Una riflessione sul concetto di classico e la necessità che il tempo contemporaneo ne produca perché sia leggibile al tempo futuro. A margine del Macbettu di Alessandro Serra
Un classico nelle arti è ciò che si sedimenta nel tempo contemporaneo con caratteri di immutabilità, non nelle forme, che possono essere indagate e tradotte in molte sembianze, ma certo nelle intenzioni intime, nella verità endemica che in esso risiede. La rilettura di un classico, dunque, suppone il mandato all’artista di non tradire i contenuti profondi dell’opera di appartenenza, cercando una strada formale perché quelle esigenze possano essere tradotte, trasposte in un contesto invece di maggiore attualità. È importante capirci su questo punto, quanto di un’idea di classico la comunità umana che fissa nell’arte i propri stilemi di evoluzione abbia stringente bisogno; quanto cioè nell’urgenza del divenire in un progresso culturale ci sia necessità che ogni tempo sedimenti il proprio classico nel tempo successivo.
Tali i pensieri, in un palchetto del Teatro Argentina dove il Macbettu di Alessandro Serra (qui una visione del primo studio a dicembre 2016) imponeva la traduzione del classico shakespeariano in una variante linguistica della Sardegna arcaica e pastorale, di fronte a una platea entusiasta, in cui mi è parso di rintracciare un’età media decisamente bassa, contando una grande presenza di una generazione in formazione. Nelle intenzioni più radicali di Serra è dunque la volontà di rinvenire gli elementi essenziali dell’opera, le volontà primigenie dell’autore, rievocandone il segno più netto nel posto apparentemente più lontano dal contesto in cui lui stesso ha scritto: la Sardegna, di certo lontana dall’immaginario tardo cinquecentesco di William Shakespeare, ma secondo il regista in grado di fornire delle similitudini marcate nei caratteri della vicenda.
E cominciamo col dire che il pubblico in sala ha reagito con tale adesione perché si tratta di uno spettacolo sontuoso e magnificamente recitato, in grado di convogliare il lascito shakespeariano in un’estetica consapevole, dosata nell’atmosfera con un integralismo che promuove Alessandro Serra a uno tra i maggiori registi italiani di questa generazione, mentre va diventando adulta. L’abbiamo evidenziato con i lavori precedenti – dai recenti Frame o H+G ai più lontani Aure o Il trattato dei manichini – quanto la qualità stilistica di Serra abbia pian piano abbandonato certa evanescenza estetizzante e raggiunto una maturità ricca di una componente drammaturgica un tempo non ancora sviluppata.
Eppure qualcosa, tra le maglie larghe di una percezione sensibile, introduce pensieri non in verticale, pertanto nella storia, ma di lato, nell’orizzontalità del mondo contemporaneo. In primo luogo la scelta di sviluppare nell’arcaicità formale una tragedia ormai universale è piuttosto arguta, esteticamente valida, capace di creare un Macbeth di grande spessore rimasticato in altra lingua; ma il punto di osservazione che mi interessa è la percezione di un pubblico giovane, apparentemente non incline a un lirismo estremo come il verso di Shakespeare, qui con l’aggravante di essere tradotto in una musica bellissima e incomprensibile. Se leggiamo questo dato di partecipazione del pubblico, il segnale che ne arriva è forse che le cose stanno meglio di come ci si racconta, che cioè il linguaggio classico è di più facile comprensione rispetto a ciò che pensano i fanatici dello stile quotidiano, colloquiale, alleggerito fino al punto da dichiararsi, infine, povero.
A quanto pare, invece, questa epoca sembra pronta all’occasione di rinnovare il mondo futuro a partire dal nostro presente, tralasciando le buone operazioni di riconoscere il classico nel classico, ma una buona volta accogliendo il coraggio di comporre in una lingua alta ciò che sarà il racconto di questo tempo al successivo. Colpevole sottovalutato, per quanto naturale e spontaneo, è il riguardo che abbiamo nei confronti di una tradizione altisonante e cristallizzata, onorabile certo, ma che rischia di impedire una nuova fortuna artistica a concetti universali. Che cosa avrebbe dovuto fare lo stesso Shakespeare di fronte alla monolitica tragedia greca? Tagliarsi le mani? Nonostante il modello, egli ha coraggiosamente scritto. Imponendo al mondo un modello successivo.
Abbiamo da pochi anni salutato un secolo denso e contraddittorio, ma per questo perfetto ad essere storicizzato attraverso le figure che l’hanno caratterizzato. Mentre si avviava alla conclusione il grande poeta Iosif Brodskij, in una conferenza sul tema dell’esilio, dichiarava che «tutto quel che resta a un uomo è lui stesso e la sua lingua», evidenziando più avanti, nella prolusione per l’assegnazione del Premio Nobel nel 1987, come la letteratura si presenti in quanto mondo non ancora visibile e la lingua sia il suo campo di attuazione, la sua essenza originaria, arrivando a dichiarare la poesia come «meta della nostra specie»; viviamo un’epoca che ha convertito le forme d’arte a un livello inferiore rispetto alla storia, ancora Brodskij ci aiuta e definisce che «solo se abbiamo deciso che per l’homo sapiens è venuto il momento di fermarsi nella sua evoluzione, solo in questo caso la letteratura dovrà parlare la lingua del popolo. In caso contrario sarà piuttosto il popolo a dover parlare la lingua della letteratura». Siamo pronti, scrittori, artisti italiani, europei, a recuperare l’eredità degli avi fino a saperli in un colpo tradire? Siamo pronti a leggere L’Hitler a Berlino o l’Ebreide? O, dalle nostre parti, il Papa Tiranno o Il Berlinguer? Eppure non è stato tempo, il nostro tempo, privo di tragedie esemplari. Scrivere è investire nella lingua che le dirà, fin da ora, al mondo che non è ancora.
Simone Nebbia
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