Dopo il debutto al Teatro della Tosse, Disgraced di Ayad Akhtar, tradotto e diretto da Jacopo Gassmann, arriva al Teatro India di Roma. Recensione.
Lo abbiamo scritto tante volte, quasi in ogni occasione in cui ci siamo trovati di fronte un testo di drammaturgia contemporanea anglosassone: in quell’area geografico-culturale la sperimentazione teatrale sta soprattutto nel testo, nelle sue tematiche, nel suo linguaggio, nella sua struttura. In particolare quella americana ha sulle spalle e intorno allo sguardo la bulimica produzione cinematografica, che riempie le sale e i festival e che ha nella sceneggiatura il suo punto di forza. Qui in Europa siamo più abituati a una regia che taglia, cuce e cambia segno alle parole degli autori, disegna in scena immaginari altri, ma una parola autorevole e presente dovrebbe riuscire a sopravvivere oltre ogni tipo di candeggina.
Mentre la prima versione aveva aperto la stagione dello Stabile di Torino per la regia essenziale ed eloquente (tutta bianco e terriccio) dell’austriaco Martin Kušej e la traduzione di Monica Capuani, al Teatro India di Roma arriva – coprodotta dal Nazionale romano con il Teatro della Tosse (qui il debutto) – una versione tradotta e diretta da Jacopo Gassmann. Il testo Disgraced firmato dallo statunitense Ayad Akhtar, è stato vincitore nel 2012 del Joseph Jefferson Award, e nel 2013 del Premio Pulitzer for Drama e dell’Oble Award.
La storia è quella di Amir Kapoor, rampante avvocato dell’alta finanza newyorkese, le cui origini pakistane – a lungo tenute in un discreto silenzio insieme a un problematico rifiuto della religione islamica – finiranno per decretarne il fallimento come professionista e come uomo. La moglie Emily è una pittrice che invece dall’Islam si lascia ispirare, mentre tenta di entrare nelle grazie del potente gallerista e critico ebreo Isaac, sposato con Jory (nel testo un’afroamericana). A mettere nei guai Amir è la scelta di sostenere il nipote Abe (che era Hussein prima di cambiarsi nome) nella difesa del “suo” imam, accusato di raccogliere fondi pro-Jihad. Questo – complice la stampa tendenziosa – condurrà l’uomo al centro di un labirinto di speculazioni sulle origini musulmane, sul proprio status spirituale di «apostata» e sull’ipocrisia di una società ultra-liberale che però non riesce a scrollarsi di dosso il retaggio di inimicizie «tribali».
Nella lunga scena della cena a casa di Amir ed Emily, le due coppie si fronteggiano in un duello etico e morale, portando a galla tensioni razziali, politiche e (come se questo fosse il corridoio verso la disfatta) culturali.
Il testo di Akhtar è come un vaso di Pandora: laddove un personaggio scopre appena il fianco, la ferita si allarga e il sangue scorre dappertutto. La struttura è quella tragica, con l’eroe che compie empietà senza davvero esserne consapevole, guidato da una sorta di destino che neppure gli dei (quali che siano) possono vincere. La scena asettica di Nicolas Bovey è il classico interno upperclass lattiginoso e lucidissimo (al punto da riflettere i neon che lo illuminano) nel quale campeggiano un divano, un tavolo, il dipinto di punta di Emily e l’immancabile mobile bar, dove lo scotch scorre a fiumi. Usando l’intero set come sfondo, negli intermezzi (con musica elettronica) che fanno passare i mesi vengono proiettate immagini di folle anonime e nuvole rapide. È, o almeno sembrerebbe, l’America ferita post-post-post-11 Settembre, dove si cerca di andare avanti senza guardare più il cielo. La finestra nel centro della parete di fondo ospita un velo opaco, dietro al quale le sagome appaiono pensierose e, anche qui in pieno stile tragico, all’occorrenza accade la violenza.
Sulle spalle degli attori – nel cui personale Gassmann ha voluto conservare la sembianza delle origini esotiche – sta un groviglio di sentimenti contraddittori e il racconto di una società che, per quanto vicina sia, non è la nostra. Il ruolo del nipote Abe, che vive una radicalizzazione islamica di ritorno, è piccolo ma determinante e lasciato troppo in fretta a un attore (Marouane Zotti) non ancora pronto. Se la Emily di Lisa Galantini si lascia rapire da un parlato forse troppo didascalico e unidirezionale, Saba Anglana (Jory) gioca un ruolo non decisivo da testo, offrendo tuttavia una efficace sponda agli altri, mentre l’Amir di Hossein Taheri – un protagonista spinoso e controverso – fatica a trovare la quadra, ma compie un buono slancio dall’ingresso di Francesco Villano (Isaac), unico a entrare e a uscire solido, ora tagliente e ora fragile, consapevole del proprio passo e del proprio corpo. Proprio l’uso del corpo – così importante nell’espressione dei non detti su cui il testo si fonda – è ciò che pare ancora necessario curare: la regia di Gassmann sceglie di lasciare all’immagine e al testo il compito più gravoso, mentre la scena fissa chiederebbe una dinamica di sguardi più raffinata, meno rassegnata a ciò che le battute, a volte in maniera didascalica, vengono a suggerire.
Grande è l’ambizione di Akhtar nel tenere insieme i patimenti dell’ipocrisia falso-liberale americana, lontano è ormai quell’11 Settembre, a noi che lo abbiamo visto solo alle televisioni e sofferto nell’altalena dei mercati. Prossimo, tuttavia – e il primo merito di Gassmann è quello di darci, in un’agile traduzione, una visione ultra-occidentale – è lo spettro dell’intolleranza; non tanto quella sociale, quanto quella esistenziale, quel monolito di certezze materiali pronto a sgretolarsi nel confronto con l’altro. E una costante attenzione a tale equilibrio didattico-morale potrebbe risultare decisiva nel rodaggio di questo spettacolo.
Sergio Lo Gatto
Teatro India, Roma – marzo 2018
DISGRACED
di Ayad Akhtar
traduzione e regia Jacopo Gassmann
con Hossein Taheri, Francesco Villano, Lisa Galantini, Saba Anglana, Marouane Zotti
luci Gianni Staropoli
scene Nicolas Bovey
costumi Daniela De Blasio
foto Donato Aquaro e Laila Pozzo
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Fondazione Luzzati – Teatro Della Tosse