Dopo il debutto al Teatro Comunale di Bologna, arriva a Firenze Petruška di Virgilio Sieni, una rilettura del classico dei Balletti Russi. Recensione
Petruška muore. Muore ferito da un fendente della scimitarra del Moro, muore in mezzo alla folla accorsa nella piazza di San Pietroburgo per la fiera del Carnevale, muore per quell’amore ostinato e non ricambiato che lo lega alla Ballerina. Petruška muore, ma quando il Ciarlatano scuote il suo corpo esanime, sollevandolo sopra la propria testa, soltanto segatura fluisce copiosa dalla ferita. Petruška è un burattino, un attore meccanico la cui illusoria esistenza dipende da gesti e volontà altrui; lo scandalo del dolore, del declino, della decadenza non possono in alcun modo scalfirlo. Eppure, quando il suo fantasma appare trionfante sul tetto del teatrino, a monito ed eterno tormento del proprio carnefice, è a tutti gli effetti una vita ciò che sembra rimpiangere.
È qui, in questa inesausta interrogazione sullo statuto della realtà della scena e sull’ambigua presenza che contraddistingue chi quella scena abita, che Petruška sfida i suoi spettatori sin dal debutto al Théâtre du Châtelet nel giugno 1911, quando a vestire i panni del celebre personaggio nel balletto musicato da Igor Stravinskij e coreografato da Michel Fokine fu Vaclav Nijinskij. E ancora più sembra farlo oggi, in questa geniale rilettura di un classico della danza del Novecento che Virgilio Sieni ha presentato in prima nazionale al Teatro Comunale di Bologna e che adesso giunge negli spazi di CANGO, come evento di apertura dell’edizione 2018 de La democrazia del corpo. Nel destino del burattino, manifestato nei corpi di sei magnifici danzatori, il coreografo fiorentino sembra concentrare da un lato il suo storico rapporto con l’eredità dei Balletti Russi – di cui il confronto del 2015 con Le sacre è stato il precedente esito – dall’altro la feconda ricerca attuale, condivisa con Mimmo Cuticchio, sulle possibili e immaginifiche relazioni tra gesto e azione del pupo, espresso dal progetto Atlante_L’umano del gesto. Ma il confondersi tra pulsione animata e azione inorganica, il sovrapporsi del movimento del performer a quello – qui soltanto evocato – della marionetta, è adesso occasione di indagare uno spazio liminale, quell’ideale membrana, continuamente oltrepassata dagli sguardi del pubblico, che distingue la realtà della platea dall’irreale palcoscenico, la vita dalla creazione artistica: per domandare, a se stesso e a noi, quali significati attribuiamo a ciò che vediamo, immaginiamo, sogniamo al di là del velo.
Coerente è quindi il preludio alla danza di Petruška che Sieni disegna sulla musica di Giacinto Scelsi: Chukrum, criptico titolo della creazione per soli archi composta nel 1963, è adesso una partitura in quattro quadri non osservabili ma soltanto percepibili, distorti da quello spesso velatino opaco che, posto sul proscenio, frattura la limpidezza della visione. Le eccellenti luci di Mattia Bagnoli plasmano sullo schermo traslucido macchie, ombre, contorni moltiplicati ad libitum: un riflesso parziale di ciò che avviene su quel palco negato allo sguardo. A poco a poco, nel progressivo crescendo dei violini, l’astratto colore – l’azzurro, il bianco, il rosso – si concretizza in giunture e arti, in silhouette di corpi: a emergere sono pure forme, un miraggio che si condensa per alcuni istanti nei palmi delle mani appoggiati sulla superficie o nella chiarezza primigenia di un braccio. Prendendo in prestito il titolo di un indimenticato spettacolo dei Pathosformel, esteticamente affine seppur nella differenza degli esiti e della poetica a esso sottesa, ciò che si delinea alla vista è una “timidezza delle ossa”, un ritratto abbozzato, al contempo sensuale e delicato, di un gruppo di anime che sembrano scoprire se stesse attraverso il contatto. Fugaci abbracci o schiene sinuosamente curvate lasciano il posto a posture michelangiolesche, a pietà laiche nelle quali il corpo del deposto, soltanto intuito, ha gli occhi bistrati di nero. Sono istantanee di un’umanità osservata da un mondo lontano: da quella galassia posta al di qua del velo, dove le ombre dei danzatori, in piedi dietro il telo, sembrano spiarci.
