In scena al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio in un adattamento del celebre romanzo di Fedor Dostojevskij Delitto e castigo. Recensione
«Giungeremo a poco a poco alla conclusione che i delitti non esistono affatto, e di tutto ha colpa l’ambiente. Giungeremo, seguendo il filo del ragionamento, a considerare il delitto persino come un dovere, come una nobile protesta contro l’ambiente… insomma, la dottrina dell’ambiente porta l’uomo a una piena spersonalizzazione, al suo pieno affrancamento da ogni dovere morale personale, da ogni indipendenza, lo porta alla più schifosa schiavitù immaginabile».
Per non sprofondare nella vacuità della sua ragione nichilista, nel 1866 Fedor Dostojevskij scrive Delitto e castigo, anzi, Delitto e pena come vorrebbe una fedele traduzione che proprio merita d’essere rianimata.
Il geniale Russo è, in effetti, dipeso dalle considerazioni illuministe di Cesare Beccaria nel suo trattato – nel 1764 scrisse il pamphlet Dei delitti e delle pene, in quel tempo uno dei maggiori riferimenti per l’Occidente letterario, ma un interprete sconosciuto ha fatto l’errore di restituirci la prima traduzione italiana a partire dal francese (Le crime et le châtiment), privilegiando fin dalla copertina quell’esistenzialismo cristiano che l’autore si è portato appresso come utile secondino per la vita intera. Ecco la ragione dello sfiancamento e dell’ostinazione che caratterizzano il percorso tutto individualista di un ex studente in difficoltà economiche che arriva a compiere il delitto (dapprima verso una vecchia strozzina e contro la sorella malcapitata poi) su cui il romanzo si centra. Passa buona parte del tempo a vacillare tra la condizione d’essere un superuomo che ha impugnato la morale e quella di un povero cristiano con la necessità di essere castigato da un giudice superiore e fare la sua volontà. Ma il castigo non è una punizione antica che ha origine e trova la sua conclusione nello sconto di una pena, la punizione è lo stesso penare: si muore d’aver vissuto.
Ebbene, il carosello di gigantesche tematiche (senso della carità, vita familiare, ateismo o attività rivoluzionaria contro la comunità coeva) che tutti intendiamo riscontrare in un ritratto sociale firmato da un uomo riconosciuto come uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, in quest’opera non converge se non in una figura unica e nella lettura lucida del suo profilo psicologico: il giovane Rodion Romanovič Raskol’nikov .
Per dare ulteriore voce all’uomo e alle sue contraddizioni, si deve uscire dalla terza persona narrativa e concedere il beneficio dell’alta voce a una mente esausta dalle scissioni tra morale e deviazione. Come ha fatto all’Ambra Jovinelli di Roma Sergio Rubini, regista e interprete insieme a Luigi Lo Cascio di un adattamento del romanzo al teatro.
Un’azione scenica che si aggrappa anzitutto alla lettura e che è prosecuzione del progetto di Rubini “teatro non teatro”; nel 2014 ci aveva già consegnato una duplice versione divisa per sere, Una sera Delitto una sera Castigo. Stavolta i due artisti (ce ne sono quattro in realtà, oltre ai protagonisti anche Francesco Bonomo e Francesca Pasquini, che servono a dilatare, a quadruplicare l’animo dei primi attori) mantengono gli occhi sul testo scritto: «il copione fa sempre piacere averlo, uno cammina con il sapere in tasca come con un talismano sacro» – dice Lo Cascio di una scelta che ha sofferto di numerose contestazioni (Marcantonio Lucidi gli giustappone il liceale impegnato nella recita di classe) ma che evidentemente è del tutto subordinata alla capacità attorale; Rubini e il collega non accusano la zoppìa del mancato apprendimento mnemonico, in primo luogo perché l’espediente della lettura mantiene devotamente il pubblico allacciato alla natura prima del testo e alla sua perfetta architettura, in secondo luogo perché la memoria è in esercizio continuo.
Si scoprirà che sono consapevoli d’ogni battuta e ciò permette a Lo Cascio – Raskol’nikov di svelarsi annientato da personalità plurime intermittenti in ragione e sentimento e al Regista-Attore di fargli da contraltare mimetizzandosi nel resto dei personaggi. Ma il romanzo di Dostojevskij è anche polifonia espressa in scrittura, l’occhio che legge persuade l’orecchio d’aver udito il ticchettare che fanno i passi in arrivo o in allontanamento, la chiave incastrarsi e liberare una serratura: questo motiva la presenza di un rumorista sul palco (G.U.P. Alcaro) che si occupa di tradurre in suono ogni sfarfallio della psiche, turbolenze e tachicardie della fuga da se stessi allo scopo di trovare un padrone migliore tra mille giacche senza volto incontrate sulla strada; questa l’idea di allestimento, dispersione e straniamento tra una moltitudine di abiti svuotati del corpo e sorretti allo scuro da una corda, che contribuiscono a illudere la percezione della profondità in scena. Allora la scatola tutta del teatro si fa del colore di una Pietroburgo solinga, di una coscienza incarceratasi dietro alle sbarre, diventa il quadro di un uomo scardassato e del suo attore intento a prestarsi al personaggio fino a confessare al posto suo, fino all’ultimo “sono stato io” per scagionare tutti.
Francesca Pierri
Teatro Ambra Jovinelli, aprile 2018
con Luigi Lo Cascio e Sergio Rubini
adattamento teatrale di Sergio Rubini e Carla Cavalluzzi
con Francesco Bonomo, Francesca Pasquini
e con G.U.P. Alcaro
voci Federico Benvenuto, Simone Borrelli, Edoardo Coen, Alessandro Minati
scene Gregorio Botta
costumi Antonella D’Orsi
musiche Giuseppe Vadalà
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
luci Luca Barbati
aiuto regista Gisella Gobbi
regia Sergio Rubini
produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo
in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana