Presentato tra gli eventi inaugurali dell’edizione 2018 di Fabbrica Europa, Go Figure Out Yourself è la nuova creazione di Wim Vandekeybus. Recensione.
«U is for utopia», cantano ossessivamente le Chicks on Speed sul palco allestito all’interno della Stazione Leopolda nel concerto inaugurale di Fabbrica Europa 2018, stagliandosi come ombre sullo schermo che proietta immagini dei loro corpi nudi in mezzo al deserto, o surreali estratti di una quotidianità casalinga decostruita secondo estetiche camp. È un ritornello martellante che le performer rivolgono alla sala, individuando in quella comunità che danza, attratta dalle sonorità electropop, il territorio sul quale costruire nuovi edifici del pensiero, coraggiosi e rivoluzionari; è un desiderio che assume la sintassi di una canzone e la morfologia di un’equivalenza tra il tu, lo spettatore, e il non-luogo per eccellenza. Le biografie, reali o soltanto immaginate, sembrano diventare così lo spazio del possibile e del futuribile, gli elementi primari di un patto che, siglato dall’artista, cementi una collettività inesplorata; a noi, che ascoltiamo con rapidi cenni della testa il sound del collettivo tedesco e ci muoviamo estatici, spetta solo il compito di rispondere affermativamente alle proposte, liberatorie, proferite sulla scena.
Proprio questa richiesta di complicità, implicita nel testo di Utopia, sembra poter rivelare una cifra caratteristica di alcuni degli eventi di apertura del festival fiorentino: tracciare le coordinate di «una società che ancora possiamo solo intravedere e che l’arte evoca e invoca» è d’altra parte l’intento dichiarato dai direttori Maurizia Settembri e Maurizio Busia per l’edizione del venticinquennale. Il gruppo fondato da Melissa Logan, Kiki Moorse e Alex Murray-Leslie sembra così aver fornito allo sguardo critico un’inconsapevole chiave di accesso a una modalità riscontrata poi nella creazione di Wim Vandekeybus. Reso sotto forma di un’asserzione ritmicamente ripetuta al di sopra di una base melodica, quell’intraducibile slogan che equipara le nostre esistenze ai potenziali dell’utopia pare costituire infatti l’epigrafe di una tendenza a instaurare un dialogo, non mediato né codificato, tra artista e spettatore, chiamato a sentirsi parte integrante di una comunità caotica e colorata, inclusiva e festosa. Eppure è proprio l’immediatezza nella relazione, la sua fin troppo facile accessibilità a minarne le fondamenta, rendendo il fragile edificio della condivisione, dello scambio osmotico tra palco e platea, resistente soltanto per la durata di uno spettacolo.
È forse questo il rischio principale assunto da Vandekeybus e dalla sua storica compagnia Ultima Vez con Go Figure Out Yourself, presentato in prima nazionale nel suggestivo Spazio Alcatraz: il ricorso a un dispositivo di indubbia efficacia – che trova un’entusiastica adesione nella partecipazione attiva dello spettatore e nella sua preminenza all’interno del processo coreografico e drammaturgico – non sembra infatti smuovere le coscienze o minare le certezze, come il titolo vorrebbe invece suggerire. Non più inscritto sull’architrave dorica del Tempio di Delfi, questo rinnovato gnōthi seautón parla adesso una lingua di strada, energica e colloquiale, e nella gabbia di cemento della sala della Stazione Leopolda pronuncia il suo “conosci te stesso” attraverso i corpi e le voci di Sadé Alleyne, Maria Kolegova, Hugh Stanier, Kit King, Tim Bogaerts. Proprio Bogaerts interrompe l’attesa del pubblico, raccolto in piedi ai quattro lati dello spazio scenico, con un surreale «I’m impressed», rivolto non tanto al numero di spettatori quanto alla loro irriducibile diversità: le prime battute del performer mirano infatti a coinvolgere gli astanti su un piano superficialmente emotivo, in una fin troppo facile elencazione di quelle caratteristiche che potrebbero accomunarli, tra broken hearts e ipotetiche felicità. E tuttavia proprio gli elementi simili non sono sufficienti, secondo Bogaerts, ad arginare la potenza di quel nemico che, ostinatamente e senza tregua, separa gli uni dagli altri, i cuori spezzati da quelli trionfanti: il nulla, quella nothingness che sovrasta le teste e si frappone ai corpi impedendone una mistica fusione.
