Una riflessione sullo stato di salute del teatro off di Roma: un tentativo di fotografare l’estrema vitalità e le problematiche connesse alle piccole esperienze teatrali.
A Roma esiste un panorama teatrale più che vitale, un paesaggio nascosto, disordinato, impossibile da etichettare, eterogeneo, autosufficiente, giovane (ma non solo), è il cosiddetto teatro off. Del nome derivato dalle esperienze dell’off (e off-off) Broadway (che identifica quelle produzioni ospitate nei teatri meno centrali e più piccoli) è rimasto, nel contesto italiano, il concetto di indipendenza economica, la mancanza di qualsiasi sostegno pubblico.
Dal punto di vista produttivo, l’arcipelago dei teatri off romani è la soglia di partenza per chi deve farsi le ossa e spera di essere notato da qualche osservatore, critico e operatore. Ma qui si annida il primo problema: tra stagioni, rassegne e festival, il fenomeno sfugge a qualsiasi ipotesi di analisi sistematica. La quantità di proposte supera di gran lunga la possibilità di un vero inquadramento. Sono questioni che abbiamo affrontato già qualche anno fa in occasione del Roma Fringe Festival, che soffriva proprio questo approccio bulimico. Durante la stagione la questione è la medesima: un osservatore che volesse avere una percezione completa del fenomeno dovrebbe girare quotidianamente nelle piccole sale romane rinunciando così ad altri importanti appuntamenti. Il rischio in questo senso è che questa vivace comunità guardi solo a se stessa mancando quell’imprescindibile scambio con artisti e circuiti più strutturati. Inoltre, come è facile immaginare, questa situazione non permette una crescita e spesso circoscrive il giudizio su un determinato lavoro in una claustrofobica tautologia.
Insomma, nella peggiore delle ipotesi, alcuni artisti e compagnie rischiano in questo modo di essere a vita tra i protagonisti del teatro off cittadino e rimanere però sconosciuti ai programmatori dei teatri pubblici o di quelli privati di taglia maggiore. La conseguenza immediata è relativa a un gap di professionalità: è praticamente impossibile vivere del proprio lavoro circuitando solo nei piccoli teatri. Inoltre, se spesso i critici e gli operatori più importanti fanno fatica a seguire le stagioni dei piccoli teatri indipendenti, i gestori allo stesso tempo hanno difficoltà a relazionarsi con quello che offrono gli appuntamenti del circuito nazionale.
Quello economico d’altronde è uno dei tasti più dolenti. La pratica comune vede compagnia e teatro dividersi le entrate attraverso percentuali che vanno dal 50/50 al 70/30 nelle migliori delle ipotesi. Ma ci sono anche spazi che affittano la propria sala o tendono a creare cartelloni misti (affitto e percentuale). Nonostante, insomma, la situazione sia quella descritta, molti dei teatri più in vista, tra quelli sotto ai cento posti, utilizzano lo strumento del bando per comporre le proprie stagioni, cavalcando la tendenza del momento che, anche a livello istituzionale, tende a elaborare una call per qualsiasi scelta. La persistenza della formula del bando ci racconta non solo la voglia di trasparenza a tutti i costi (e dunque la necessità di dare a tutti una possibilità, anche di maturazione), ma soprattutto la quantità di potenziali soggetti artistici che preme sui confini del teatro romano.
Parliamo in effetti di una città in cui l’offerta formativa si esprime quantitativamente in un modo mastodontico: sommando gli allievi dei laboratori scolastici, delle piccole e medie scuole, delle accademie (quelle private oltre a quella statale), dei laboratori saltuari, delle esperienze sociali e terapeutiche, si avrebbe una quantità di spettatori capaci di soddisfare l’intero mercato. Ma così non è, proprio perché molto spesso la settorialità di questi contesti impedisce sani travasi di pubblico. Esiste tra l’altro una certa audience – familiare e amicale – che compare ai saggi di fine anno e poi sparisce fino all’estate successiva. Aumentano però coloro che il teatro vogliono farlo, realizzarlo. Certo, in questo modo cresce anche il pubblico perché, nonostante il comune ritornello riferito alle platee sempre composte da addetti ai lavori, è pur vero che alle sale semi vuote si preferiscono quelle riempite da amici e colleghi.
Ed ecco che per gestire la mole ipertrofica di richieste i bandi risultano essere una modalità semplice e immediata di selezione.
