Di Gregorio, ndr], a cui ho chiesto proprio di comporre dei brani appositamente.
Rispetto alla drammaturgia del fumetto che tipo di cambi hai operato?
Il fumetto svela la fine fin dall’inizio, Motta lo dice già dalle prime pagine «dopo la morte di Castracani», io ho voluto andare dentro il suggerimento dell’autore e, soprattutto nel terzo tempo, esplorare quel “dopo”, fuori il tempo narrato da Ratigher. Questo lavoro mi è servito a capire quale linguaggio debba parlare il teatro per entrare veramente in relazione con le persone, mi interessa il completamento che può compiere il pubblico. Le vignette sono inserite in quello che tecnicamente è lo spazio bianco, e credo sia lì che si concretizzi l’idea che ho di teatro. Il lettore di fumetto mette insieme i passaggi, crea la cornice della storia, e per me accade lo stesso in teatro.
Le ragazze in più di un caso fanno parlare qualcuno dal pubblico seguendo una struttura e una formula ben precisa; quello che è interessante è la dinamica che si crea al di là delle parole, come prevedendo lo spazio per un racconto parallelo, sottotraccia. Loro scelgono di rivolgersi sempre a qualcuno della loro comunità?
Loro chiedono al pubblico se c’è qualcuno che voglia aiutarle, ma non è detto che scelgano qualcuno che conoscano.
Tutte interpretano a turno le due protagoniste, Motta e Castracani, le altre compagne di scuola e allo sviluppo della storia tratta dal fumetto si inseriscono dei momenti performativi. Questa scelta a cosa risponde?
Io chiedo sempre che ci sia qualche ragazzina che sappia recitare, danzare o cantare, o almeno che sia curiosa di farlo. Sicuramente quelle parti mi servono per rendere chiari i passaggi temporali, così come trascorre il tempo all’interno del fumetto. Però quelle parti ci sono soprattutto perché mi serve che il pubblico stacchi la spina della comprensione logica, e che stia a guardare una cosa meravigliosa, anche non controllata. La musica in questo è utilissima, ti sgancia dalla comprensione logica della trama e permette alla mente di entrare in comunicazione empatica, di vagare, di proiettare qualcosa di proprio e di riempirlo con la vita.
È quindi una scelta volontaria di rottura del ritmo?
Sì, assolutamente. Lo spettacolo è pieno di cadute di ritmo, tempi che teatralmente non funzionano. È costruito sulle imperfezioni. Perché in quel tempo che non funziona nascono i sentimenti, emerge anche qualcosa di fastidioso, ma comunque ingenera qualcosa in tutti. È qualcosa di vero.
Non ci potrebbe essere il rischio di un’esposizione eccessiva da parte delle ragazzine che prendono quel momento esclusivamente come un’esibizione?
Certo, è proprio questo il punto. Le espone ma espone allo stesso modo il pubblico, siamo noi che abbiamo problemi ad accettare quella “micro-morte”. Quando c’è una performance che ad esempio non funziona, a me interessa. È interessante che in sette giorni si possa creare qualcosa che potrebbe essere imprecisa, ma in grado di stare sul palco, nell’accettazione di quella fragilità. Certo, si espongono, non hanno niente, nemmeno la propria persona.
Durante queste performance ad esempio arrivano da parte del pubblico alcuni applausi, quasi come se fosse un saggio, anche se è chiaro che la struttura è molto diversa…
È il pubblico che non ci sta dentro, è lui che deve applaudire, perché si sente male. È difficile guardare queste cose, perché muove delle emozioni. Non si è abituati. È stare insieme in un vuoto, negli spazi vuoti e allora lì entra in gioco tutta l’emotività nostra e del pubblico, sia singolarmente e che di gruppo.
Questo ad esempio accade durante i momenti drammaturgici provenienti dal fumetto, in cui loro stanno a lungo in silenzio…
Considera che il pubblico in quei momenti lì viene sollevato, durante i momenti musicali è come se tirasse un sospiro di sollievo. A me non interessa che il pubblico sia “preparato” a questa esperienza. Anzi, paradossalmente, se fossero tutti estremamente consapevoli, emergerebbe solo l’aspetto intellettuale e sarebbe qualcosa di morto. Non mi va che il pubblico debba essere guidato, deve provare il vuoto. Che la trama arrivi o non arrivi, a me non interessa, preferisco che ciascuno si senta libero. Questo suggeriscono anche le luci accese, il fatto che loro siano sempre lì in scena.
Dunque, il lavoro è pensato per un tipo di pubblico specifico?
No, non è mai pensato soltanto per le persone che conoscono le ragazzine, anzi. Quando ho deciso di fare questa cosa avevo in mente Roger Bernat, i Rimini Protokoll, quel teatro lì. Però io a mia volta sono un’altra cosa. La dimensione non esclusivamente comunitaria è importante che ci sia. Tuttavia, quei momenti “fuori controllo” che si possono generare tra i vari soggetti in campo, è interessante che ci siano perché lì vedi anche altro.
In quali altri luoghi e situazioni hai lavorato sul progetto?
La prima volta in residenza a Sansepolcro, dove ho concepito la struttura, poi a Soliera ad Arti Vive da Stefano Cenci, ora qui a Genova e poi ci sarà Dominio Pubblico tra fine maggio e i primi di giugno, quindi a Pergine a luglio, in ottobre a Milano da Zona K e a gennaio prossimo al Nuovo Teatro Sanità di Napoli.
Anche in altre occasioni hai lavorato in maniera specifica rispetto un determinato territorio…
Save your wish è stato il primo lavoro in questa dimensione performativa che si poneva in forte relazione con il pubblico. Sono andata a fare un laboratorio di molti mesi con Via Negativa, a Lubiana. Questo collettivo molto interessante si concentra sull’azione che ingenera emozione nel pubblico, in una modalità molto approfondita e ironica anche sulle strategie della narrazione (e non a caso uno dei registi è un pubblicitario). Lì ho incontrato questa forma di coinvolgimento del pubblico. Gli spettatori di Lubiana decide se andare ad aiutare o meno, anche qui è uguale, le ragazze sanno che devono aspettare che qualcuno dal pubblico si offra di aiutarle, non possono essere loro a scegliere, altrimenti non vale.
Si tratta dunque di responsabilizzare chi vi assiste?
Esatto. Non potranno essere abbandonate dalla loro comunità, se dovesse succedere c’è un metodo di riserva. È un problema ma racconta della comunità. Per questo è molto importante il modo in cui le ragazze parlano col pubblico e l’informazione che danno. Viene chiesto di fare una piccola cosa insieme, ovvero di creare un piccolo cortocircuito tra la finzione e la realtà. Quando viene richiesto di “fare il padre” la parte è finta, ma la richiesta è vera. Se non arriva il padre lo spettacolo non va avanti, ma anche nella vita è così, si sovrappongono i significati.
Viviana Raciti
LE RAGAZZINE DI GENOVA STANNO PERDENDO IL CONTROLLO. LA SOCIETÀ LE TEME. LA FINE È AZZURRA.
Creazione people specific per ragazze under 18 e la loro comunità
concept e regia Eleonora Pippo
ispirato al fumetto Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra
di Ratigher
coproduzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse e Eleonora Pippo
con il supporto di Coconino Press – FANDANGO EDITORE
con Beatrice Augustaro, Margherita De Pascale, Alice Federici, Violetta Ghersina, Mara Giordo, Edna Pittaluga, Ilaria Romano, Matilde Tripi, Maddalena Vinco