Una riflessione sul teatro nel cinema di Ingmar Bergman il quale, sicuramente più noto come regista cinematografico, ha ricoperto anche un ruolo importante come regista teatrale in Svezia.
Se si è da soli sulla scena, ad alcuni accade di farsi delle domande, e fare dei film è rispondere. Questo, sosteneva Godard, il modo di far cinema di Ingmar Bergman, del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita, celebrato un po’ ovunque in vari modi, tra cui la rassegna in corso fino al 4 marzo al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Spesso nel suo cinema sono in scena persone sole coi loro interrogativi esistenziali. Eppure, quest’uomo nordico, spigoloso, figlio di un rigido pastore protestante, ateo intriso di cristianesimo senza trascendenza che all’apice del successo internazionale di metà anni ’60 si ritira a vivere e girare – come in una Cinecittà personale – su un’isola del Baltico (Fårö), non è una monade, come non lo è la sua opera, per quanto marcata da originalità e unicità. Tutto il suo cinema non ha a cuore che l’apertura altruistica, l’amore tra gli uomini come sola possibile manifestazione del divino, antitesi dell’egoismo, degli incubi solitari.
Il farsi domande in privato che muove la creazione di una risposta invece pubblica del film, non può però essere totalmente privo del confronto con altri, allora. «Per qualche anno potrò ancora fare del cinema e poi la mia energia fisica comincerà a declinare, ma continuerò a lavorare con il teatro finché saranno obbligati a farmi uscire coi piedi davanti e la testa dietro, perché a teatro si tratta di partecipare a esperienze assieme ad altre persone e di dare suggerimenti e aprire degli orizzonti».
Uno dei motivi più originali e interessanti del cinema bergmaniano è dunque il rapporto col teatro. Interessa qui vedere, al di là delle consonanze più manifeste, quanto della pratica teatrale è più profondamente radicato nel modo di lavoro, nella poetica, e in generale nutre la visione del mondo di Bergman. Prolifico autore di drammi in gioventù, alcuni dei quali particolarmente apprezzati dalla casa di produzione Svensk Filmindustri che lo assume come sceneggiatore, Bergman apre il primo lungometraggio Crisi (1946) con una voce narrante che dice «Si alzi il sipario».
Nel corso degli anni, parallelamente alla carriera cinematografica, Bergman continua incessantemente a scrivere per il teatro, a curare messe in scena, dirigere le principali istituzioni teatrali svedesi dove incontra alcuni degli attori che più spesso torneranno nei film (Ingrid Thulin, Harriet Andersson, Max von Sydow, Bibi Andersson), fino al Dramaten di Stoccolma. La storia teatrale svedese del secolo scorso ha quindi in Bergman una delle sue figure principali, non riconducibile a grandi scuole o modelli, capace di rompere con modalità convenzionali di messa in scena e di trovare nuove soluzioni per testi della tradizione nazionale dell’800 e al contempo di arricchire il repertorio con attenzione a testi contemporanei. Ad esempio, la sua messa in scena del Caligola di Camus data infatti 1946, pochi mesi dopo la prima parigina dell’anno precedente. Negli anni successivi firmerà regie da Tennesse Williams, Eugene O’Neill, Peter Weiss tra gli altri.
Scorrendo la filmografia di Bergman, pare quasi che molti dei suoi “film-pietra miliare” che inaugurano una fase nuova del suo iter creativo, traggano nutrimento anche dalle scoperte effettuate nella pratica teatrale, come artista ed essere umano. Il settimo sigillo (1956) deve ad esempio l’origine al dramma Pittura su legno, scritto anni prima come saggio per la Scuola d’arte drammatica di Malmö; nel più sperimentale Persona (1966), coevo alla sua messinscena de L’istruttoria di Weiss, la foto del bambino con le mani in alto di fronte alle SS nel ghetto di Varsavia che tanto terrorizza la protagonista del film fa rima con la Shoa nell’opera del drammaturgo tedesco; ancora, Sussurri e grida (1972) vede una morta che chiede alle sorelle in vita di non essere dimenticata, in un’apertura al sovrannaturale che fa pensare a Ibsen e soprattutto a Strindberg, al quale sembra rimandare anche il décor della camera rossa al centro del film.
Proprio la drammaturgia di Strinderg è del resto il punto di riferimento principale per l’orizzonte tematico ed espressivo di Bergman. La profondità anche dolorosa dello scavo psicologico del drammaturgo coi suoi demoni interiori, l’attenzione alla dimensione onirica o al paranormale, si sposa a un cinema la cui fascinazione risiede anche nella fantasmagoria, tracciando il terreno in cui si muovono i personaggi e le storie del regista.