Tra le numerose sale che possono definirsi votate al teatro off, rimarcando così l’indipendenza della loro impresa privata e quella degli artisti ospitati, ce ne sono alcune che negli anni hanno dimostrato un importante attivismo, spesso sollecitato da interessanti tentativi di innovazione e da una certa propensione per la ricerca artistica, questione che li differenzia dai tanti spazi anonimi o completamente votati al solo intrattenimento. Nella mappa dei luoghi più attivi troviamo il Teatro Studio Uno, il Teatro Trastevere, il Teatro Kopò (ai quali se ne aggiungono spesso di nuovi, come il recente RomaTeatri in zona Rebibbia) e, tra le rassegne e festival, oltre al Fringe si muovono esperienze come Inventaria, DoIt Festival e altri soggetti più o meno visibili. Alcuni artisti si esibiscono con lo stesso spettacolo in diversi teatri o eventi, i direttori si conoscono, collaborano per alcuni progetti, si fanno forza sui social a vicenda e si confrontano, creando informalmente una sorta di piccola rete cittadina. Bisogna poi specificare che alcuni di questi teatri hanno un proprio pubblico, spesso fisso e di quartiere.
Inventaria, la rassegna della compagnia Dove Come Quando diretta da Pietro Dattola quest’anno si è estesa attraversando, oltre ai teatri Studio Uno e Trastevere, anche spazi con vocazione e storia differenti come l’Argot Studio e Carrozzerie n.o.t.. Il primo porta con se il percorso e il sostegno di Argot Produzioni, il secondo è un luogo modulare, indipendente, ma che punta soprattutto sulle residenze e che dallo scorso anno ha un’importante influenza sulla programmazione di Romaeuropa Festival grazie al progetto Anni Luce. Entrambi possono rappresentare quell’anello mancante alla filiera del teatro off per smarcarsi dal rischio di implosione. In questo senso si potrebbe portare l’esempio di un artista come Dante Antonelli, vincitore qualche anno fa del Fringe Festival con Fäk Fek Fik e poi in grado di transitare verso interessanti opportunità con Romaeuropa Festival grazie anche al lavoro di scouting di Maura Teofili e Francesco Montagna (Carrozzerie n.o.t.), ma purtroppo sembra essere un’eccezione fortunata.
Anche per questi motivi era centrale l’attività di un luogo come il Teatro dell’Orologio, ora chiuso, ma che tenta con la propria anima produttiva di incidere ancora sulla città: attraverso un accordo di programmazione con il Teatro de’ Servi, tramite il quale ha strutturato per il prossimo anno una “stagione nella stagione” e contribuendo alle attività produttive del Teatro Studio Uno (qui l’interessante proposta di bando per la stagione 18/19).
Un altro ponte con le sale del circuito ufficiale è rappresentato dal festival Dominio Pubblico, che in questi giorni abiterà gli spazi del Teatro di Roma (Teatro India e foyer del Teatro Valle) programmando anche alcuni degli artisti già visti al Teatro di Torpignattara o in altri spazi dell’off romano. Ed è questo uno dei compiti più interessanti del progetto ideato da Luca Ricci e diretto da Tiziano Panici e Fabio Morgan (oltre a quello di lavorare su un pubblico di giovanissimi e sui futuri operatori): i ragazzi/organizzatori di Dominio non si risparmiano e per il teatro off sono delle vere e proprie antenne. Ma è pur sempre un’occasione limitata agli under 25, e che ormai comincia ad avere un profilo sempre più nazionale.
Insomma alcune positive novità si muovono, ma nell’assenza di una struttura progettuale unitaria, che invece permetterebbe un migliore dispendio di energie e farebbe anche da stimolo per attirare economie di sostegno e provare a incidere maggiormente verso istituzioni e politiche cittadine.
Rimane però visibile il più importante patrimonio che le piccole realtà della scena off possono mettere a disposizione e che andrebbe salvaguardato sempre: l’estrema libertà artistica e produttiva, la passione e l’abnegazione con cui i gestori hanno deciso di far combaciare la propria vita con i ritmi delle alzate di sipario, la qualità evidente della relazione con cui si prendono cura degli artisti e del pubblico; un patrimonio immateriale di libertà creativa e opportunità che merita attenzione e che deve puntare a emergere ancora più nettamente nel panorama teatrale cittadino, spesso amorfo e incomprensibile per lo spettatore medio.
Andrea Pocosgnich
“sommando gli allievi dei laboratori scolastici, delle piccole e medie scuole, delle accademie (quelle private oltre a quella statale), dei laboratori saltuari, delle esperienze sociali e terapeutiche, si avrebbe una quantità di spettatori capaci di soddisfare l’intero mercato”. Premetto che mi occupo del Centro Internazionale La Cometa, e quindi sono assai di parte, in quanto animatore di una scuola privata di recitazione: Io le scuole non le vedrei solo come fornitrici di pubblico. Io aggiungerei che se questa vivacità dei piccoli teatri è possibile è anche grazie alle scuole private di recitazione che negli anni si sono moltiplicate e che hanno consentito a molti di accedere alla professione, senza essere respinti delle risibili ammissioni delle scuole di Stato. Più attori, più spettacoli. Vediamo le conseguenze di questo. Più teatri più attori. Come il barone di Muchausen che si salva dall’affogare tirandosi da solo per i capelli.