Al Teatro Vascello di Roma arriva Frame, omaggio a Edward Hopper prodotto da Koreja per la regia di Alessandro Serra. Recensione.
Giusto un anno fa, al Complesso del Vittoriano di Roma passava una ricca e ben curata personale di Edward Hopper. Protagonisti erano di certo i suoi quadri ma, ancor di più, il silenzio che regnava nei corridoi. Quell’ora e mezza ha, nella memoria, le sembianze di una funzione religiosa. Anche i folti gruppi di persone pareva si sentissero obbligati a esplodere singole unità, distribuendo in giro per le stanze osservatori che poi si bloccavano per diversi minuti nella contemplazione di quelle immagini così statiche, congelate in un tempo che non è più quello e ci si chiede se quello sia mai stato.
La stessa atmosfera di ipnotico raccoglimento imprigiona la platea di fronte a Frame, spettacolo-omaggio a Hopper prodotto da Koreja (Lecce) insieme a Compagnia Teatropersona, per la regia di Alessandro Serra. Il Teatro Vascello di Roma lo mostra in stagione fino a domenica 4 marzo, offrendo l’occasione per un’esperienza spettatoriale davvero insolita.
Il grande palco è ridotto dal mezzo sipario, a delimitare una scatola scenica di due pareti grigie che convergono lievemente verso il fondale, dove – appena decentrata – si apre una cornice rettangolare cava (il frame del titolo), all’inizio riempita di una lastra di compensato, poi tramutata in una sorta di finestra su mondi altri.
Cinque performer (Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio, Giuseppe Semeraro) riempiono lo spazio per settanta minuti di rituale del silenzio: usano il quadro vuoto per apparire e scomparire, tracciano diagonali furtive, tentano di avvicinarsi uno all’altra, per finire quasi sempre a riorganizzarsi in isole individuali, componendo una scacchiera ordinata dove agiscono, di fatto, cinque diverse solitudini.
Alessandro Serra, reduce da diversi premi tra cui l’Ubu al miglior spettacolo per Macbettu, si conferma un grande artista dello spazio e della luce, riuscendo ancora una volta a spargere il proprio segno fortemente pittorico su una meticolosa gestione della prossemica e dei movimenti (con Chiara Michelini) e dando forma a caratteri istantanei, effimeri, che inseguono un personaggio per poi frantumarsi nel gelo invincibile dell’incontro con l’altro. Da sempre questo regista è – come pochi altri oggi, ci torna ancora in mente l’Euforia della coreografa Silvia Rampelli – in grado di creare un ricco e preciso immaginario: nella sua calligrafia, calma e rigorosa fino all’estenuante, questa operazione non punta tanto a ricreare in scena le visioni del pittore americano (composizione, geometrie e abiti), quanto a stabilire con esse un dialogo onirico e però fortemente critico.
I quadri visivi si legano uno all’altro tramite una sorta di sottile associazione libera, il sogno di quella provincia americana desolata e angosciante – quella delle stanze ammobiliate appena, delle coppie che si voltano le spalle, degli sguardi nel vuoto, quella dei palazzi, dei fari e dei pali telegrafici mai del tutto perpendicolari al suolo – rivive in un approfondimento esistenziale. Le musiche polverose e la sonorizzazione di alcune superfici – tratto estetico molto caro a Serra – collaborano nel moltiplicare i piani narrativi, sotto la guida imperante di un disegno luci composito e complesso. Tagli decisi, controluce e ombre nette si alternano in un’organizzazione illuminotecnica che divide la profondità del palco in più sezioni distinte. Rendendosi a volte visibile solo in base alle superfici su cui si posa, la luce riesce a dare l’impressione che nello stesso spazio convivano diverse dimensioni spazio-temporali, anche quando corpi e oggetti agiscono o compaiono a pochi centimetri di distanza. Il risultato sfiora il numero di illusionismo.
Frame è una sinfonia per sguardo, posa, mimo e movimento in cui riverbera la radice impressionista del realismo hopperiano, dove ogni cosa è lì perché l’occhio umano la guardi e, al contempo, fatalmente la fraintenda e la smarrisca: nell’ordine coreografico, marcato da ripetizioni e pattern circolari, momenti ironici stemperano le voragini esistenziali, negli occhi fissi di uno scolorito Arlecchino (che, spiega Serra, citando Two Comedians rappresenta lo sguardo dell’autore) e nel suo tentativo di spostare l’aria c’è davvero ogni respiro di questo nostro presente. E così questa opera tenacemente artistica giustifica, con la macchina della precisione, ogni deriva estetizzante, usando la pittura come trampolino per un salto squisitamente teatrale. A capofitto nel buco nero dell’anima.
Sergio Lo Gatto
Teatro Vascello, Roma – marzo 2018
FRAME
progetto e ideazione Alessandro Serra
con Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio, Giuseppe Semeraro
regia, scene, costumi e luci Alessandro Serra
realizzazione scene Mario Daniele
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
un ringraziamento a Anna Chiara Ingrosso
tecnici Mario Daniele, Alessandro Cardinale
organizzazione e tournée Laura Scorrano e Georgia Tramacere
produzione Koreja
co-produzione Compagnia Teatropersona