Ha così l’effetto di una rivelazione la lenta discesa verso terra di questo sipario lattiginoso: un cambio scena perfettamente integrato al tessuto drammaturgico nel suo progressivo svelamento della verità del palco, prima soltanto ipotizzato. Ecco apparire sei malinconiche marionette, che Elena Bianchini veste di organza: pantaloni e gorgiere, casacche e copricapi – diversi gli uni dagli altri ma accomunati da una tenue impalpabilità – lasciano intravedere le forme dei corpi di Jari Boldrini, Ramona Caia, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu, Andrea Palumbo. Celati restano invece i loro volti, nascosti da maschere in tessuto alle quali il pesante trucco, slavato e colato in rivoli di colore, sembra conferire un vissuto e una biografia. Ai tre lati, l’allestimento di Giovanni Macis costruisce le quinte con veli trasparenti e leggeri: nella piazza di San Pietroburgo e nella stanza di Petruška – così come nella Sala grande di CANGO, o in qualsiasi altro teatro – i confini tra la scena che appare primariamente alla vista, e quella realtà oscena che fluisce oltre il palco, sono inconsistenti e fragili. La tragica vicenda di Petruška sembra infatti contenere in nuce l’essenza e il mistero stessi dell’arte teatrale: consumatasi tra la scatola dove anch’essa ama e sogna, e la piazza dove il Ciarlatano ne vivifica le membra per la gioia dei passanti, la storia del burattino acquista grazie a Sieni un’esponenziale moltiplicazioni di piani e prospettive. I sei performer agiscono infatti anche lo spazio dietro i veli, quasi a replicare l’estetica di Chukrum, e con essi sembrano giocare, animandoli con i movimenti delle braccia o sospingendoli fino al centro dello spazio; qui i danzatori sono al contempo folla e Ballerina, Moro e Ciarlatano, immagini replicate di Petruška e sue singole parti, che il movimento ricompone. Non ci sono protagonisti e comprimari, nella danza di Sieni: l’ensemble agisce con attitudine orchestrale, e traduce la vicenda, perfettamente riconoscibile nonostante l’assenza di ruoli prestabiliti, in un chirurgico equilibrio di azioni corali e assoli. La morte, o forse lo spettro di un’esistenza inorganica, appare così annunciata fin dai primi istanti, in rapide sequenze nelle quali singoli danzatori incrinano la coesione del gruppo con improvvise cadute, o assumendo statiche pose da marionette; ma sono accenni all’interno di quadri nel quale il gioioso caos del Carnevale pietroburghese appare nitido nelle architetture, nelle brevi schiere marciate come parate militari, soprattutto in quel reciproco sostenersi e accompagnare il gesto. I danzatori – le mani dell’uno sul braccio o sulla caviglia dell’altro – sono un’entità unica e mutevole, un continuum fluido dal quale le singolarità emergono rapide per poi essere di nuovo assorbite. Tre sono i performer chiamati a interpretare il Moro, l’assassino di Petruška: il loro movimento feroce e le maschere scure che indossano quasi collidono con la pallida ironia con cui, poche sequenze più tardi, cinque danzatori puntano fucili di dita e braccia sullo spaventato Palumbo, o con la commossa gestualità con cui Caia, indossando una gonna di tulle, porta in scena l’ambivalente amore della Ballerina. Gli assoli – quello esplosivo ed energico di Palumbo, o quello di straordinario e introspettivo rigore di Boldrini – si susseguono e anticipano una conclusione sospesa come le quattro note pizzicate degli archi che chiudono la partitura. Seduti a terra, la schiena contro la parete, rigidi e ormai inerti, i performer si mostrano ancora a noi dietro i veli bianchi; ma lo spegnersi delle luci, improvviso, non sembra poterne offuscare la caparbia vitalità, l’ostinata gioia.
Alessandro Iachino
CANGO, Firenze – marzo 2018
PETRUŠKA / CHUKRUM
coreografia e spazio Virgilio Sieni
musica Igor Stravinskij / Giacinto Scelsi
interpreti Jari Boldrini, Ramona Caia, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu, Andrea Palumbo
costumi Elena Bianchini
luci Mattia Bagnoli
allestimento Giovanni Macis
produzione Compagnia Virgilio Sieni in collaborazione con il Teatro Comunale di Bologna