A Firenze, al Teatro di Rifredi, è andato in scena Alpenstock di Rémi De Vos con la direzione di Angelo Savelli. Recensione
«È come se la semplicità della vita diventasse di colpo complicata». Grete, irreprensibile casalinga e adorante moglie di Fritz, sembra accogliere con la placidità di un aforisma quella crepa che l’immigrato Yosip ha determinato nella sua imperturbabile esistenza. Un processo irreversibile di disfacimento, di crollo di certezze ataviche come le tradizioni austroungariche da sempre strenuamente difese, che Yosip determina con una virilità sorniona, irresistibile nella sua bonaria ferocia. Tuttavia la frase, isolata dal contesto della pièce, sembra poter riassumere quella dicotomia tra essenzialità e chiarezza da un lato, e complessità del reale dall’altro, entro cui si inserisce lo stesso processo drammaturgico che il francese Rémi De Vos pone a nucleo germinativo di Alpenstock: una sorta di reductio di questioni di difficile sintesi ai formati canonici, riconoscibili ed efficaci, della pochade tradizionale. Una sfida che, in questo senso, sembra riproporre l’essenza stessa della farsa di Georges Feydeau, o della commedia di Oscar Wilde, tentando di mettere alla berlina le idiosincrasie di parte della comunità di riferimento attraverso stilemi comici inseriti in vicende lineari e contesti borghesi. Eppure la forza corrosiva di quei classici – sebbene in gran parte riconosciuta ex post dalla critica successiva piuttosto che dalle platee coeve – sembra qui stemperarsi in una fin troppo facile satira, che sbeffeggia senza graffiare o denunciare.
Presentato al Teatro di Rifredi dopo il debutto della scorsa stagione, Alpenstock costituisce un’altra tappa del regista Angelo Savelli e del centro di produzione teatrale Pupi e Fresedde in un pluriennale percorso di diffusione della drammaturgia europea contemporanea – che ha visto, settimane fa e sullo stesso palcoscenico, la prima nazionale de Il principio di Archimede – e al contempo una nuova incursione in tematiche capitali per i nostri tempi. Se il catalano Josep Maria Mirò affrontava i pregiudizi omofobici e lo spettro della pedofilia, il drammaturgo francese prende di mira la xenofobia, l’isolazionismo e l’ossessione identitaria di parte della società mitteleuropea, con il suo coté machista celato sotto la consueta protezione dei sani valori familiari. Il triangolo marito ‑ moglie ‑ amante, sul quale sono state scritte molte delle pagine più celebri della letteratura teatrale farsesca, trova adesso nella dinamica tra Fritz, Grete e Yosip una torsione politica surreale: l’immigrato «balcano-carpato-transilvano» non è più solo il rivale di un grigio impiegato, maniaco dell’igiene così come della purezza dei costumi, quanto il rappresentante, sensualmente brutale, di flussi migratori sempre più intensi, inarginabili nonostante la violenza che a essi si tenta di frapporre. Tradotto con perizia da Antonella Questa, qui anche efficace e misurata interprete della «donna semplice» Grete, Alpenstock deve il proprio titolo al celebre bastone in legno, testimonianza di ottocentesche escursioni sui versanti alpini, la cui estremità è dotata di una punta metallica. Nei reiterati amplessi tra la donna e i tanti Yosip – cugini simili a cloni di quell’unico modello reso con spassoso squallore da Fulvio Cauteruccio – la pièce dispiega lo spauracchio di un’invasione straniera capace di minare anche attraverso il sesso la placidità dell’idilliaco Kyrolo.
È infatti in un immaginario paese alpino, con le sue vallate, i suoi ghiacciai e una dieta nazionale composta quasi esclusivamente da salsicce, che De Vos tratteggia infatti la piana quotidianità consacrata da Grete a forsennate pulizie. La scena, creazione di Tuttascena, inscrive un candido ambiente domestico – neutro e spoglio se non per il paesaggio montano che campeggia su una parete – al di sopra di una piattaforma, sufficientemente distante dalle quinte per rendere anche sul piano visivo l’impressione di una chiusura fisica e mentale. Dall’unica porta che interrompe lo spazio, abitato pressoché ininterrottamente da Grete, è il Fritz di Ciro Masella, bislacco ed esilarante esponente di un razzismo e di un maschilismo d’antan, a irrompere durante gli acrobatici coiti tra la donna e l’immigrato, incontrato a quel «mercato cosmopolita» dove Grete ha incautamente acquistato un detergente per la casa. L’efferato omicidio dello straniero, colto in «situazione irregolare di violazione di domicilio», è però inane di fronte all’intera stirpe di Yosip Karageorgevitch Assanachu che, un esponente alla volta, si intrufola nel lindo appartamento della coppia per godere dei rapporti con Grete.
La ripetizione parossistica della sequenza intrusione-amplesso-omicidio suscita – grazie anche alle interpretazioni caricaturali, ben valorizzate dalla direzione di Savelli – un’ilarità diffusa che tuttavia non sembra smuovere alcun interrogativo critico: perché proprio quel pubblico che un tempo la farsa sembrava prendere di mira è qui perfettamente consapevole del gioco drammaturgico di De Vos, distante di conseguenza dai rischi di un nazionalismo reazionario e di una becera protezione di una supposta identità etnica e culturale. In un teatro votato a essere «luogo dell’accoglienza e del confronto», come evidenziato da Laura Bevione e Renzo Francabandera nella recensione allo spettacolo apparsa su PAC Paneacquaculture, Alpenstock è un intelligente esercizio di stile, che tuttavia non innova il genere né pungola, con la propria affilata punta, una platea così fortunatamente distante dal palco. Fuori dal teatro, il razzismo e l’invasamento identitario sembrano assumere voci sottili ed educate: meno consolatorie, altrettanto pericolose.
Alessandro Iachino
Teatro di Rifredi, Firenze – aprile 2018
PUPI E FRESEDDE – TEATRO DI RIFREDI
ALPENSTOCK
di Rémi De Vos
traduzione Antonella Questa
regia di Angelo Savelli
con Antonella Questa, Ciro Masella e Fulvio Cauteruccio
costumi Serena Sarti
scene Tuttascena
luci Henry Banzi