A costituire infatti il fulcro tematico di Go Figure Out Yourself, più ancora del dichiarato processo di autocoscienza, è un ironico horror vacui, una fantasiosa ostilità nei confronti del nulla: attraverso militaresche aggressioni o passionali danze, il pubblico è invitato a compiere i suoi attacchi verso un nemico subdolo e invisibile. Bogaerts sprona così gli spettatori a stringerglisi attorno, li esorta a fendere l’aria con energiche bracciate, li incita a tuffarsi a terra e a sfidare il vuoto con violenza: eppure, come ricorda con cinismo Sadé Alleyne, a parlare è soltanto un attore, un lier. La drammaturgia di Aïda Gabriëls innesta infatti – al di sopra del meccanismo partecipativo e della riflessione, forse approssimativa, sul vuoto e sul nulla – un ulteriore livello, di natura prettamente metateatrale, volto a demistificare quell’empatica fiducia che ogni artista sembra suscitare presso il proprio uditorio. Diviso in cinque piccoli gruppi, raccolti attorno a un solo performer e a quelle lampade mobili che costituiscono l’unico arredo di scena, il pubblico ascolta così i racconti dell’infanzia dell’artista, un passionale great pretender che dona a tre dei suoi seguaci quei doni dei quali la sua arte sembra nutrirsi: il cuore, le parole, finanche un invisibile proiettile.
Il difficile equilibrio tra il dispositivo di interazione con il pubblico, la riflessione filosofica sul nulla e la beffarda desacralizzazione dell’artista trova tuttavia nell’esplosivo talento del gruppo un sostegno, benché parziale: come è facile aspettarsi dagli ensemble guidati da Vandekeybus, i protagonisti di Go Figure Out Yourself sono atletici e circensi, affabulatori carismatici e sensuali, che proprio nelle sequenze di puro movimento danno sfoggio di impressionanti abilità. Il coreografo belga attinge a piene mani dal repertorio della street dance, che qui declina secondo gli stilemi della break e dell’hip-hop: dissemina così la complessa partitura drammaturgica di brevi frammenti nei quali i danzatori − da soli o in gruppo, nel vuoto dello spazio scenico o piuttosto attorno a singoli spettatori, chiamati a costituire gli elementi attorno al quale il movimento può avere luogo − tessono successioni di salti ed elementi di floor work, alternando freeze a improvvise cadute al suolo.
Il reiterato susseguirsi di momenti nei quali lo spettatore è chiamato a interagire – «move or die» è l’ordine pronunciato da Stanier – a parti in cui la danza dei performer abita da sola lo spazio sembra tuttavia ruotare su se stesso, al punto da rivelare la propria debolezza nella domanda retorica posta al pubblico: «what happens now?». È qui, nella difficoltà di individuare un finale capace di imbrigliare o far deflagrare l’energia sviluppata sul nudo cemento, il vulnus di una creazione seduttiva ma labile, come la piccola folla che si ritrova per brevi istanti a danzare in un’improvvisata discoteca. E ad allontanarsi nuovamente, inconsapevole e felicemente stordita, una volta che la musica e gli applausi hanno lasciato posto al silenzio.
Alessandro Iachino
Stazione Leopolda, Firenze – maggio 2018
GO FIGURE OUT YOURSELF
regia, coreografia, scenografia Wim Vandekeybus
creato e interpretato da Sadé Alleyne, Maria Kolegova, Hugh Stanier, Kit King, Tim Bogaerts
drammaturgia Aïda Gabriëls
disegno luci Davy Deschepper, Wim Vandekeybus
costumi Isabelle Lhoas assistita da Isabelle De Cannière
coordinamento tecnico Davy Deschepper
fonica Bram Moriau
direzione palco Tom de With
produzione Ultima Vez
coproduzione Les Brigittines (Bruxelles)
con il sostegno del Tax Shelter del Governo federale Belga, Casa Kafka Pictures Tax Shelter empowered by Belfius
Ultima Vez è sostenuta dalle Autorità Fiamminghe e dalla Commissione Comunitaria fiamminga della Regione di Bruxelles-Capitale