È però la sperimentazione o la suggestione avuta in teatro che spesso permette a Bergman di comporre opere in tutto cinematografiche, specialmente quando vuole programmaticamente il proprio film nuovo e diverso dai precedenti.
Come in uno specchio (1961) è girato nello stesso anno della sua messa in scena de Il gabbiano, e il regista pensa infatti il film come «opera da camera per il cinema». Accantonando la varietà di spazi dei film precedenti in favore di un appartamento su un’isola, diminuendo il folto numero di personaggi (diversamente per esempio da Sorrisi di una notte d’estate, per altro marcato da echi di Marivaux, Molière), e riducendo anche l’arco temporale in cui si svolge la vicenda, Bergman compie un lavoro di essenzializzazione. Teatralmente, priva il cinema di una costruzione additiva di elementi, come accade nei successivi Luci d’inverno e Il silenzio. Più di quanto non fosse stato in precedenza, qui Bergman è scandagliatore dell’interiorità dei suoi personaggi. Proprio la sottrazione consente infatti di concentrare una maggiore intensità in pochi elementi, il che implica la possibilità di sfruttarne il massimo del potenziale: quasi, a suo modo, “un teatro povero”, che però mantiene specificità e distanza dal linguaggio teatrale in senso stretto. Lo si nota, ad esempio, nell’uso delle luci, a teatro spesso usate più liberamente, svincolate dal momento temporale in cui si svolge la vicenda, stilizzate e più in rapporto con l’intimo senso di una scena. Al contrario, Bergman e il suo direttore della fotografia Sven Nykvist cercano di lavorare il più possibile «nel rispetto della luce naturale», pur integrandola alla psicologia dei personaggi, forte di contrasti marcati e in rispondenza tra interiorità e mondo fisico.
Inoltre, nel suo progredire la narrazione si affida meno ad azioni che si determinano le une dalle altre, articolandosi più come riflessioni dei personaggi sul loro stato d’animo, e la drammaturgia è fortemente dialogica. Vero che i protagonisti di Bergman sono spesso dei solitari, come il regista stesso, che non trovano relazione o comprensione verso e negli altri. Sono come cavalieri in cerca, monologano di fronte a un dio silente o assente. Eppure i personaggi del suo cinema dialogano molto, e anche quando monologano lo fanno come interpellando lo spettatore (lo sguardo in macchina di Monica e il desiderio). Quest’arte di spettri intangibili su schermo (nell’incipit di Persona un bambino cercava invano il contatto con l’immagine proiettata di volti femminili, forse materni), dove si brama un dio che resta muto o smarrito, si risolve invece nel ritrovare un altro, nella possibilità che un dialogo e un contatto ci siano. Le battute conclusive di Come in uno specchio erano infatti «Karin è circondata da Dio perché noi l’amiamo, allora?» e «Papà ha parlato con me».
Il teatro è spesso descritto da Bergman proprio come esperienza di contatto autentico, profondo, di creazione comune tutt’altro che individuale, e addirittura in senso lato come erotica, arrivando a parlare anche di «sensualità dell’attore». Un cinema solitario che cerca la flagranza corporea del palcoscenico, quindi. La stessa concezione dei rapporti umani nel cinema di Bergman deriva in questo senso dall’esercizio – relazionale – teatrale: «Il principale compito dell’attore è […] quello di raggiungere l’armonia con gli altri attori. Senza un tu non c’è un io», scrive il regista nell’autobiografia. L’io solitario della scrittura si nutre delle aperture e delle sperimentazioni del tu teatrale, esperienza fatta a contatto con altri uomini, attori che condividono col regista il palco come il set, incrinando l’essere solitario dell’atto creativo.
D’altra parte, il film di Bergman che più direttamente ed evidentemente si misura col teatro, mostrandone proprio una rappresentazione in quanto tale, è Il flauto magico (1975) da Mozart. È un po’ una favola, e, ancora, a suo modo una storia d’amore che passa per l’esperienza sensuale della musica: nell’Ouverture si succedono infatti i primi piani degli spettatori, dei quali è il regista filma, sinestesicamente, l’ascolto. È una comunità che assiste alla rappresentazione: non si può essere soli nel condividere un’esperienza artistica. Parallelamente all’opera scorre l’esperienza del dietro le quinte: Papageno che si precipita in scena in ritardo, i cantanti che fumano tra i camerini. Su tutto la musica, sensuale, immediata, di Mozart. La ricerca di un accordo, la possibilità di un’armonia che sconfigga il demone interiore dell’assolo che affligge i personaggi: neppure la più solitaria arte di (strinberghiani) spettri, né forse l’esistenza stessa sarebbero possibili senza. Il teatro, tra persone e anche dentro al cinema, è il modo per dire tu senza il quale non ci sarebbe alcun io.
Antonio Capocasale
L’immagine di copertina è tratta dal sito www.ingmarbergman.se