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Interruption di realtà. L’Orestea nel film di Yorgos Zois

Nelle sale a partire dal 24 aprile, Interruption è il film del regista greco Yorgos Zois che riprende l’Orestea di Eschilo. Visto in anteprima all’Apollo 11. Recensione

Frame dal film.

Su una scena buia, per inquadrature strette e mosse, Clitennestra ed Egisto in abiti contemporanei uccidono Agamennone tornato da Troia. Le più larghe, statiche inquadrature successive rivelano che in un teatro si sta rappresentando l’Orestea di Eschilo. Sul palco sale d’improvviso, ma con passo pacato tale da mimetizzarsi con gli attori in scena, un gruppo di giovani nerovestiti, uno dei quali evidentemente armato. Si presentano come Coro della tragedia, che convoca sul palco alcuni spettatori come interpreti per proseguire la messa in scena secondo le loro direttive.

L’esordio nel lungometraggio di Yorgos Zois, Interruption – presentato a Venezia nel 2015 nella sezione Orizzonti, in sala dal 24 aprile, dopo tre anni – trae ispirazione da un episodio accaduto nel 2002 al teatro Dubrovka di Mosca nel corso di una rappresentazione. Un gruppo di terroristi ceceni tenne allora in ostaggio circa 800 persone: inizialmente, gli spettatori ritennero che l’irruzione del commando facesse parte della messa in scena, scambiando attentatori per attori.

Frame dal film.

È proprio quel senso di ambiguità percettiva ad alimentare tutto il film, mantenendosi e dilatandosi per tutta la sua durata. Sospensione d’incredulità e di credulità sono date come problemi, cose sulle quali occorre interrogarsi: “Cosa sta accadendo?”; “È reale?”, “Fino a che punto io spettatore posso credere o meno a ciò che vedo?”.

Solitamente, i primi minuti di un film, o di uno spettacolo teatrale, sono quelli in cui lo spettatore prende ad ambientarsi, a stabilire un certo grado di confidenza con l’oggetto col quale si misura. Se decide di accettarne regole e codici, se ne intuiscono anche un minimo le chiavi di lettura, tono e andamento – in accordo col suo sapere spettatoriale e il suo senso di realtà – allora accetta il patto che la messa in scena gli propone. Sospende l’incredulità e al contempo la credulità assoluta: se vedesse sullo schermo un treno entrare in stazione, non avrebbe paura al punto tale di fuggire come accadde al pubblico dei Lumière. Uno spettatore sa benissimo che è finto il sangue e non c’è da preoccuparsi troppo, e alle finzioni si può dare quel tanto di credito che basta a sentirsi coinvolti, avvinti, sconcertati, divertiti dalla rappresentazione ma senza davvero temere per la propria vita. In Interruption è in questione quindi il saper leggere la realtà, compresa quella che si produce in una messa in scena teatrale o filmica.

Il Coro realmente armato che irrompe sulla scena si pone come regista della realtà stessa ma fingendosi regista della sola rappresentazione. In questo senso, esercita una funzione politica: dispone gli attori, controlla l’andamento della storia, chiama gli spettatori come interpreti e quelli seduti in sala a prestarsi al crudele gioco (play), a un massacro che non sanno se vero o rappresentazione.

La pistola che l’Oreste scelto tra gli spettatori userebbe contro la Clitennestra attrice è, forse e all’insaputa di tutti, vera, e la platea è chiamata a decidere per alzata di mano se l’uccisione debba o meno compiersi. Il pubblico, visto nella lontananza e penombra della galleria, sfocato, è l’immagine di una massa anonima, passiva, che si illude di poter essere interattiva a determinare la storia (reale o no) e partecipare della politica decisa dal coro, ma che invece interessa solo per il suo poter fare numero di mani alzate.

Frame dal film

Mentre il dramma di Eschilo continua col racconto del passaggio dalla legge arcaica della vendetta al nomos civile della democrazia, l’instaurazione di un tribunale umano pubblico dotato di potere decisionale e sostituito a quello divino e privato, ecco che nel film si delinea invece l’immagine di un pubblico che non pesa più davvero nella cosa pubblica, che non è altro da una massa di spettatori singoli, non più collettività. La massa di singoli, semplicemente e passivamente, vede. Se teatro è etimologicamente il luogo in cui si vede, non è forse neppure sfiorata l’idea che in quella situazione si potrebbe morire davvero, tanto appare ben condotta la regia del coro armato, tanto è credibile la sua politica. E non può far qualcosa perché non sa determinare cosa è reale e cosa no, non ha gli strumenti per accertare il patto prima di accettarlo, sospendere credulità e incredulità, né per decifrare una volta per tutte i codici dell’oggetto col quale si misura. È in questa tensione continua che il film si pone come possibile fotografia dello spazio politico contemporaneo: non più davvero pubblico perché non più comuni, né comunemente accettati, sono i codici per cui è possibile credere o no a quanto accade.

Frame dal film

Ogni politica, oggi più che mai, per funzionare ha bisogno che le si attribuisca un credito, e avvezzi come siamo allo scetticismo verso le fake news eccoci anche noi vincolati a un puro ruolo spettatoriale di una politica divenuta cattiva rappresentazione, sempre meno credibile, che non sappiamo se e come agire.

La regia rigorosa di Zois, la recitazione controllata e raggelata degli attori (ottimo Alexandros Vardaxoglou, corifeo-terrorista sempre ambiguo, così abile nel performare la sua finzione da restarne forse vittima a propria volta), generano programmaticamente un senso di distacco che però dà luogo a una continua tensione a colmarlo, a un coinvolgimento certo più intellettuale che immediatamente empatico. Ci si pone di fronte al film come spettatori ovviamente vedenti, ma diversamente da quelli nel film, vigili, tesi a verificare le regole per cui sia possibile o meno dare credito a quanto si vede. Forse l’unica possibile catarsi che può ancora prodursi è nell’essere continuamente tesi a verificare realtà che possano dirsi pubbliche, esercitarsi, grazie al confronto con l’oggetto artistico in quanto oggetto pubblico a rinvenire codici comuni per cui sia possibile accettare o rifiutare patti, crederli e agirli.

Antonio Capocasale

INTERRUPTION

Regia: Yorgos Zois
Con: Alexandros Vardaxoglou, Sofia Kokkali, Pavlos Iordanopoulos, Hristos Karteris, Romanna Lobats, Angeliki Margeti, Natassa Brouzioti, Aineias Tsamatis, Constantinos Voudouris, Maria Kallimani, Areti Seidaridou, Spyros Sidiras, Christos Sougaris, Alexandros Sotiriou, Elena Topalidou, Maria Filini, Vasilis Andreou, Daphne Ioakimidou-Patakia, Alexia Kaltsiki, Effi Rabsilber, Christos Stergioglou, Labros Filippou, Nikos Flessas
Direttore della Fotografia: Yannis Kanakis
Camera: Yorgos Karvelas
Montaggio: Yannis Chalkiadakis
Musica: Sylvain Chauveau soundscapes+drones Novi_sad
Scenografie: Spyros Laskaris
Costumi: Zorana Meić, Eva Goulakou
Trucco: Anne-Valérie Chiabaut
Hair designer: Angeliki Balodimou, Lefteris Paraskevas
Suono: Hrvoje Petek, Alexandros Sidiropoulos, Aris Louziotis, Hervé Buirette
Co-produttori: Theodora Valenti-Pikrou, David Danesi, Victoria Sankina, Filippos Marmoutas, Panos Papadopoulos, Jean-Yves Rousseaux, Sylvain Fage
Produttore esecutivo: Constantinos Moriatis
Prodotto da: Maria Drandaki, Elie Meirovitz, Siniša Juričić
Scritto da: Yorgos Zois con la collaborazione di Vasilis Kyriakopoulos

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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